Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch’io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.

Artemisia Gentileschi, Atti di processo, Roma, 1612

Parole che fanno rumore, quelle di una donna che vive il dramma del silenzio della violenza perpetrata sul suo corpo. Espiazione di una colpa mai avuta. Il silenzio diviene anche punizione, autoflagellazione, metabolizzazione del trauma subito: nel corpo e nello spirito. Ma quando da un corpo abusato, il silenzio viene spezzato dalla confessione – che sia esso in forma diretta con la parola o indiretta con la più alta esplicitazione dello spirito umano, l’arte – esso diventa fragore, frastuono, tempesta. 

Questa non è la storia di un’artista ma di una donna. Una donna che si è salvata dal naufragio della vita, salendo al timone della propria esistenza.
Artemisia Gentileschi ha fatto della sua arte una terapia per superare il dolore, lasciando una testimonianza sulla possibilità che ogni donna violentata possa utilizzare quel dolore come strumento per passare il messaggio di reazione per non soccombere nel ruolo di vittima. Di fronte al mare delle intemperie che è la vita, ha trovato la forza per raggiungere la terraferma con potenti bracciate, divincolandosi dalle onde che cercano di risucchiarla sul fondale. Una donna che ha deciso di smettere di sopravvivere e di ritornare a vivere. 

E’ terribile ma innegabile, lo stupro di Artemisia perpetrato dal pittore Agostino Tassi è stato tanto doloroso quanto decisivo per il riscatto della immagine della donna nel mondo: una donna forte e indipendente, che diventa un’artista facendosi spazio a gomitate in un mondo dominato da uomini. Ci restituisce un punto di vista femminile sul passato, il racconto di un Seicento cattolicamente “superbigotto” che faceva dello stupro un simbolo di disonore femminile, taciuto attraverso l’abietto sistema del matrimonio riparatore. 

Partiamo dunque dalle opere per ricostruire la vita, il dolore dell’abuso, di una delle più importanti donne protagoniste della storia dell’arte. 

Susanna e i vecchioni, 1610. Artemisia Gentileschi

Gli esordi di Artemisia: Susanna e i vecchioni (1610)

Primogenita di Orazio Gentileschi, pittore pisano di discreta fama, sopraggiunto a Roma alla ricerca di un’occupazione stabile nel periodo della Controriforma: l’Urbe, nel Seicento, era diventata un centro artistico in cui affluivano pittori da tutto il mondo, sotto la forte spinta propulsiva vaticana che mirava a magnificare in Roma il centro del potere di una rinnovata Cristianità. 

E’ all’età di soli dodici anni, dopo la morte della madre, che Artemisia, affascinata dalla pittura del padre, iniziò il suo apprendistato nell’atelier paterno. Il padre riconobbe subito il talento della giovane: tra i quindici e i sedici anni, Artemisia era già intervenuta su alcune tele del padre; ad appena diciassette anni, iniziò a dipingere le prime opere in autonomia. Una di queste, è Susanna e i vecchioni che nel 1610 sancirà il suo ingresso del mondo dell’arte.

Dipinto olio su tela di soggetto biblico, Susanna e i vecchioni sembra anticipare il tragico evento dello stupro nella vita di Artemisia, fatto che lo rende oggetto di discussione tra i critici, per quanto concerne attribuzione e datazione. 

La prematura età dell’artista all’epoca della produzione dell’opera sembra sollevare i dubbi sulla sua reale paternità. Alcuni critici sostengono che sia un’opera di Orazio Gentileschi, firmata da Artemisia con l’intento di fare conoscere il suo talento artistico nel mondo dei mecenati. Per quanto riguarda la datazione, alcuni studiosi ipotizzano che il dipinto sia stato retrodatato dalla stessa Artemisia, come simbolo di oppressione subita dal padre e da Agostino Tassi (il suo stupratore). Secondo questa ipotesi, la violenza sarebbe già stata perpetrata all’epoca della produzione della tela. Artemisia conosceva il Tassi già nel 1610, poiché egli aveva collaborato con il padre nella realizzazione della loggetta della sala del Casino delle Muse a palazzo Rospigliosi, ma lo stupro si era consumato nel 1611, quando Orazio Gentileschi aveva chiesto all’amico fidato di formare Artemisia nella tecnica della prospettiva, di cui lui era grande conoscitore.

Il soggetto biblico, ispirato ad un episodio dell’Antico Testamento, vede come protagonista la pia Susanna, che, dopo essersi lavata in una fonte, viene sorpresa da due uomini anziani, frequentatori della casa del marito. Sottoposta ad un ricatto sessuale, deve decidere se acconsentire e sottostare alla loro bramosia sessuale o vivere il disonore di essere denunciata al marito, con l’accusa di essere stata sorpresa con un amante. 

L’ipotesi che questa tela possa essere stata retrodatata e prodotta in una fase più matura – quando già si era consumato il fatto – sembra trovare riscontro, a mio parere, nella figura che sussurra parole all’uomo in primo piano. Si tratta di un uomo giovane, non maturo come quello al suo fianco, mentre secondo l’iconografia biblica gli uomini protagonisti dell’episodio sarebbe dovute essere, come troviamo nel titolo, due “vecchioni”. Questo dettaglio farebbe pensare che il giovane rappresentato sia proprio lo stupratore Agostino Tassi.

La figura dell’uomo più maturo, che avvicina il dito alla bocca in segno di zittare la donna, è stato visto come il padre di Artemisia, Orazio Gentileschi: ipotesi che appare probabile dal momento che lo stesso Orazio avrebbe denunciato l’amico Agostino Tassi, più che per restituire l’onore perduto della figlia, con l’obiettivo di recuperare delle tele a lui care che Tassi avrebbe acquisito illegalmente. 

A livello stilistico, la scelta della composizione piramidale dei tre personaggi sembra delineare una Susanna/Artemisia, vittima di un sistema patriarcale in cui ai vertici ci sono gli uomini oppressori che pongono la donna in un ruolo subalterno. Nel caso di Artemisia: l’artista-donna socialmente sottovalutata nel mondo, prettamente maschile, dell’arte. 

Autoritratto come Allegoria della Pittura, 1638-1639. Artemisia Gentileschi

Lo stupro e il processo

Come già precedentemente accennato, il 1611 fu l’anno di cesura nella vita di Artemisia: dal delicato mondo della fanciullezza al mondo di donna, brutale e violento.

E’, infatti, il 1611, quando Agostino Tassi, pittore trompe-oil di paesaggi e collega del padre Orazio – conosciuto in città con l’appellativo di “puttaniere” – dopo fallimentari tentativi di approccio con Artemisia, nella stessa casa dove viveva la pittrice con il padre, perpetrerà il famoso stupro. Le parole che Artemisia confesserà durante gli estenuanti interrogatori agli inquirenti – quelle all’inizio riportate – descrivono precisamente l’aggressione: “havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro.”

Sei lunghi mesi ci vollero per Artemisia per rompere il silenzio con il padre e intentare una causa per “sverginamento”. Bisogna ricordare che all’epoca esisteva un cavillo giudiziario per lo stupro, meglio noto come “matrimonio riparatore”, che permetteva alla due parti in causa di estinguere il reato di violenza carnale tramite un matrimonio tra lo stupratore e la vittima, così da permettere alla donna di riqualificarsi di fronte la società. 

Durante il processo – lascio il link se qualcuno volesse approfondire – lo stesso Agostino si difese dichiarando che dopo lo stupro vi erano stati ripetuti rapporti sessuali. Cosa che confermò anche Artemisia sulla base della promessa fattale da Agostino di volerla sposare. Dal processo emerse però che Agostino non avrebbe potuto contrarre matrimonio, perché già sposato.

Il processo, iniziato nel marzo 1612, fu una ulteriore violenza perpetrata ai danni di Artemisia.  Fu costretta alle più umilianti torture fisiche e psicologiche per validare la veridicità delle sue dichiarazioni: lunghe ed estenuanti visite ginecologiche, in cui il fisico di Artemisia fu esposto alla curiosità della plebe di Roma, in cui si appurò la rottura dell’imene verificatosi, secondo le ostetriche, un anno prima. Subì inoltre il “supplizio della sibilla”, una tortura medievale che consisteva nel legare con due cordicelle i pollici della vittima e stritolare le falangi con un randello, per accertare se l’imputato dicesse la verità. Ciononostante, Artemisia non cambiò mai le sue deposizioni.

Fatto dolorosissimo, di importanza fondamentale per la futura produzione artistica di Artemisia, fu la falsa testimonianza di Tuzia, tutrice di Artemisia e considerata da lei come una madre, che dichiarò ai giudici: «Più volte ho visto Agostino di solo a solo in camera con detta Artimitia che lei era a letto spogliata e lui stava vestito […] Et io l’ho ripresa più volte in presenza anco del medesimo Agostino e lei mi diceva: “Che volete! Abbadate a voi e non v’impicciate di quel che non vi tocca!”».

Il verdetto del processo dichiarò Agostino Tassi colpevole di “sverginamento”, ma il reato rimase impunito: oltre a un risarcimento alla vittima, Agostino poteva scegliere tra la prigione – 5 anni di reclusione – oppure l’esilio da Roma. Scelse la seconda, ma di fatto non abbandonò mai la città perché i grandi mecenati per cui lavorava esigevano la sua presenza fisica in città.

Su Artemisia gravarono gli effetti più devastanti della vicenda. Bollata nella reputazione come una «puttana bugiarda che va a letto con tutti», ridicolizzata per le strade con canzonette licenziose, Artemisia fu costretta a lasciare Roma come donna colpevole della violenza, senza ricevere nessuna giustizia. 

La nuova vita a Firenze, Giuditta che decapita Oloferne (1612 – 1613 / 1620): l’esorcizzazione del dolore 

Le due versioni di Giuditta che decapita Oloferne, una prodotta nel 1612/1613 e l’altra nel 1620 (custodite la prima al Museo nazionale di Capodimonte di Napoli e la seconda alla Galleria degli Uffizi a Firenze), sono le opere su cui ci vale ora la pena soffermarsi, perché rappresentano un continuum sul tema dello stupro, pur nella diversità dell’elaborazione pittorica. Qui vediamo una prima Artemisia che reagisce alla violenza con scellerata e delittuosa aggressività, e una seconda Artemisia che ha in parte superato il dolore, relegando l’abuso in un passato ormai lontano. 

Prima di parlare delle due tele in questione, dobbiamo sapere che Artemisia arrivò a Firenze perché il padre Orazio, dopo le continue calunnie che la figlia riceveva a Roma, decise di “salvarla” – o, a mio parere, “venderla” – attraverso un matrimonio riparatore con il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi, un uomo affettivamente freddo, che mirava a vivere al di sopra delle proprie possibilità economiche. Il matrimonio fu, infatti, un matrimonio di convenienza: l’obiettivo di Pierantonio Stiattesi era quello di ricevere la dote che avrebbe permesso di estinguere l’ingente somma dei suoi debiti in città.

Nel contesto fiorentino dell’epoca Artemisia poté respirare l’aria di libertà artistica che aveva sempre cercato a Roma: il mecenatismo di Cosimo II della famiglia de’ Medici creava un terreno fecondo e prolifico per produrre la sua arte. Sarà proprio Cosimo II a commissionare, sotto la raccomandazione di Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del celebre pittore, la prima versione di Giuditta che decapita Oloferne. L’ opera sarà però disprezzata dallo stesso mecenate per l’incongruenza con l’iconografia classica del soggetto biblico e verrà relegata nell’oscurità di una stanza di Palazzo Pitti. 

Questa versione di Giuditta che decapita Oloferne, incentrata sul tema dello stupro subito – ricordiamo che l’ingiusto processo era appena terminato e quindi in Artemisia ardeva ancora un fuoco di rivalsa per l’umiliazione a cui era stata sottoposta – ci restituisce l’immagine di una Artemisia assetata di vendetta contro il suo carnefice, nella rappresentazione biblica dell’eroina Giuditta, che decapita il condottiero assiro Oloferne per salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera. 

Artemisia rappresenta l’esatto istante in cui Giuditta taglia la gola a Oloferne. L’ancella è presente e ha parte attiva nell’uccisione, aiutando Giuditta a tenere fermo il comandante assiro mentre lei gli taglia la gola. Nel racconto biblico, invece, l’ancella non era presente, aspettava Giuditta fuori dalla tenda. Sicuramente influenzata dall’opera Giuditta e Oloferne di Caravaggio del 1597, da cui era rimasta affascinata (c’è da aggiungere che Artemisia faceva parte della scuola caravaggesca), la sua opera differisce però proprio per il ruolo dell’ancella: nella tela di Caravaggio, infatti, l’ancella, anche se presente, è una testimone passiva degli avvenimenti.

Giuditta che decapita Oloferne, 1612-13. Artemisia Gentileschi

L’azione collaborativa dell’ancella del quadro “napoletano” di Artemisia, fa supporre il tema della solidarietà femminile. Artemisia, che durante il processo era stata venduta proprio da colei che riteneva una madre, è riuscita a esorcizzare in questo quadro il dolore per essere stata tradita da una persona che amava, da una donna che avrebbe dovuto sentire tutto il peso della debole condizione in cui era schiacciato l’universo femminile dell’epoca. 

L’impianto realistico della scena è permesso dal gioco di chiaroscuro della luce, la cui unica fonte sembra provenire dall’esterno sulla scena, che da sinistra inonda prima il viso esanime di Oloferne e poi le due donne, mettendo in secondo piano tutti i dettagli superflui. Lo sguardo di Giuditta è quello su cui bisogna porre l’attenzione, perché esso è lo sguardo sadico di una donna senza rimorso che sembra quasi provare piacere da quel gesto. I colori accessi degli abiti delle due donne – Giuditta indossa un vestito blu e l’ancella uno rosso – e il rosso scuro del sangue di Oloferne, che sgorga sopra un lenzuolo di un bianco candido, conferiscono alla scena un’atmosfera aggressiva e violenta. Il coraggio e la determinazione delle due donne si legge nella forza dei gesti: con le maniche arrotolate degli abiti, la pittrice incanala l’attenzione del fruitore nelle braccia e nelle mani in cui si concentra tutta la forza fisica, prerogativa maschile, per trattenere il corpo dell’uomo che cerca inutilmente di divincolarsi fino all’ultimo istante di vita.

La battaglia estenuante tra i sessi è ciò che Artemisia vuole rappresentare, una lotta che inverte la rotta delle caratteristiche insite nelle differenze di genere: la donna è attiva e sottomette l’uomo con la forza – in segno di riscatto della violenza maschile, mentre l’uomo vive tutta la fragilità fisica del mondo femminile. Oloferne prova a divincolarsi, a difendersi, ma non è ha la forza. Artemisia vuole trasmettere all’uomo quella sensazione di rassegnazione di cui è vittima la donna nella sua incapacità di reagire, di difendersi con la forza, alla violenza maschile.

Giuditta che decapita Oloferne, 1620. Artemisia Gentileschi

La versione “fiorentina” del 1620 perde quell’aggressività della versione precedente a partire dalle dimensioni della tela, che diventa più grande: parliamo di 2 metri per per più 1,60 metri contro la versione napoletana di 1,60 per più di 1,20 metri. I critici hanno visto nella scelta delle dimensioni di maggiore grandezza del supporto da parte della pittrice la volontà di guardare la vicenda dello stupro da una prospettiva più lontana – sono ormai passati otto anni dalla vicenda – in cui lo sguardo dello spettatore si perde nell’arricchimento dei dettagli della scena più che nell’atto stesso dell’uccisione.  Il materasso in cui dorme Oloferne è molto più dettagliato per concentrare lo sguardo sul corpo dell’uomo nella sua interezza, a cui aggiunge, diversamente dalla prima versione, le gambe. L’aggressività della tela precedente è mitigata dalla scelta di colori più attenuati per gli abiti delle due donne, di una sfumatura dorata che rende la scena più cupa, claustrofobica, oscura. Il drappo rosso che copre le gambe di Oloferne è il segno di novità assoluta della tela. Un sudario che preannuncia la morte, lo avvolge dal petto fino alla cosce, oscurando ciò che di più empio e impuro appartiene all’uomo: il pene. 

Forse Artemisia, nonostante l’evento fosse ancora una macchia oscura nella sua vita, aveva cercato in qualche modo di perdonarsi, perdonando il suo stupratore, attribuendo la colpa dell’abuso all’istinto naturale dell’uomo che usa la forza in segno di affermazione? Oppure voleva in qualche modo inviare un messaggio al mondo maschile: annullare quel membro in cui risiede la violenza, credere nella possibilità dell’uomo di uccidere la propria colpa innata attraverso la volontà? 

Sono tutte domande a cui non si può rispondere con esattezza. 

Ciò che sappiamo è che Artemisia è riuscita a reagire al dolore, creandosi un’ identità artistica indipendente dal modello maschile. 

Prima donna ad accedere all’Accademia del disegno di Firenze nel 1617, la sua arte è un messaggio alle donne future, vittime di abusi, per riprendere in mano la propria esistenza, per quanto duro possa essere il tragitto. Come un’eco lontano sembrano sopraggiungermi le parole di Artemisia: “Donne, non smettete mai di fare rumore!”.