Dalla Val Pusteria a Bordighera, 700 chilometri (quasi) solo andata. Così, a 14 anni, è iniziato il viaggio di Jannik Sinner nel tennis che conta: all’accademia di Riccardo Piatti l’altoatesino ha sviluppato fisico, tecnica, ma soprattutto il carattere, imparando a migliorare il suo gioco attraverso le tante sconfitte arrivate contro avversari più forti. Ma la sua ascesa è dovuta anche a diverse doti naturali, come la voglia di migliorarsi costantemente, l’atteggiamento calmo anche nei momenti di tensione e la capacità restare concentrato sempre sul prossimo punto.
Al via delle ATP Finals 2020, che nonostante la pandemia metterà di fronte i migliori 8 tennisti al mondo (ranking alla mano, escluso Federer), non ci sarà Jannik Sinner. Potrebbe essere una sorpresa per chi ha ancora negli occhi la fantastica stagione del 19enne altoatesino, culminata con la vittoria del suo primo torneo ATP al Sofia Open 2020, ma non c’è niente di strano. Servirà altro tempo, anche se ragionevolmente poco, per vedere il quarto italiano di sempre disputare le Finals, dopo Panatta (1975), Barazzutti (1978) e Berrettini (2019).
Quello dal Palalido di Milano, dove ha vinto le Next Gen ATP Finals 2019, all’O2 Arena di Londra, che per l’ultima volta ospita il torneo quest’anno, sarebbe stato un viaggio troppo lungo anche per Sinner, specialmente in 12 mesi tanto confusi e frastagliati. Sarebbe stato persino più lungo dei quasi 700 km che separano San Candido e Bordighera, alla faccia dell’Italia che si estende solo per il lungo. Sinner li percorse all’età di 14 anni, per lasciare la provincia autonoma di Bolzano, dov’era nato nel 2001, e raggiungere la Liguria, dove lo attendeva l’accademia fondata da Riccardo Piatti. Dalla montagna al mare in un baleno, dallo sci, di cui era diventato campione italiano a sette anni, al tennis, che lui stesso finì per preferire dopo anni in cui aveva tenuto in mano sia bastoncini che racchetta, cercando di capire quale fosse la strada giusta.
Sinner si è avvicinato al tennis nel modo più normale che si possa immaginare, e che difficilmente farebbe pensare a un prodigio. Si inizia con un paio di allenamenti a settimana al circolo vicino a casa, il martedì e il giovedì, perché «credo che da piccoli sia giusto provare a fare tanti sport, messi insieme». Per fortuna, ci sono i maestri a guardare più lontano di quanto possa fare un ragazzino di neanche 10 anni. Heribert Mayr e Andrea Spizzica cominciano a seguirne i passi fin da quando Jannik quasi non spiccica una parola di italiano e si deve far capire tra gesti e un po’ di tedesco. In un’intervista concessa a Sportface, Spizzica ha spiegato che «il nostro obiettivo principale divenne presto fargli scegliere il tennis. È stato un lavoro certosino, se si può definire anche ‘sporco’ perché io e Heri abbiamo fatto tanti sacrifici in tal senso. Dovevamo dargli un contenuto tale da renderlo forte tanto quanto lo era con gli sci ai piedi. Non è stato facile, ma è stata la vittoria più grande».
Per quanto le qualità si intravedessero e i risultati fossero discreti, i ricordi dei primi coach non si soffermano tanto sul talento quanto sul carattere e la tempra di un ragazzo che piangeva di rabbia quando veniva rimontato al tie-break, come ha raccontato Mayr a Ubitennis, o che, quando venne criticato ad un raduno nazionale per non saper fare «due palleggi di fila», scrisse a Spizzica per assicurargli che no, a lui non importava di queste parole, e che avrebbe continuato a lavorare. Per salire di livello, però, serviva dedicare più tempo alla pallina gialla, e quindi una scelta.
Da una parte le soddisfazioni sulla neve che diminuivano, dall’altra una riflessione, fatta a 13 anni, che la diceva già lunga sul suo futuro. Se lo sci richiedeva ore e ore di allenamento per una gara da un minuto o poco più, che poteva essere vanificata da un singolo sbaglio, il tennis «non è uno di quegli sport dove fai un errore, ed è finita. Se sbagli nel tennis in ogni caso hai perso un 15. Magari è un 15 importante, ma rimane un 15».
Forse senza saperlo, Sinner aveva preso lo spigolo più appuntito del tennis, ovvero il rischio di pensare sempre al punto appena perso innescando una spirale negativa, trasformandolo in un pregio, un motivo in più per continuare a giocare e divertirsi.
Una qualità divenuta evidente agli occhi di tutto il mondo durante i quarti di finale del Roland Garros (!). Al cospetto di Rafa Nadal, Sinner ha dimostrato una calma nei momenti più caldi del match che la sconfitta per 3 set a 0 non è in grado di raccontare. Per il momento, contro “The king of clay”, questa capacità di saper restare sempre e comunque dentro la partita gli è valsa un tie-break (perso), sette palle break di cui solo due sfruttate e la soddisfazione di vedere Nadal alzare i giri del motore com’è costretto a fare poche volte. Un domani, quando anche l’esperienza per la quale non esiste scorciatoia sarà maturata, chissà dove potrà portarlo.
Il merito, ça va sans dire, è per gran parte di Riccardo Piatti e Max Sartori. All’accademia di Bordighera Sinner, in teoria, era arrivato per un provino proprio su suggerimento di Sartori, ma non se n’è mai andato. Forse per uccidere la nostalgia delle montagne, la strada disegnata dai coach di quel giovane promettente è stata fin da subito in salita. La decisione di saltare praticamente il Junior Circuit, di cui si fa parte solitamente fino ai 18 anni, per confrontarsi fin da subito con il professionismo, ha avuto due facce. Da una parte, come ha raccontato lo stesso Sinner, all’inizio «non vincevo mai, o comunque vincevo poco» perché «in quei tornei gli altri erano più forti di me». Dall’altra, c’era già una consapevolezza non così facile da metabolizzare per un adolescente: «Abbiamo deciso, con il mio team, di andare in quella direzione. Di andare a confrontarsi ad un livello in cui mi sentivo sotto pressione perché dovevo fare qualcosa in più durante il gioco. Questo percorso sicuramente mi ha aiutato. Farlo da piccoli è molto importante perché se giochi sempre con avversari di pari livello, o di livello inferiore al tuo, vinci però non ti rendi conto se migliori o no».
In questo percorso volutamente a ostacoli, è stato determinante anche il tocco di Alfio Caronti, chiropratico che da anni collabora con Piatti e responsabile di quei pezzetti di tessuto disposti sulla racchetta di Sinner, alla base delle corde, rimasti a lungo oggetto di mistero. È lo stesso Caronti ad aver raccontato a Supertennis l’origine di questa idea, nata al primo incontro tra i due, quando «notai come Jannik, quando qualcosa gli si avvicinava, evidenziasse difficoltà di movimento». Ci volle una chiacchierata approfondita per scavare nel passato, probabilmente più lungo di quanto suggerisse l’età di quel ragazzo, e arrivare al motivo di quel comportamento.
Dopo un po’ di tempo e numerosi esercizi, che inclusero delle gare a spintoni volte a «dare a Jannik la sensazione che era divenuto invincibile», si giunse agli ormai celebri pezzetti di tessuto collocati alla base della racchetta, che Caronti definisce «un integratore sensoriale», che «serve a far percepire a Jannik la racchetta in un certo modo, un modo naturale», permettendo a Sinner di gestirla con una totale scioltezza, libero dalle tensioni muscolari che lo attanagliavano un tempo.
Qualcosa del campione di slalom gigante, però, rimane ancora oggi. L’ascesa fulminante di Sinner, fatta di obiettivi raggiunti e record inanellati uno dopo l’altro, può ricordare per certi versi la velocità con cui, a neanche 10 anni, attraversava le porte con gli sci ai piedi. La differenza è che oggi Jannik può non pensare al traguardo, ancora lontanissimo, e godersi il viaggio, probabilmente l’aspetto migliore per uno a cui «basta una racchetta per essere felice, quando sono in campo non mi serve altro», come raccontato a Vanity Fair.
L’ingresso tra i primi 100 del ranking a 18 anni, come nessun italiano prima aveva mai fatto; la vittoria delle Next Gen ATP Finals del 2019; i primi top 10 al mondo battuti; l’approdo ai quarti del Roland Garros alla sua prima partecipazione, riuscito per l’ultima volta a Nadal nel 2005; la conquista della prima finale ATP come più giovane italiano di sempre e, per ultima, la vittoria del Sofia Open 2020 arrivata al tie-break contro il 30enne Pospisil, altra incredibile vetrina di tutte le qualità dell’altoatesino, capace di sfoderare il vincente quando ti aspetti l’errore, di mantenere le gambe salde quando l’attenzione mediatica ti fa capire che dovrebbero tremare o, più semplicemente, di restare sempre concentrato sul punto che verrà, non su quello appena giocato.
Sono tutte tappe che non possono più stupire, parte di un percorso che Sinner proseguirà con la serenità di chi, a 19 anni, ha già scoperto dove possono portare lavoro e serietà, quella di chi è disposto ad accettare una sconfitta oggi per poter migliorare e vincere domani. Atteggiamenti che sarebbero impensabili senza quel lato umano e la maturità dati da una famiglia che ha formato un ragazzo pronto a lasciare casa a 13 anni e capace di coltivare al meglio l’indipendenza concessagli, tanto da essersi incordato a lungo le racchette da solo nella propria cameretta di Bordighera, tanto da affermare che «il mio tennis esprime libertà», quella di cui ha potuto godere fin da piccolo senza mai dimenticare il privilegio di potersi divertire per mestiere. Anche in questo caso, avere una mamma che taglia corto al telefono perché deve tornare a lavorare e «ci sono cose più importanti del tuo tennis», può aiutare. Così Sinner è entrato, neanche 20enne, tra i primi 40 tennisti al mondo. Non c’è tempo, però, per esultare, al massimo un pugnetto rapido e nascosto, perché la testa è già al prossimo punto.