Trump vs Biden. Questo è il motto che accompagna la politica americana almeno dalla notte del Super Tuesday dello scorso 3 marzo, quando l’ex senatore del Delaware riuscì a ribaltare la corsa alla nomination democratica, surclassando il socialista Bernie Sanders, probabilmente arrivato all’ultimo tango di una lunghissima carriera, ma non per questo privo di un’influenza enorme all’interno del partito e del suo futuro.
Milioni di cittadini americani hanno già espresso la propria preferenza, con numeri da record, e molti altri lo hanno fatto ieri. Si va confermando lo scenario che tutti i sondaggi pronosticavano: quello dell’avvicendamento alla Casa Bianca. Un cambio di inquilino che quasi tutti che costituisce uno spartiacque nell’indirizzamento del paese: insomma, una rivoluzione. Ha davvero senso esprimersi in questi termini quando si parla del capo di Stato della principale superpotenza del mondo? Forse no.
Perché Joe Biden difficilmente sarà il presidente di tutti gli americani, come da lui predicato in molti comizi elettorali. Impossibile riuscire nell’impresa in una nazione letteralmente spaccata in due e dove l’obiettivo è sempre e comunque indebolire chi sta dall’altra parte della trincea. Improbabile farlo in un’America che cambia ogni giorno, con enormi disuguaglianze sociali, con milioni di persone abbandonate a sé stesse, ma proprio per tutto ciò mai immobile, sempre vivace, pronta ad ispirare cambiamenti che presto si riverbereranno nel resto del pianeta. Sintomo di grandezza pressochè inscalfibile. Allora come saprà porsi il nativo di Scranton davanti a questo scenario interno?
Sicuramente con quel pragmatismo ed astuzia che hanno contraddistinto il suo quasi mezzo secolo di politica, rimanendo sempre in equilibrio tra un estremo all’altro, senza mai scivolare verso estremismi; Biden cercherà di fare il massimo che gli sarà consentito fare dal proprio partito, che lo ha imposto sopra la miriade di candidati alle primarie proprio per via del suo status di moderato. Qui, però, viene alla luce il primo e forse più importante problema della candidatura di Biden: la sua agenda è quella di un partito che ormai si è sempre più spostato a sinistra, spinto da Sanders, AOC, The Squad, dal Black Lives Matter ed un movimento giovanile sempre più in espansione ed evoluzione. Le proposte per allargare ancora di più la copertura sanitaria pubblica, per dirigersi verso una totale transizione green, eliminare il fracking e altre risorse inquinanti (su cui però alcuni Stati, soprattutto quelli che ad ogni elezione si trovano della posizione di essere swing, fondano il loro esistere come tali), aiutare la scuola pubblica, prendere per mano le minoranze, e più in generale allungare sempre di più la mano del government nelle vite di tutti i cittadini, sono sembrata più imposte che dettate dall’ex vice di Obama. Indebitamento e spesa pubblica alle stelle rischiano di essere le conseguenze. Non proprio il programma semi-centrista che ci si aspetterebbe, ma si sa: Joe Biden è un situazionista, abile a cogliere le istanze fondamentali delle differenti stagioni politiche, capace di galleggiare tra le diverse correnti dentro il partito: ed è molto probabile che possa vederci giusto.
Per quanto riguarda il rapporto con il resto del mondo, ecco che le più grandi fantasticherie sul divario nettissimo tra The Donald e Joe si sprecano, sognando un mondo che dal 20 gennaio sarà ribaltato: nulla di tutto ciò. Sicuramente i toni cambieranno, le uscite avventate saranno più rarefatte, dalla Casa Bianca sarà elaborata una migliore comunicazione, ma nella sostanza difficilmente l’America smetterà di essere quel padrone d’impero stanco, alienato, voglioso di far pesare il fardello anche sugli alleati, irascibile ed insensibile anche con i più fidi compagni di viaggio. Difficilmente la Sindrome da Numero Uno, unico ed incontrastato, abbandonerà il Leviatano liberale. Biden ha già detto che vorrà immediatamente recuperare i rapporti con gli alleati UE, affrontare la questione Cina in maniera meno nervosa, far calare la pace sul Medio Oriente, punire qualsiasi interferenza esterna: tutto questo riportando l’America al centro del mondo, tornando ad essere il buon faro amichevole per qualsiasi nazione. Ma una fase storica dell’impero non è determinata dal suo leader. Il presidente ne è semplicemente il risultato, con l’incarico di farsi portavoce di queste posizioni davanti al mondo intero. Ciò che Trump ha fatto con entusiasmo fin dal primo giorno, Biden probabilmente lo emulerà, in maniera meno convinta.
La strada è tracciata, non si può più tornare indietro. La Germania, volenterosa di riappropriarsi dopo 75 anni di una personalità geopolitica; la Russia, sempre in agguato per mostrare tutte le debolezze del suo nemico numero uno; la Cina, sogna di rubare il trono ; l’Iran e la Turchia, grandi studiose di un passato dorato. Sono tutti avvisati: Trump non è un incidente della storia, la musica non cambierà. Con Joe Biden, magari in modo mascherato, continuerà ad essere sempre e solo America against the world.