Nella primavera del 2019 il Senato americano ha approvato una risoluzione con cui si chiedeva l’interruzione di ogni forma di sostegno all’Arabia Saudita nell’ambito del conflitto in Yemen, nel corso del quale hanno la perso la vita migliaia di civili. La risoluzione, approvata grazie ai voti decisivi di 7 senatori repubblicani che hanno deciso nell’occasione di appoggiare l’iniziativa del partito democratico (e in particolare dei senatori Sanders, Murphy e Lee), si basava su un raro richiamo al War Powers Act, una legge federale del 1973 che ha lo scopo di limitare il potere del Presidente di impegnarsi in conflitti armati senza l’approvazione del congresso americano. 

La votazione ha avuto luogo a meno di 6 mesi dall’omicidio di Jamal Khashoggi, il giornalista e editorialista del Washington Post ucciso nell’ambasciata saudita a Istanbul con il probabile coinvolgimento del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, dal quale il presidente americano non ha mai preso nettamente le distanze. La vicenda ha alimentato una serie di polemiche intorno alla figura di MBS, e nonostante la strenua difesa di Trump nei confronti dell’alleato mediorientale larghe fasce di opinione pubblica e della classe politica statunitense hanno chiesto il ridimensionamento dei legami tra i due paesi.

Il veto di Donald Trump, in seguito, bloccò la risoluzione così come, nel dicembre del 2018, l’approvazione della stessa era stata resa impossibile dai continui rifiuti dell’allora speaker della Camera dei Rappresentanti Paul Ryan di avviarne la discussione. Sia il veto di Trump che, più in generale, il posizionamento di gran parte del fronte repubblicano sulla questione sono riconducibili alla volontà statunitense di garantire il proprio supporto incondizionato alla monarchia saudita nel quadro del contenimento dell’influenza iraniana nella regione del Medio Oriente. 

In Yemen è in corso un conflitto terribilmente violento che è iniziato ufficialmente nel marzo del 2015, quando aerei dell’aviazione saudita e di altri paesi arabi hanno bombardato le postazioni dei ribelli sciiti Houthi. Il paese era stato riunificato nel 1990, dopo essere stato diviso, a partire dal 1967, in due parti: a Nord la Repubblica Araba dello Yemen, governata dall’autoritario Ali Abdullah Saleh, e a Sud la Repubblica Democratica popolare dello Yemen governata da un regime di ispirazione marxista.  

Anche dopo la riunificazione le tensioni interne non sono mai del tutto scomparse e la situazione è esplosa nel 2011 con lo scoppio delle proteste della “Primavera Araba”, guidate in particolare dalla minoranza Houthi e dal movimento Al-Islah, vicino alla Fratellanza Musulmana. In seguito alla dimissioni del presidente Saleh, nel 2012, si è instaurato al potere il suo vice, Abdel Rabbo Monsour Hadi, il cui governo è riconosciuto dalle potenze occidentali e dai paesi arabi, mentre l’ex presidente ha stretto un’innaturale alleanza con gli Houthi, in precedenza fortemente oppressi dallo stesso governo centrale, con lo scopo di riprendere il potere. L’alleanza tra Saleh e Houthi si interromperà a fine del 2017 e si concretizzerà, il 4 dicembre, nell’uccisione dell’ex presidente, considerato un traditore per aver provato a ricucire i rapporti con l’Arabia Saudita.

In seguito agli iniziali successi militari del fronte Houthi, la cui avanzata ha costretto Hadi a scappare dalla capitale Sana’a e a rifugiarsi a Aden, nel sud del paese, nei primi mesi del 2015 si è concretizzato l’intervento militare della stessa Arabia Saudita, che si è posta alla guida di una coalizione che comprende vari stati arabi (su tutti i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’Egitto). 

Gli Houthi appartengono al ramo sciita degli Zayditi e rappresentano la principale minoranza dello Yemen, con oltre un terzo della popolazione. Il movimento Houthi nasce nel 1992 con la denominazione ufficiale “Ansar Allah”. Il termine Houthi deriva dal nome del padre fondatore Husayn al-Houthi, e solo in un secondo momento è stato utilizzato per indicare il movimento nel suo insieme. Da un punto di vista geografico, la roccaforte storica è Saada, nel nord-ovest dello Yemen. 

Gli Houthi godono dell’appoggio diplomatico e economico dell’Iran, il principale paese sciita, e dell’Hezbollah libanese. Secondo alcune fonti, i miliziani sarebbero addirittura stati addestrati dal Corpo delle guardie della rivoluzione islamica. Un’intesa, quella tra Iran e Houthi, che non si può ridurre a semplice convergenza dottrinale; in Iran, per altro, domina la corrente sciita duodecima che si discosta notevolmente dalla corrente zaydita che è preponderante in Yemen e in particolare tra gli Houthi. 

Non si può infatti non tenere conto dell’importanza che lo stretto di Bab el Mandeb, che collega il Mar Rosso al Golfo di Aden, riveste come crocevia per il commercio internazionale energetico e del cruciale vantaggio strategico che il controllo della “porta delle lacrime” garantirebbe al paese degli ayatollah, che, già oggi, gode di un notevole potere di deterrenza nei confronti dei rivali regionali grazie al controllo dello lo Stretto di Hormuz che regola l’accesso al Golfo Persico. Il supporto dell’Iran al movimento, quindi, va almeno parzialmente fatto risalire a considerazioni di natura strategica, e una parte dei combattimenti hanno avuto luogo per ottenere il controllo dell’area vicina allo stretto.

Il conflitto prosegue ininterrottamente dal 2015. L’intervento saudita, che ha portato alla morte di migliaia di civili con bombardamenti massicci e spesso indiscriminati, risponde a sua volta a ragioni politiche e strategiche. La presenza di un’enclave sciita in quello che viene generalmente visto come “il giardino di casa”  rappresenta infatti una minaccia alla stabilità interna della principale monarchia del Golfo, che teme una sollevazione della minoranza sciita nell’est del Regno e che già nel 2011 non aveva esitato a invadere il Bahrein per sedare la rivolta degli sciiti e ripristinare l’ordine. Ryad è alla guida di una coalizione formata anche da Emirati Arabi Uniti, Egitto, Sudan, Giordania, Kuwait, Bahrain e sostenuta, a sua volta, dagli Stati Uniti.

Il coinvolgimento saudita nel conflitto ha spinto i ribelli Houthi a lanciare diversi attacchi verso il Regno, con lo scopo di colpire infrastrutture e aeroporti, spesso grazie all’utilizzo di droni. Un punto di svolta nell’evoluzione del conflitto sembrava essere stato raggiunto con la firma dell’Accordo di Stoccolma, nel dicembre 2018, che prevedeva il cessate-il-fuoco nella zona della città portuale di Hodeida, nello Yemen occidentale, e lo scambio di 15.000 prigionieri. L’attività di monitoraggio e di gestione dell’area, in base all’accordo, sarebbe spettata ad una delegazione dell’ONU. In condizioni normali, circa l’80% delle importazioni del paese entra dal porto di Hodeida.

L’applicazione dei punti previsti dall’accordo, tuttavia, si è rivelata fin da subito molto complicata, in particolare per divergenze tra le fazioni in merito all’interpretazione di una serie di disposizioni. Proprio negli ultimi giorni si è finalmente concretizzata, dopo numerosi rinvii, la liberazioni di circa 1.000 prigionieri yemeniti.

Lo scenario del conflitto yemenita si complica ulteriormente se si tiene conto dell’estrema frammentazione delle forze che si oppongono ai ribelli Houthi e della proliferazione di milizie e gruppi armati (tra cui Stato Islamico e AQAP, Al Qaeda in the Arabic Peninsula), nonché dell’alto livello di ibridazione tra corpi dell’ex esercito regolare (che di fatto non esiste più) e milizie locali. Nel 2017 ha preso forma il Consiglio di Transizione meridionale (STC), supportato a livello internazionale dagli Emirati Arabi Uniti, in cui sono confluite le forze separatiste che puntano alla creazione di un governo autonomo dello Yemen del Sud. I separatisti sono particolarmente forti nell’area di Aden, dove, nella scorsa primavera, sono stati proclamati stato di emergenza e autogoverno. STC e governo riconosciuto a livello internazionale sono formalmente alleati, ma si è venuta a creare una frattura interna al fronte, in buona parte riconducibile alla vicinanza tra Hadi e il movimento Al-Islah, legato alla Fratellanza musulmana, che è pro-unità nazionale e quindi inviso ai secessionisti e agli stessi Emirati. Le due fazioni si sono scontrate sul campo per diversi mesi.

Lo scontro interno al fronte anti-Houthi è stato parzialmente ricucito con la firma degli Accordi di Ryad, nel novembre 2019, firmati da rappresentati delle diverse fazioni e che prevedono la formazione di un governo unitario composto da 24 ministri con il supporto della rinnovata coalizione tra le due monarchie del Golfo. L’obiettivo della mediazione di Ryad è ristabilire l’alleanza tra Arabia Saudita ed Emirati nella coalizione impegnata nella lotta contro i ribelli sciiti. La formazione di un nuovo governo sembra ora vicina (anche se nell’ultimo anno il rapporto tra governo riconosciuto e STC ha attraversato fasi alterne) nonostante l’ostruzione di Al-Islah che verrà escluso dai dicasteri principali del nuovo esecutivo.

Mentre il conflitto è ormai in corso da quasi 6 anni, in Yemen ha luogo una crisi umanitaria senza precedenti. Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite i livelli di denutrizione nel paese stanno raggiungendo picchi mai visti. Il Covid-19, arrivato nel paese nonostante gli scarsi collegamenti internazionali, non ha fermato il conflitto, che ha finora causato oltre 125.000 morti.

Ciò che fa più scalpore è l’appoggio che vari paesi occidentali garantiscono tuttora alla coalizione a guida saudita, in gran parte attraverso la vendita di armi. A settembre, un dettagliato reportage del NY Times ha evidenziato i vari tentativi di scavalcare il diritto internazionale e le leggi americane pur di sospendere la vendita di armi verso gli alleati sauditi. Armi che, in diversi casi, sono poi finite nelle mani di gruppi salafiti e jihadisti operativi in Yemen, come confermato dallo stesso Pentagono. 

Alla vendita di strumenti bellici utilizzati nel conflitto in Yemen non è estranea la stessa Italia, in violazione della legge 185 del 1990 che vieta la vendita di armi a paesi in guerra e di altre convenzioni internazionali. Nonostante, infatti, da luglio 2019 sia attiva la sospensione delle vendite di bombe e missili verso Arabia Saudita e Emirati Arabi, nel corso dello stesso anno sono state rilasciate autorizzazioni dal valore di 200 milioni con consegne definitive che si aggirano intorno al valore di 190 milioni. Una situazione inaccettabile, che rende l’Italia complice di una gravissima crisi umanitaria.

Continua, nel frattempo, l’azione nel paese dell’inviato dell’ONU Martin Griffiths. La Nazioni Unite stanno cercando di favorire la pace tra le fazioni rivali, tramite l’invio di “una dichiarazione congiunta” che dovrebbe servire da bozza per un futuro accordo di pace. In caso di firma dell’accordo si arriverebbe alla cessazione delle ostilità su tutto il territorio yemenita e una tregua monitorata da un meccanismo congiunto, in uno scenario in cui la pandemia di coronavirus rischia di causare un ulteriore deterioramento delle già inimmaginabili condizioni umanitarie e economiche. L’efficacia di un accordo andrebbe poi, eventualmente, testata sul campo, dove al momento gli equilibri sono incerti e la frammentazione è massima. L’Arabia Saudita, colpita duramente dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica, starebbe cercando di velocizzare la risoluzione del conflitto e di rafforzare il fronte governativo in modo da giungere alla piena implementazione degli Accordi di Ryad.

La ripresa passa, inevitabilmente, attraverso il rilancio del mercato dell’energia Lo Yemen ha effettivamente ripreso a produrre ed esportare greggio, ma la frammentazione politico-militare del paese riguarda anche infrastrutture e giacimenti. La produzione di gas liquefatto è invece ancora bloccata. Il conflitto in Yemen si trova ora in una fase non particolarmente tesa, ma periodicamente si registrano forti picchi di violenza e continuano gli attacchi Houthi verso il territorio saudita. 

La speranza è che l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca possa inaugurare una nuova fase nelle relazioni tra USA e alleati del Golfo. Lo stesso presidente eletto ha più volte dichiarato di non voler seppellire i “valori americani” in nome della vendita di armi e delle considerazioni geopolitiche. Come sempre, va tenuto conto della distanza tra campagna elettorale e realtà dei fatti. Sarebbe sbagliato aspettarsi una radicale inversione di tendenza nelle linee guida della politica estera americana in Medio Oriente, ma l’auspicio è che con la nuova amministrazione possa finalmente essere messo un freno al supporto incondizionato che l’Arabia Saudita, nonostante i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani, gode alla Casa Bianca.