Ieri è tornato un appuntamento, anzi, l’appuntamento nelle case degli italiani – che d’altronde di questi tempi non hanno molte alternative al domicilio o residenza che sia – in pandemia: la conferenza stampa di presentazione Dpcm.
Per questa XXII edizione della kermesse che ha ristretto, colorato, allentato e certamente intrattenuto il paese, il premier ha optato per un format rodato – con domande ai giornalisti e il fido Casalino al suo fianco – e una comunicazione curata per quello che ormai è un rendez-vous della televisione nostrana.
Il connubio tra media è politica non è certamente una novità, tantomeno in Italia.
Il nostro paese ha fatto dono al mondo della propaganda – con la Congregatio de Propaganda Fide, istituita da papa Gregorio XV nel 1622, in piena Controriforma – quando, per citatare il Metternich, era ancora una semplice «espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha valore politico». Prima che un processo spirituale, politico e militare che ha portato l’Italia dal secolare frazionamento politico all’unità, Il Risorgimento è stato un quotidiano fondato nel 1847 da un altro conte destinato a divenire Presidente del Consiglio: Camillo Benso. E che dire del fatto che la principale cesura della nostra storia nazionale, il Ventennio, ha avuto come protagonista provvidenziale e sciagurato un figlio del secolo che di professione faceva il giornalista?
Per una visione d’insieme un po’ più delineata su splendori e miserie della comunicazione politica da oltre mezzo secolo a questa parte, abbiamo fatto quattro chiacchiere con Luigi Luca Borrelli, il caporedattore di Cinema della nostra categoria 7 Muse, e Edoardo Oscar Canavese. Insieme hanno scritto un saggio che tenta di conciliare con curatela storica e narrativa, in 250 pagg. circa, 60 anni di storia della comunicazione politica nella nostra amata e odiata televisione, dall’esordio nella Rai del Monopolio nell’ottobre del 1960 alle elezioni del 2018 (La comunicazione politica televisiva. Da Moro e Granzotto a Salvini e Gruber, da Berlinguer e Minoli a Berlusconi e Floris, Guida Editore, 2020);
L’evoluzione dei medium di comunicazione: si è iniziato con i giornali (ai tempi del Risorgimento), poi la radio, la televisione e infine i social…
Edoardo Canavese: In Italia il giornalismo è politica, fin dagli albori dell’Unità. Un Paese povero e analfabeta riduce la platea dei lettori al ceto medio cittadino, che sa scrivere, leggere, che può votare: la stampa risorgimentale è democratica, borghese, liberale, espressione del Parlamento. L’onda socialista apre alla politica – e alla lettura – le masse escluse, e i giornali di partito s’impongono come strumenti di propaganda e di pressione sulle istituzioni: basti pensare alle conseguenze che avrà sulla storia italiana la decisione dei socialisti di cacciare nel 1914 il direttore dell’Avanti!, un certo Benito Mussolini. Nel silenzio fascista s’impone la radio controllata dal regime, ma l’EIAR si asservirà ai desiderata del Duce solo dopo la guerra d’Etiopia, quando le esigenze belliche richiederanno un’influenza costante sull’opinione pubblica. Finita la guerra, dopo la parentesi delle radio resistenziali, la Rai si sostituisce all’EIAR, e la Dc al Pnf, ma la formula (e i dirigenti) non cambia: la radio è affare del governo, e così sarà la televisione in bianco e nero. Basta guardare una qualsiasi puntata di Tribuna elettorale, prima trasmissione tv che fa parlare i politici, per respirare l’ansia di conduttore e regia affinché nulla sfuggisse all’occhio di Dio. Intorno alla Rai sopravvivono i giornali, di partito e indipendenti. Sopravvive soprattutto il legame con la politica, che accompagna i media tra le due età della Repubblica fino allo sconvolgimento digitale: i quotidiani riempiono il web e scompaiono dalle edicole, la politica dilaga sui social e svuota le sezioni di partito.
Quali sono le piattaforme che usano di più i politici? Ce n’è qualcuna più di destra e qualcuna più di sinistra?
EC: I partiti tradizionali faticano sui social. Renzi ha “digitalizzato” il Pd, puntando tutto sulle campagne hashtag di Twitter e sulle dirette Facebook con il #matteorisponde: caduto lui, la comunicazione dem è diventata meno personalistica e più annacquata nel buonismo. Il M5S nasce prima in rete che in piazza, e oggi monopolizza tutti i social, sbaragliando gli avversari: ma la sua comunicazione è autoreferenziale, preconfezionata, decisamente poco popolare. La Lega ha invaso e salvinizzato Facebook, attraverso sponsorizzazioni e un’attività di posting tamburellante e incentrata tutta sul segretario leghista. Oggi Salvini punta soprattutto sui social dei più giovani, su Instagram e su TikTok, acconciando contenuti immediati e ficcanti: una macchina comunicativa aggressiva e asfissiante, soprannominata non a caso “La Bestia”.
Luigi Luca Borrelli: Quando vanno di “finezza” direi Twitter, che rimane forse il contenitore più dignitoso per quelle orge di pensieri sparsi e spesso senza ordine che vanno infittendosi senza seguire sempre un iter logico. O che sono, per reazione, messaggi talmente logici e scontati da passare costantemente in secondo piano. Verità è che io vivo i social come tutti i giovani, ma mi sono sempre guardato dallo studiarli. Per lavoro mi sono anche occupato di comunicazione politica sui social e fatico a ricordare qualcosa al mondo di più noioso, perlomeno quando questo è un iter concepito con modalità incessanti, continuative, logorroiche. Sulle piattaforme ci stanno un po’ tutti, forse i partiti populisti hanno tratto vantaggio da una comunicazione così orizzontale come quella del web, ma non ne farei una questione di destra e sinistra. Quello che ho da dire è che quasi nessun politico è un comunicatore che ha il cambio di passo e per questo si perde nell’ammorbare se stesso e il suo elettorato unitamente ai detrattori che lo insultano: d’altronde non sono scrittori, né creativi, né intellettuali. Quasi mai. A loro discolpa va anche detto che sono costretti dalle contingenze a veicolare messaggi non sempre complessi, spesso piatti. Minoli diceva già anni fa che la politica va troppo in televisione e che non c’è così tanto da dire: figurarsi sul Web.
La storia della nostra televisione: come è cambiata dagli anni del servizio pubblico ad oggi, passando per la rivoluzione Mediaset…
EC: Il senso del servizio pubblico si evolve parallelamente agli sviluppi politici nazionali. La televisione degli esordi è una tutrice che insegna a leggere, a scrivere, che trasmette canzonette e sceneggiati storici, che spiega come votare durante le pudiche Tribune politiche. Educa, informa, intrattiene, secondo la lezione dei democristiani toscani che pilotano la Rai dall’alto, escludendo gli altri. La tempesta del Sessantotto però rivela la vivacità di un popolo giovane che mal sopporta la predica delle istituzioni paludate: la Rai cerca di rincorrere il cambiamento, di superarlo, cambiano gli uomini, si tentano riforme, si piomba nel vizio più italico che anticipa il crollo di qualsiasi potere, la spartizione, o lottizzazione per non scomodare i tetrarchi. Democristiana sul primo canale, socialista sul secondo, comunista sul terzo: la Rai sperimenta nel solco tracciato dai partiti, avvicinandosi ai militanti e allontanandosi dai telespettatori. […]
LLB: La Rai del monopolio si accompagnava a un’Italia rurale e cattolica, oserei dire conservatrice e tendente però a un certo comunitarismo antiliberista, oltre che antiliberale. I suoi intenti erano pedagogici, quasi scolastici. Diciamo talvolta anche noiosi, perché spesso così era, almeno se consideriamo il tutto con gli occhi nostri. Ma in questa pedagogia che sapeva di banchi scolastici trovavi il Maigret di Gino Cervi o una sceneggiato come I fratelli Karamazov in prima serata su canale unico, e milioni di italiani venivano a conoscenza di uno dei più complessi romanzi di Dostoevskij. Ve lo immaginate oggi? Poi tutto questo venne a non avere senso per un motivo molto semplice. L’Italia era cambiata. La nascita delle TV private servì a mettere un po’ di pepe anche nella Rai; penso alle vecchie Tribuna politiche: a fine anni Settanta la trasmissione sembrava di dieci anni più vecchia della società che raccontava. In questo senso Mixer di Minoli, che nasceva nel 1980, sembrava immettersi nella scia di una sfida alla concorrenza delle nascenti Tv private. Ed era anche un programma io credo fortemente influenzato da un decennio che sarebbe stato dominato in lungo e in largo da Reagan e dalla Thathcer, nella forma quantomeno se non nella sostanza; il ritmo si fece più sostenuto, le domande più celeri e sferzanti, secche. Il montaggio sincopato, alla maniera di Sam Peckinpah, non lasciava tregua e tempi morti. La camera braccava l’intervistato, il suo volto ingigantito sullo schermo fotografava ogni impercettibile sua sfumatura. Sul breve periodo ritengo che la rottura del monopolio sia servita a svecchiare la Rai. Sul lungo periodo è stato però un disastro. Spesso la Rai per stare dietro a Mediaset o ad altre Tv private si è imposta un tipo di programmazione e di televisione molto mediocre, senza neanche avere le armi affilate delle altre Tv. Così oltre a snaturarsi ha perduto quasi di senso, e non solo perché ha lasciato indietro il suo intento pedagogico, che ovviamente non è sempre rilevante. D’altro canto va invece detto che Mediaset, anche sui duelli televisivi pertinenti la politica, è riuscita a trovarsi un suo format che era ben altro che una nicchia, anzi. Ma alla fine le formule televisive per raccontare la politica o le imminenti elezioni si sono sempre un po’ inseguite le une con le altre, Tv pubblica o privata che fosse.
La TV ha ancora un futuro politico?
EC: Sì, ma la televisione è uno tra i medium, non più l’unico né il più frequentato. I leader preferiscono le tribune senza filtri dei social, dove non esistono contraddittorio, domande, dibattito. La televisione resta, senza faccia a faccia, senza domande, con lunghi comizi, conduzioni accomodanti e un insopportabile pubblico addestrato ad applaudire. La televisione resta, e in questo 2020 si riscopre veicolo di messaggi istituzionali: gli interventi del premier Conte segnano la riscoperta del genere televisivo emergenziale dell’edizione straordinaria.
LLB: Penso di si, perché io vedo internet più adatto all’analisi o alla gogna. Ma non a un terreno di consumo vero e proprio, o meglio non a farsi campo di gioco della partita. Su internet parliamo di tale trasmissione e di tal duello. Ma questi si compiono ancora in larga parte in Tv e non ritengo che i tempi siano maturi per fare a meno di un medium così, anche se tanti miei coetanei non lo usano, me compreso, che me ne servo spesso quasi solo per alimentare la mia passione per il cinema classico (che non si trova certo solo lì, tutt’altro) o per lo sport; Il talk è però rimasto, e funziona. Certo non è più solo quello colto e salottiero di un Maurizio Costanzo, il remoto Bontà loro e nemmeno il Costanzo show che a metà anni Novanta sfavillava, ma c’è. Rimangono anche i duelli. Internet, diceva la Gruber anni fa riferendosi alla presunta morte della Tv, vive molto ancora del commento che fa della Tv stessa. E quindi…