Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
Giuseppe Ungaretti, Soldati , 1918
Il 4 novembre è l’anniversario, per l’Italia, della fine della prima guerra mondiale. Evento cardine della modernità, prima devastante guerra di massa. Sono passati cent’anni e il mondo era diverso, quasi nulla ci può oggi agganciare a quell’esperienza. Il 4 novembre è anche festa dell’unità nazionale, espressione che oggi ha un valore opaco. Unità nazionale, patriottismo, sono parole di sapore ottocentesco che richiamano parole più attuali ma scivolose, come identità, o più espressamente pericolose come nazionalismo e razzismo, come suo corollario. La memoria della prima guerra mondiale è stata proposta come istituzionale, formale, ingessata, mai conflittuale.
Eppure, le parole di Ungaretti hanno oggi un senso nuovo e non solo perché un grande poeta riesce ad essere universale. A memoria delle generazioni oggi in vita, mai come in questo autunno ci sentiamo di star come foglie sugli alberi. I cori dalle terrazze, i condomini di grandi città uniti dall’Inno di Mameli, gli entusiasmi patriottici della scorsa primavera, stanno lasciando spazio all’angoscia, allo smarrimento. La memoria è un fiume carsico: scompare e riemerge, in modi raramente prevedibili. La memoria dialoga con i luoghi, funziona per illuminazioni improvvise. E’ un serbatoio di significati al quale attingiamo.
Qualche giorno prima dell’emanazione dell’ultimo decreto sono andata in Veneto a salutare la mia famiglia. Uno dei miei fratelli sarebbe andato a studiare in Germania, era un’occasione per salutarsi, per passare qualche giorno insieme, è probabile che a Natale questo non sarà possibile. Il tempo stringeva, c’era nell’aria la possibilità che la Germania chiudesse i confini. Siamo partiti da Roma in macchina, con l’idea di fare qualche sosta. Mia madre abita sul Montello, un panettone di terra troppo piccolo per esser chiamato collina, che affaccia sul Piave. Quel Piave che la canzone ricorda mormorare allegro il 24 maggio 1915 per accompagnare il fresco esercito italiano verso le Alpi e che tre anni dopo era diventato il fronte di battaglia, limite estremo da difendere a costo di tutto. Tra l’inverno del 1917 e l’autunno del 1918 qui l’esercito italiano ha resistito agli austriaci; da qui, sul finire di ottobre 1918, partì la corsa fino a Vittorio Veneto che determinò la definitiva vittoria italiana.
La Grande guerra ha falcidiato un’intera generazione. Milioni di morti in tutta Europa, una carneficina senza precedenti. Lo storico americano Jay Winter, nel suo libro Il lutto e la memoria, documenta come questa nuova, pervasiva esperienza della morte abbia plasmato la storia culturale europea, accomunando vincitori e vinti nella necessità di trovare dei linguaggi adatti ad elaborare un lutto di assurda vastità. Un grande macello. Una morte anonima e senza sepoltura. Il tema delle politiche della memoria assunse un valore di primo rilievo, come mai prima d’allora. Già nel 1919 si istituì la celebrazione del 4 novembre, che sarà l’unica festa nazionale celebrata dall’Italia prima, durante e dopo il fascismo. La missione era assorbire gli innumerevoli lutti individuali in una rappresentazione collettiva condivisa, capace di rinsaldare il sentimento di unità nazionale; unire autorità e popolo, militari e civili, istituzioni e famiglie in un unico, pacificato, coerente universo simbolico. La commemorazione dei morti diventa il perno centrale di una nuova religione della patria, che secolarizza il concetto cristiano di morte e vita eterna e lo plasma sull’idea della Nazione. In nome di questa nuova religione si erigono cimiteri militari, sacrari, luoghi pubblici e privati destinati al culto della memoria, potente strumento generatore d’identità. Nel 1921, sull’esempio francese e inglese, anche l’Italia celebrerà il suo Milite ignoto: figura chiave della memoria pubblica della prima guerra mondiale, un giovane eroe senza nome, anonimo figlio del popolo, capace di rappresentare tutti i figli della patria.
La morte, nella Prima guerra mondiale, ha gli stessi caratteri della civiltà industriale: è anonima e di massa. George L. Mosse, fondamentale studioso del fenomeno di nazionalizzazione delle masse, scrive: «Con lo sviluppo del culto del soldato caduto, […] la morte in battaglia del fratello, del marito o dell’amico diventò un sacrificio; e ora, perlomeno in pubblico, si affermava che il guadagno sopravanzava la perdita personale. Non si tratta soltanto del fatto che l’adesione agli scopi della guerra giustificava la morte per la propria Patria: la morte stessa era trascesa, giacché i caduti erano propriamente santificati, a imitazione di Cristo. Il culto dei caduti fornì alla Nazione i suoi martiri, e con il luogo del loro estremo riposo anche un tempio della religione nazionale, e offrivano alle generazioni successive un esempio da seguire. Anche in tempo di pace, il culto serviva di promemoria della gloria e della sfida che la guerra rappresentava».
Il fascismo capisce presto l’importanza di questo tema, che da simbolico diventa politico. Si aggiudica il primato nella gestione della memoria, della glorificazione della guerra e del caduto per la patria, si fa interprete di quel bisogno di risarcimento che non trovava risposta nella retorica formale dello Stato liberale, che sperava di liquidare con qualche medaglia e pompose celebrazioni i reduci, i mutilati e tutti gli strascichi di una guerra che continuava a presentare il conto. La religione nazionale darà i suoi frutti terribili nel Ventennio fascista e con la seconda guerra mondiale.
Ogni piccolo paesino in Italia ha il suo monumento ai caduti, il suo elenco di morti, gli omaggi al milite ignoto. Oggi sono pezzi di ferro e marmo svuotati di senso, fanno quasi parte del paesaggio, è un pezzo di storia che sembra fissato nel passato. Il monumento sta lì a ricordarci qualcosa della nostra storia, ma non si aggancia alla nostra esperienza vissuta. Della prima guerra mondiale resta la memoria istituzionale ma, ora che non son più vivi i testimoni e che mano a mano si spegne il ricordo nelle memorie familiari, nella memora collettiva il legame con questo evento diventa sempre più opaco.
A metà degli anni Ottanta, il filosofo americano Duke Maskell scrisse che, nel linguaggio politico, non era più possibile utilizzare con convinzione la parola nazione. Ne abbiamo perso il concetto, o meglio: « la parola nazione – così come la parola onore – non descrive più un’esperienza pienamente riconoscibile. Noi non siamo più in grado di comprendere profondamente le esperienze che queste parole indicano o le azioni che queste parole ci consentono di giustificare». Restano come dei fossili nel nostro linguaggio: capiamo cosa vogliono dire ma questa comprensione non si aggancia a nessuna esperienza; in questo senso, il sacrificio di milioni di uomini per la patria, celebrato nei memoriali, non ci è pienamente comprensibile.
Con l’emergenza sanitaria, molte parole si stanno ri-significando e sono parole che vengono dal linguaggio della guerra. Parliamo di confinamento, di coprifuoco, di medici in prima linea o in trincea; aspettiamo al telegiornale il bollettino dei numeri del contagio; chiamiamo eroismo l’impegno straordinario di medici e infermieri; abbiamo ripescato il tricolore, l’inno nazionale. Di fronte a un’esperienza nuova, eccezionale, non abbiamo parole per descriverla e le cerchiamo nell’esperienza che, immaginativamente, ci sembra che assomigli a quello che stiamo vivendo.
La memoria è un oggetto complesso. Può collaborare con la storia ma è radicalmente altro. E’ per natura parziale, instabile, personale, fatta per essere sovrascritta, soprattutto si rapporta sempre con un vissuto, lavora con il passato ma è sempre nel presente. Quando nel 2004 ho lasciato questi luoghi, le tracce della prima guerra mondiale erano i toponimi, i racconti familiari e delle foto in bianco e nero in qualche osteria. Molte strade sono state intitolate a medaglie d’oro, per lo più sconosciute nel resto d’Italia; alcuni paesi più gloriosi hanno aggiunto al nome originario il suffisso “della Battaglia”. Le commemorazioni per il centenario della Prima guerra mondiale hanno valorizzato la memoria territoriale, si sono moltiplicati i cartelli che indicano itinerari, monumenti e percorsi. A Nervesa della Battaglia c’è il Sacrario del Montello, uno dei più grandi ossari nazionali, che raccoglie le spoglie di 9.325 soldati italiani, precedentemente sepolti in circa centoventi cimiteri sparsi lungo il fronte del Piave: 6.099 sono stati identificati, 3.226 restano ignoti. Le ossa che sono riuscite ad avere un nome, dietro a quel nome sono custodite nel marmo. Uno dietro l’altro, in celle ordinate, sfilano tutti i cognomi d’Italia con un ordine ipnotico. Capita di incappare in un cognome conosciuto – di un amico, di un collega, del vicino di casa – e quella celletta ha un’attenzione in più. Mi ritrovo a cercare il mio cognome, non c’è: un misto di sollievo e di dispiacere che la mia stirpe possa non aver partecipato alla gloriosa storia d’Italia. Le ossa senza nome son celebrate con creativi slanci retorici. Una massa di anonimi si trasfigura nel volto della patria. Morendo per la patria perdono il nome, vincono l’eternità. Un comune generoso grande sacrificio ignoto.
La catena di montaggio della morte, dove solo l’impresa conta. Dormono confusi nella comune gloria ignota. La morte scritta su queste lapidi è radiosa, è bella; i soldati non hanno nome perché il loro nome è valore, è coraggio, è Italia. Un labirinto di marmi e nomi di uomini. Ricorre un avverbio di cui – di nuovo – non abbiamo un senso reale: Arditamente; molti futuristi superlativi come Insidiosissimo; le brevi narrazioni che interrompono la lista di nomi sono tutte verbi, parole vibranti d’azione e sprezzo del pericolo. Non ci sono immagini: è la lingua a farsi immaginifica, a suggerire con i suoni l’immensità dell’impresa. All’ultimo piano c’è una piccola esposizione, su tutt’altro tono. Ci sono scarni oggetti quotidiani ritrovati nei bunker: portasigarette con qualche sigaretta molla di umidità, carte da gioco, piccoli fogli. Il nulla che accompagnava le infinite giornate nascosti tra le crode del Piave. Qualche foto mostra ciò che l’eroismo dei motti nasconde: corpi e anime rotte, gruppi di facce sconvolte, paesi distrutti, il silenzio.
La parte nord-est del Montello, è costellata da bunker scavati tra le crode, mimetizzati tra il fango e la vegetazione. È buio e umido dentro le grotte, la luce filtra da piccole feritoie usate per le mitragliatrici. Si sente il fiume scorrere costante. Acqua e sassi. Incontriamo un vecchio che va a funghi. Chiodini, ci racconta. Non ce ne sono ancora, anzi sì – ride: “uno ne ho trovato. Uno, uno solo… Almanco non torno dalla moglie a mani vòde.” Ci mostra quest’unico chiodino e ride. Ci racconta che fa parte di un’associazione che si occupa, tra le altre cose, di tenere pulito questo percorso. Sono loro che hanno messo i pochi segnali di carta plastificata. Hanno un coro e cantano le canzoni della guerra. Mentre racconta, ogni tanto, infila qualche strofa. Canta e parla senza soluzione di continuità, una voce leggera e brillante. Ci sono anche molti giovani, ragazzi di quindici-sedici anni, nel coro. Fanno concerti nei paesi vicini. Non sono solo le canzoni degli alpini, sottolinea, sono le canzoni di questa terra.
Nel viaggio verso Roma, a Bagno di Romagna, incontriamo un’acuta signora, figlia di anarchici, che caparbiamente porta avanti una campagna contro quella che secondo lei è una scandalosa disinformazione sul Covid. I suicidi sono in aumento, ma non ne parla nessuno. Nel suo computer ha una dettagliata cartella di documenti dove raccoglie, in ordine cronologico, i discorsi del presidente del consiglio, i testi dei dpcm, le dichiarazioni di politici di vari orientamenti, e le mette a confronto con le leggi varate durante il fascismo. Secondo i suoi studi non ci stiamo accorgendo che un regime autoritario liberticida si è già istaurato. Prova inconfutabile è che, ripercorrendo i passi del duce, hanno pure abolito la stretta di mano. Non crede più a nessuno, professa la fede anarchica del padre di diffidare sempre e per sempre del potere.
Uno dei fatti più sconvolgenti del primo lock down è stato l’impossibilità di seppellire i morti; una delle immagini più forti, i camion dell’esercito che trasportavano le bare a Bergamo. La presenza materiale della morte, in una società addestrata a rimuoverla ci ha scaraventati fuori da quello che pensavamo fosse il normale orizzonte di senso. I media ci dicono che siamo in guerra e che il nemico è invisibile, il presidente del consiglio fa appello a rigore e dovere come fondamento dell’identità civica. Non siamo abituati, nella tradizione repubblicana, a questo linguaggio, a questi toni, agli appelli patriottici. La società italiana, ma più in generale europea, dal secondo dopoguerra, ha progressivamente espunto dall’orizzonte comunicativo il vocabolario della guerra e della morte. Così come era scomparso il nesso sacrificale che lega il cittadino allo stato.
Non c’è una reale proporzione tra la prima guerra mondiale e l’attuale pandemia, non si possono mettere sullo stesso piano due fenomeni la cui natura è sostanzialmente diversa. La metafora bellica porta con sé una costellazione di significati, utili più sul piano immaginativo che pratico-letterale (dove anzi portano una dannosa confusione). Ma il nostro modo di sistematizzare l’esperienza del mondo è – pure oggi, nel 2020 – un modo mitico, che ha bisogno di una narrazione per costruire un senso e di metafore per affrontare una realtà per la quale non abbiamo ancora un linguaggio adeguato. Il parallelo tra guerra e pandemia non deve portarci a una necessaria sovrapposizione, ma a un desiderio di indagare questa connessione. Con questo bisogno, con queste domande, possiamo rivolgerci alla Storia per riallacciare dei fili, cercare – magari – nuove chiavi di lettura di eventi trascurati, o un senso nuovo per eventi già noti.