“Dal film alla vera storia” è la rubrica mensile di The Pitch – Olympia, che svela retroscena, curiosità, personaggi, fatti reali e di fantasia che caratterizzano e differenziano le trasposizioni cinematografiche delle più belle storie dello sport mondiale. Un excursus tra realtà e fantasia, in cui la prosa del reale diventa poesia della finzione e su cui i maestri del cinema appongono la ciliegina finale, grazie alle magistrali interpretazioni dei protagonisti e la firma d’autore di registi e sceneggiatori.
Trent’anni fa gli agenti di borsa erano soliti acquistare azioni basandosi rigorosamente sul loro istinto. Chiunque nel gioco del baseball ha una pensione previdenziale e può fare una scelta; c’è chi sceglie un gestore di fondi che gestisce la loro pensione per istinto, e c’è chi sceglie di affidarsi a un esperto di ricerca e analisi economica.
Io so quale strada ho scelto.
Billie Beane
Quella che viene descritta nel film “Moneyball” è in assoluto una delle più romantiche vicende sportive mai raccontate, secondo il mio modesto parere. Ed è curioso, perché nonostante il sottotitolo sia “L’arte di vincere“, questa non è una storia di successo, almeno non quello auspicato dal protagonista principale. Poche altre cose colpiscono l’immaginario come il coraggio e la volontà di un uomo che insegue il proprio sogno, contro tutto e contro tutti, solo come Don Chisciotte. Se poi alla fine, proprio come Don Chisciotte, questo cavaliere solitario, questo pioniere uscirà sconfitto dalla battaglia, allora il lieve dolore che proveremo in quel posto nascosto del cuore ce lo farà amare ancora di più. Infatti la popolarità di Billie Beane, General Manager degli Oakland Athletics, squadra di baseball nella MLB, deriva da una storia in cui, ancora una volta nella sua vita, finirà per uscire sconfitto.
Billie Beane, che sul grande schermo viene magistralmente interpretato da Brad Pitt, dopo una brevissima carriera come battitore nella Major League diventa presto dirigente degli Athletics, piccolo Davide contro i Golia rappresentati dalle squadre di Boston, New York, Cleveland, Los Angeles, Chicago, San Francisco e via dicendo. Occorre dire che, per quanto piccola, quella di Oakland è una squadra di un certa tradizione, che ha vinto 9 volte le World Series, l’ultima delle quali nel 1989, proprio l’anno al termine del quale Beane lascia il campo per passare dietro la scrivania. L’ossessione del nostro Billie sarà quella di condurre alla vittoria finale la propria squadra, per riscattare una carriera da giocatore troppo corta e avara di soddisfazioni. L’occasione giusta pare arrivare nel 2001: nei playoff per accedere alle World Series, Oakland conduce 2-0 contro gli Yankees e servirebbe ancora una vittoria per eliminare New York. Gli Athletics però subiscono la rimonta degli avversari e vengono sconfitti nella serie per 3-2. La delusione è cocente. Ma non è tutto. I 3 gioielli del roster Jason Giambi, Jason Isringhausen e Johnny Damon, attirati da offerte assai più allettanti, lasciano gli Oakland A’s. Sembra che la squadra di Beane sia destinata a tornare nell’oblio, ma è allora che la strategia del General Manager cambia.
Da questo momento in poi realtà e finzione cinematografica si confondono spesso e volentieri, come vedremo tra poco. Il film ci racconta che Beane si reca presso gli uffici dei rivali degli Indians di Cleveland, per trattare un giocatore in vista della nuova stagione. Ed è lì che conosce Peter Brand, laureato in economia ad Harvard, che sulla base di una serie di complessi calcoli statistici su tutti i giocatori della lega di baseball, è capace di trovare giocatori potenzialmente vincenti laddove nessun altro è in grado di vederli. Dopo quell’incontro, Peter diventa assistente di Billie e insieme daranno vita alla più grossa rivoluzione nel mondo dello sport. Ma Peter Brand è un personaggio immaginario, la cui figura viene ispirata da Paul DePodesta, il vero assistente di Beane, che è sì passato dagli Indians agli Athletics, ma nel 1999. Di conseguenza nel 2002 era già ad Oakland. La logica di questo personaggio, che nel lungometraggio è interpretato dal bravo Jonah Hill, è esattamente la stessa con cui Billie Beane costruisce la squadra per la stagione 2002. La logica dei dati statistici. Riuscire a scovare sull’isola dei giocatori difettosi, 25 elementi potenzialmente da titolo e a costi accessibili, basandosi non sulla loro fama, sul ruolo che ricoprono o sul loro effimero valore in termini monetari, bensì sfruttando solo le loro caratteristiche migliori, che possono tramutare un lancio, una battuta, una corsa o una presa in punti.
Nella realtà come nella finzione, Billie Beane verrà molto osteggiato dai suoi più stretti collaboratori. Il malcontento dopo poche giornate di campionato si fa sempre più ingombrante e severo, dato che i risultati e prestazioni non solo quelli sperati. All’interno della pellicola si narra che fortissimi furono anche i contrasti col coach Art Howe, i cui panni vengono indossati dal compianto Philip Seymour Hoffman, personaggio dal risvolto molto oscuro in moltissime delle sue interpretazioni, probabilmente è così che doveva sentirsi lui, nella vita reale. Non è dato sapere fino a che punto arrivarono davvero i dissidi tra i due, poco probabile però che Beane diventi una specie di allenatore aggiunto come ci viene mostrato, ma è bello immaginare che sia andata a così. Sta di fatto che improvvisamente il meccanismo assemblato da Billie si mette finalmente in moto, così che gli Athletics risalgono rapidamente la classifica. Nel corso della loro rimonta stabiliscono il nuovo record storico di vittorie consecutive nella Major League, con 20 partite. La narrazione di come il ventesimo incontro viene vinto dagli A’s varrebbe di per sé il prezzo del biglietto. Tutto ciò che segue è realmente accaduto.
4 settembre 2002, gli avversari sono i Kansas City Royals. Dopo i primi 4 inning, gli Athletics sono in vantaggio per 11-0, una enormità. Tutti i tifosi presenti al Coliseum Stadium, pensano che il record sia ormai conseguito, bisognerà solo aspettare la fine dell’incontro. I padroni di casa però, che accada per la paura di vincere o perché convinti di aver già vinto, si fanno rimontare fino all’11 pari. I sogni di Oakland sembrano vicini ad infrangersi. Nono e ultimo inning, ultimo turno di battuta per gli Athletics. Howe manda sul piatto Scott Hatteberg. Quest’ultimo è una delle curiose scelte di Beane, nonché una delle più contestate dalla sua dirigenza. Hatteberg infatti è un catcher, un ricevitore, ma dopo l’infortuno dell’anno prima quando giocava a Boston, da tutti è considerato un giocatore finito. In base alle sue statistiche però, Billie decide di inserirlo nel roster nel ruolo di prima base, laddove il suo infortunio non possa nuocere, ma altresì in un ruolo in cui Scott non ha mai giocato. Per usare una metafora calcistica, più o meno è come far giocare un portiere nel ruolo di terzino. Dunque, dicevamo nono inning, Hatteberg sul piatto. Howe spera che conquisti la prima base, per poi sostituirlo con un corridore che abbia più possibilità di andare a punto. Ed è qui che la storia si fa epica e leggendaria: Scott Hatteberg, nella sorpresa generale mette a segno un fuoricampo, segna il punto del 12-11 e regala ad Oakland il successo che li consegna alla storia del baseball. Purtroppo non deterranno il primato a lungo, perché nel 2017 gli Indians lo miglioreranno, portando il record a 22 vittorie, ma l’impresa resta.
Gli Athletics arrivano primi nella loro divisione, con 103 partite vinte e 59 perse. È di nuovo il momento disputare la partita di playoff che precede l’ingresso nelle World Series, ma contro ogni pronostico vengono ancora una volta sconfitti per 3-2, questa volta dai Minnesota Twins. Dopo tutto il lavoro fatto, Billie Beane e la sua squadra si ritrovano esattamente dove erano un anno prima. Ma non basta, c’è anche la beffa. I Boston Red Sox, offrono al GM di Oakland un contratto faraonico, al fine di assicurarsi i suoi servigi ed adottare il suo metodo: 12 milioni di dollari per 5 anni. Beane però decide di rifiutare l’ingaggio e restare dov’è. Due anni dopo, i Red Sox vinceranno le World Series dopo 86 anni, proprio utilizzando il suo stesso modello statistico. Billie comunque ha sempre sostenuto di non aver mai avuto rimpianti, perché il suo desiderio più grande era vincere con gli Athletics. Se sia davvero così, è una cosa cosa che sa solo lui.