“C’era una Tappa” è la rubrica di The Pitch Olympia che racconta alcune delle leggendarie imprese compiute al Giro d’Italia che trascendono le due ruote. Perché la storia della Corsa Rosa s’intreccia a doppio filo con quella del nostro Paese.
In questa puntata extra ripercorriamo gli scioperi che si sono verificati al Giro.
«Basta, ci fermiamo». Al km 17 della terzultima tappa dell’ultimo Giro d’Italia il gruppo scende dalla bici e si rifiuta di proseguire. Alcuni vanno al bar, altri attendono sotto la pioggia il ritorno dei pullman, già in viaggio verso Asti, sede dell’arrivo di giornata. La Morbegno-Asti, da tappa più lunga della corsa rosa (251 km), si trasforma così nella Abbiategrasso-Asti che di chilometri ne conta solo 124. «Colpa delle condizioni meteo e degli sforzi dei giorni scorsi», si difendono i ciclisti, capitanati dal 39enne Adam Hansen, al suo ultimo grande giro in carriera. Il riferimento è in particolare alla tappa dello Stelvio che il giorno prima ha rivoluzionato la classifica e inflitto al gruppo un surplus di fatica. Al patron del Giro, Mauro Vegni, non resta che subire la decisione e promettere ripercussioni anche legali una volta giunti a Milano. Ripercussioni di cui finora non s’è vista l’ombra.
Se stavolta l’opinione pubblica e gli appassionati hanno in gran parte contestato la scelta dei ciclisti, accusati di essersi rifiutati di correre in condizioni “normali” (pioveva, sì, ma la temperatura era ben oltre i 10°C) e di aver inscenato una protesta che fa male a tutto il movimento, non è la prima volta che il gruppo decide di sospendere lo show. La storia degli scioperi al Giro è lunga quasi quanto quella del Giro stesso. Siamo nel 1912, quarta edizione della corsa rosa, la prima e l’unica disputata a squadre: la vincerà l’Atala di Luigi Ganna (vincitore della prima edizione del 1909, ma non parente del nuovo astro nascente del ciclismo italiano), ma passerà alla storia soprattutto per la quarta tappa, la Pescara-Roma. In seguito allo straripamento di un torrente, il gruppo – composto da appena 52 corridori – sbaglia strada ad un bivio all’altezza di Passo Corese, dalle parti di Rieti.
I ciclisti se ne accorgono solo qualche decina di chilometri dopo, a Civita Castellana, in provincia di Viterbo. Troppo tardi per tornare indietro e, in polemica con l’organizzazione quanto meno carente, decidono di scioperare. Salgono su un treno e raggiungono la Capitale in carrozza. Gli spettatori, che li stanno aspettando allo Stadio Nazionale, pretendono invano la restituzione del biglietto. In quel caso, però, le ripercussioni non mancheranno: la tappa, annullata per “errata segnalazione del percorso”, verrà sostituita dalla Milano-Bergamo, incastonata tra l’ottava e la nona frazione. Non sempre però per scioperare è necessario scendere dalla bici: basta rifiutarsi di accendere la corsa. È quello che accade al Giro 1954: alla vigilia delle Alpi, tra l’indigestione di cozze patita da Coppi e l’attendismo di Magni e Koblet, la maglia rosa è sulle spalle del giovane Carneade Clerici.
Decisivo, si aspettano tutti, sarà il Passo del Bernina, vetta più alta del Giro di quell’anno con i suoi 2.323 metri. L’Italia intera, galvanizzata dall’impresa compiuta da Coppi il giorno prima a San Martino di Castrozza, è pronta a guidare il suo idolo alla conquista del primato. E invece…il gruppo decide di scioperare. Come? Procedendo a 20 km all’ora in quella che sarebbe dovuta essere la tappa più incendiaria del percorso. Che i big, ormai rassegnati alla vittoria di Clerici (ancora saldamente in testa in classifica grazie ai 34 minuti guadagnati nella tappa de L’Aquila), abbiano voluto dare un segnale “cifrato” agli organizzatori? Oppure il messaggio, più prosaicamente di carattere contrattuale, è rivolto ai patron delle singole squadre? A distanza di 66 anni le cause sono ancora un mistero. Di certo c’è solo che il gruppo, all’arrivo al Vigorelli di Milano, sarà subissato di fischi. Clerici ci arriverà in rosa.
Altre volte, più semplicemente, i corridori si lamentano della pericolosità del percorso. Succede al Giro ’84, vinto da Moser, in cui nella tappa da Foggia a Marconia di Pisticci i capitani delle squadre si accordano per procedere ad andatura turistica, addirittura senza concedersi la volata sul traguardo: lo svizzero Freuler fa il furbo e sprinta comunque, ma la giuria invaliderà l’ordine di arrivo. Più di recente saranno considerate troppo pericolose la tappa di Milano del 2009 e la passerella finale di Roma nel 2018: nel primo caso viene inscenato un altro “sciopero bianco”, mentre nel secondo i corridori, guidati da Chris Froome, ottengono la neutralizzazione dei tempi per ridurre al minimo i rischi sui sampietrini della Capitale. La questione finisce addirittura sui banchi del consiglio comunale, con l’opposizione che accusa la giunta Raggi di figuraccia in mondovisione.
Lo sciopero ciclistico per definizione, però, non riguarda il Giro d’Italia. Siamo al Tour de France, ma è come se fossimo in Italia, visto il seguito che l’intero Belpaese tributa al suo nuovo idolo Marco Pantani. La sera del 28 luglio, alla vigilia della tappa da Albertville a Aix-les-Bains, la Gendarmerie effettua l’ennesima perquisizione a sorpresa negli alberghi in cui soggiornano le squadre: causa doping fanno la stessa fine della Festina, squalificata pochi giorni prima, anche la Once di Jalabert, la Banesto, la Kelme, la Tvm, la Riso Scotti e la Vitalicio Seguros. A Parigi arriveranno solo 96 dei 180 corridori partiti da Dublino e la tappa di Aix-les-Bains non si correrà: l’immagine dei ciclisti seduti sull’asfalto e delle bici lasciate per terra farà il giro del mondo. Una protesta contro quella che molti in gruppo definiscono una “caccia alle streghe“. Le streghe però stavolta ci sono ed è inutile negarlo.