Sin dal primo giorno in cui ho iniziato a studiare Pubblicità, mi hanno sempre ripetuto che “gli anni ’80 sono stati un’epoca gloriosa per la pubblicità in Italia”. Ma è veramente così? Da un punto di vista socioeconomico si viveva un gran fermento e giravano un sacco di soldi, rispetto ad oggi. I media erano principalmente quattro: Stampa, Affissione, Tv e Radio. Tutta la raccolta pubblicitaria si muoveva su questi pilastri. Gli anni di piombo erano appena finiti e la gente iniziava a riempire le piazze non più per montare proteste, ma per bere Spritz. L’Italia si era confermata come il “Belpaese” agli occhi del mondo grazie alla moda e al design, irrobustendo le fondamenta di quello che è venerato come “Made in Italy”. Bisogna anche considerare che la gente aveva un disperato bisogno di prodotti di qualsiasi genere, e che la voglia di differenziarsi era davvero tanta. Infatti nacquero fenomeni di costume come i Paninari, non più basati su un ideologia come negli anni ’70 ma sull’apparenza e sul consumo in ossequio all’edonismo reaganiano. La pubblicità è sempre stata lo specchio della società, e infatti in quegli anni era in gran fermento: vivere a Milano dicendo di fare il Pubblicitario era considerato molto glamour, al contrario di oggi che hai lo stesso fascino di un dipendente delle Poste, solo che lui rimorchia di più perché ha un posto fisso, mentre tu sei sempre in giro a mostrare il portfolio come un venditore della Folletto. Per giunta era anche il periodo in cui si iniziavano a vedere imprenditori coraggiosi e visionari come Silvio Berlusconi, che diede vita alla TV Commerciale.
Poi sono arrivati i ’90 e hanno subito iniziato a dirci che belli erano stati i meravigliosi anni ‘80, così per un po’ non siamo mai veramente usciti da quella bolla. Il reale talento delle persone che negli ’80 “han fatto cose”, è stato quello di essere stati incredibilmente bravi a nascondere tutte le oscenità prodotte (ovviamente parlo dal punto di vista strettamente creativo). Questa mania di pensare costantemente che il passato sia meglio del presente lo racconta bene Bauman in un suo libro: Retrotopia. La “retrotopia”, spiega Bauman, è l’inverso dell’utopia cioè è un’utopia rivolta all’indietro. Praticamente è la nostra attitudine a collocare nel passato recente – e non più nel futuro o nel remoto o nella fantasia – l’immaginario di una società migliore. Che magari tanto migliore non era. Il fatto che oggi abbiamo meno certezze economiche e sociali ci porta ad aver una costante paura del futuro, quindi di fatto abbiamo creato una gabbia che non porta a nulla. Siamo in una sorta di stallo messicano sociale – infatti la nostra economia è ferma dal 2008 – non si va né avanti né indietro. Anzi, da un punto di vista culturale stiamo vivendo una lenta regressione e vediamo spuntare movimenti negazionisti su ogni cosa. Pure sui gattini e -addirittura- gli unicorni. Voglio dire, è chiaro che gli unicorni esistono.
Comunque, per rispondere in maniera esaustiva al nostro quesito iniziale “Come mai non si fanno più le pubblicità belle come quelle di una volta?” Ho chiesto ad esperto di storia della Pubblicità, Emmanuel Grossi, che ha anche fondato il più grande archivio storico della pubblicità audiovisiva in Italia.
Ciao Emmanuel, innanzitutto benvenuto a The Pitch, raccontaci cosa fai nel dettaglio e di cosa ti occupi?
Grazie Francesco dell’invito.
Sono uno storico dello spettacolo “prestato” da 15 anni alla pubblicità. Ho fondato e tuttora dirigo l’Archivio Generale Audiovisivo della Pubblicità Italiana, insegno Storia della Pubblicità al Centro Sperimentale di Cinematografia (la scuola di cinema più antica d’Italia e la seconda del mondo), collaboro con alcuni periodici di settore e alcuni archivi storici industriali e lo scorso anno sono stato uno dei curatori di una grossa mostra su Carosello e del relativo volume-catalogo, per il quale ho scritto anche alcuni saggi sui rapporti di Carosello con il cinema, la televisione, il teatro, la musica e l’animazione.
Quant’è grande il tuo archivio?
Come hai gentilmente ricordato, è il più grande d’Italia dedicato al tema specifico: attualmente comprende più di 100.000 film pubblicitari, perlopiù italiani o con attinenza all’Italia, realizzati fra gli anni Trenta del Novecento e i giorni nostri, gentilmente ricevuti per fini di studio da clienti, agenzie, produzioni, post-produzioni e singoli artisti e professionisti. Ma il patrimonio filmico è solo una delle tante componenti dell’Archivio: ci sono centinaia di migliaia di documenti, originali o scansionati, e di schede tecniche dettagliate, oltre 1.200 ore di testimonianze audioregistrate, inedite ed esclusive, rilasciatemi nell’ultimo quindicennio da circa 600 addetti ai lavori, una biblioteca di settore, è in fase di rodaggio un nuovo comparto dedicato alla pubblicità stampa (circa 600.000 pagine originali, italiane ed estere, pubblicate fra il 1880 ed oggi)… E ogni sezione è in continua espansione.
Cosa pensi dei meravigliosi anni ’80?
Che, come hai detto tu, si tende sempre a mitizzare il passato. Io all’epoca andavo alle elementari, guardavo poco la televisione e mai la pubblicità (e ho continuato a scansarla finché non ho iniziato a trattarla con approccio scientifico: ne approfittavo per alzarmi, andare in cucina, cambiare canale, telefonare…). Ho recuperato tutto dopo e ciò mi ha consentito di avere una visione forse più obiettiva, asettica e non influenzata dai ricordi personali. Pubblicitariamente parlando, esistono “tanti” anni Ottanta. I primissimi risentono ancora del dopo-Carosello (che era terminato il 1° gennaio 1977). La pubblicità audiovisiva italiana non aveva ancora trovato una sua vera identità, nonostante decenni di short per i cinema, che sono i veri antesignani degli spot attuali (Carosello era essenzialmente uno spettacolo, e piaceva per quello, i suoi codini pubblicitari e i telecomunicati brevi coevi erano spesso inguardabili). La fine del monopolio RAI fece sparire l’obbligo di girare tutto in pellicola 35mm e aprì le porte a migliaia di inserzionisti, anche minuscoli, che prima potevano giusto accedere ai circuiti cinematografici locali. E la pubblicità divenne finalmente a colori anche in televisione (al cinema lo era già dagli anni Cinquanta, ma in TV iniziò con le private a metà anni Settanta e solo nel 1978 avanzato anche la RAI iniziò a trasmettere spot a colori, infatti Carosello era stato tutto sempre e solo in bianconero). Il risultato di tutta questa rivoluzione, questa ubriacatura di libertà, fu per certi versi esaltante, per altri imbarazzante: grande sperimentazione, tanto kitsch, un po’ di camp… ma anche tanto trash, proprio nel senso letterale di monnezza. I “meravigliosi anni Ottanta” che evochi vanno essenzialmente dal 1982 al 1987-88, anno più anno meno. E furono realmente gloriosi: tante campagne memorabili, tanta creatività, tanti soldi… Gli spot che andavano sulle reti nazionali erano mediamente di qualità piuttosto alta, da tutti i punti di vista (creativo, strategico, realizzativo…). E anche quelli che, rivisti oggi, appaiono più brutti avevano il loro perché (c’era sempre un’idea di fondo e le pecche erano spesso da imputarsi al gap tecnologico e/o alla mancanza di risorse). La coda degli anni Ottanta si ricollega invece alla prima metà dei Novanta, che a me personalmente piace poco: la pubblicità italiana era diventata succube delle mode internazionali, aveva perso la follia e la spregiudicatezza, aveva perso pure i colori (era tutto desaturato, rarefatto, ingrigito… ma questo vale anche per la televisione in genere, per l’abbigliamento…). D’altronde, erano gli anni dello stragismo, del Maxiprocesso a Cosa Nostra, di Tangentopoli, delle guerre… Non era più il tempo dell’allegria incosciente.
Cosa pensi della pubblicità oggi?
Il mio ambito di indagine è l’audiovisivo, soprattutto italiano: preferisco risponderti su quello. E anche ponendo questa limitazione, il discorso rimane complesso. La pubblicità cinematografica, come entità a sé, con una propria identità e autonomia, non esiste più dagli anni Ottanta. Dei “vecchi media” resta la televisione. Esteticamente, non si può dire che la pubblicità televisiva odierna sia brutta. Ma (sempre salvo eccezioni) è tutta uguale, banalotta, fotografia piatta, regia ordinaria, niente di particolarmente bello visivamente, niente di particolarmente ironico o brillante o graffiante… E purtroppo, dal mio punto di vista (che, mi rendo conto, è quello di un osservatore speciale e privilegiato, non dell’uomo della strada o dell’utente medio a cui gli spot sono destinati), rimane difficile scorgere la creatività. Che invece dovrebbe essere l’essenza stessa della pubblicità. Salvo rari casi, non esiste più la centralità del prodotto, che dovrebbe essere The Hero (il che non significa che debba essere sempre in primo piano, potrebbe anche non apparire mai, ma deve essere centrale a livello contenutistico, narrativo, semantico…). Non esiste (quasi) più l’identità di marca, men che meno una costruzione valoriale del brand… L’unico ambito che tiene botta, perché è talmente specifico e tecnicamente avanzato da non consentire improvvisazioni e sciatterie, è il table top: i prodotti (perlopiù generi alimentari), inquadrati nei loro minimi dettagli, che saltano, interagiscono, si compongono e scompongono, prendono vita con riprese molto complicate, a risoluzione altissima e ad un altissimo numero di fotogrammi al secondo… Ma tutto quello che ti ho appena detto risente di un vizio di forma. L’avevo premesso. La televisione è un medium “vecchio” e soprattutto non è più quello in cui si concentrano i maggiori sforzi creativi ed economici, né è più la cartina al tornasole che decreta il successo di una campagna declinata su più mezzi (se non addirittura le sorti di un prodotto). Ormai anche la stessa pubblicità audiovisiva si è dispersa in mille rivoli: dai pre-roll di YouTube ai video degli influencer su Instagram, dal product placement televisivo e cinematografico al branded content (che poi, con i debiti distinguo, è l’attualizzazione del film industriale di una volta)… Oggi siamo bombardati da video pubblicitari, che ci raggiungono dappertutto: su Facebook, nei giochi per il cellulare, in taxi, in metropolitana, nelle vetrine dei negozi… Seguire e tener conto di tutto è impossibile, tanta è la mole dei filmati e la velocità con cui si producono e bruciano. E molte di queste categorie vanno conosciute a fondo per poter essere valutate: sarebbe sciocco applicare parametri vecchi ai media nuovi o istruire un paragone con quello che accadeva negli anni Ottanta, quando la grossa battaglia mediatica si consumava tra gli spot che passavano durante “Fantastico” e quelli che infarcivano “Premiatissima”…
Nella tua top 5 quali entrano tra i migliori spot fatti negli ultimi anni?
Purtroppo, a costo di passare per passatista (scusa il bisticcio di parole), non me la sento di glorificarne nemmeno uno. Quantomeno di italiani. Qualcuno che regga il confronto con i predecessori ci sarà pure (molto pochi!), ma adesso non mi viene in mente. Te ne dico solo uno, che però non è propriamente uno spot e non è particolarmente recente: è del 2009, commissionato dalla Barilla in occasione dei suoi 132 anni (e infatti dura 132 secondi). E’ un affresco storico molto bello, realizzato in sinergia con il loro Archivio (molte delle cose che si vedono sono originali, d’epoca). Ovviamente, campagne così sono un’eccezione, da tutti i punti di vista: investimenti economici, tempi di realizzazione, respiro narrativo… Te lo propongo proprio perché è un outsider, un film “fuori concorso”
Orson Welles diceva “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù”.
Pensi che la stessa cosa possa accadere anche nella Pubblicità Italiana?
L’analisi di Orson Welles è quantomeno sbrigativa e tagliata con l’accetta… Ad ogni modo: no, temo di no. Non solo in ambito pubblicitario: si è perso tutto il tessuto connettivo che deriva dalla cultura (generale e settoriale), dalla competenza, dall’esperienza, dalla gavetta, dal passaggio di consegne tra generazioni… E’ cambiato anche il ritmo. Viviamo in un’epoca frenetica: un tempo, le grandi campagne audiovisive (comprese quelle rimaste nella memoria collettiva) avevano un anno o più di gestazione, fra indagini di mercato, analisi dei dati, sviluppo creativo e strategico, presentazione al cliente, piano di lavoro, riprese, post-produzione, piano media… Con tutte le lungaggini, le cautele e le limitazioni imposte dal progresso tecnologico e da un mondo non ancora “a portata di mano”. E i media erano quelli, pochi e prestigiosi, di cui ti parlavo prima. Adesso l’oggi è già vecchio, bisogna lavorare anticipando il domani. Dove andremo a finire non lo so, ma rimpiangere i fasti di un tempo e auspicare un ritorno al passato, in un mondo in cui i parametri sono completamente mutati, non mi pare né saggio né proficuo.
Ancora grazie Emmanuel per il tempo che ci hai dedicato.