Negli anni Sessanta l’America del boom economico e dei baby boomers viveva un clima di terrore da Guerra Fredda, denso come il burro di arachidi. Dopo la crisi del ’29 e la guerra, iniziava per la middle class un periodo di ascesa sociale, all’insegna dei consumi e dello spostamento dalle campagne alle grandi città. Il movimento per i diritti civili degli afroamericani muoveva i primi clamorosi passi, ma a spaventare la classe media bianca non erano i movimenti interni, bensì il conflitto atomico col blocco sovietico, l’argomento cardine nel dibattito pubblico. La società americana viveva in costante paranoia, lo testimoniano le decine di rifugi anti-atomici spuntati come funghi fra le abitazioni private. Il governo promuoveva programmi di sopravvivenza da un possibile attacco nucleare e nascevano decine di movimenti “Prepper”, persone che si preparavano a sopravvivere ad un eventuale disastro atomico, accumulando risorse di ogni genere in vista dell’apocalisse. La guerra in Corea, la crisi di Cuba, il muro a Berlino e l’escalation in Vietnam non lasciavano intravedere tempi tranquilli all’orizzonte. Erano anni di benessere e di tensione.
Inoltre l’America si trovava con circa il 50% della popolazione di età inferiore ai 25 anni a causa del baby boom degli anni ’50: un’ondata di giovani ventenni iniziava a protestare contro il consumismo, il materialismo e il capitalismo. I linguaggi convenzionali con cui la pubblicità si muoveva venivano abbandonati per essere sostituiti con nuove forme di comunicazione, esemplificate da umorismo, ironia e irriverenza. Alla pubblicità si rimproverava di aver promosso il materialismo e aver tentato di ingannare i propri consumatori, utilizzando attori spacciati per medici e avvocati che teorizzavano con fare da sofisti sui benefici per la salute del fumo di sigaretta.
In questo clima, nel 1957, Vance Packard pubblicava “I Persuasori Occulti” un libro che fece molto discutere poiché spiegava i meccanismi della comunicazione pubblicitaria.
Il sociologo mise in evidenza come in America, soprattutto a partire dal dopoguerra, andasse diffondendosi un’aggressiva propaganda secondo la quale il buon cittadino era individuato nel buon consumatore. Ne conseguì lo sviluppo dell’industria pubblicitaria, che si avvalse di meccanismi leciti seppur occulti, giovandosi di scoperte tecnologiche moderne e della ricerca scientifica. Un esempio su tutti? Le pubblicità di sigarette.
Il fumo contribuiva a creare uno “status symbol” miscelando sessualità e machismo, un mix che oggi definiremo tossico in tutti i sensi.
Le tecniche elencate da Packard venivano usate largamente nelle competizioni elettorali. Fino ai primi anni ’60 si pensava che votare fosse un’operazione razionale completamente priva di elemento razionale. Nel 1964 le presidenziali misero di fronte Barry Goldwater Repubblicano ed estremo conservatore, dall’altro Lyndon B. Johnson, il vicepresidente Democratico subentrato come inquilino della Casa Bianca dopo l’omicidio Kennedy e firmatario nel 1963 del Civil Rights Act, che garantiva agli afroamericani l’accesso a tutte le strutture pubbliche e vietata la discriminazione per razza, religione o sesso.
La pubblicità è da sempre lo specchio della società e all’epoca fece nettamente la differenza. Questo è lo spot con cui Barry Goldwater parlava all’America.
Gli annunci pubblicitari di Goldwater erano antiquati, con un ampio uso di testimonial e una serie di pubblicità che emulavano “Eisenhower Answers America”, lo spot con cui Ike vinse le elezioni qualche anno prima. Gli annunci riflettevano il problema fondamentale della campagna di Goldwater, vale a dire che era quasi sempre sulla difensiva, spiegando costantemente le sue dichiarazioni o rispondendo alle accuse contro di lui, di fatto esacerbando le accuse nei confronti del candidato Repubblicano, mantenendo le accuse dell’opinione pubblica di guerrafondaio intenzionato a smantellare la previdenza sociale
Tra l’altro lo slogan di Goldwater, “In Your Heart You Know He’s Right.”, gli si è ritorto contro, generando adesivi e spillette che lo trasformavano in “In Your Heart You Know He Might,/ Nel tuo cuore sai che potrebbe” “In Your Head You Know He’s Wrong./ Nella tua testa sai che ha torto.” e “In Your Guts You Know He’s Nuts./ Nelle tue viscere sai che è pazzo.”
Insomma per Goldwater le cose stavano andando male, ma il colpo di grazia avvenne quando dopo una serie di scambi di battute e dichiarazioni, Johnson attaccò il suo avversario con lo spot più controverso della storia delle elezioni americane e della pubblicità stessa. Lyndon B. Johnson affidò la comunicazione alla nascente Doyle Dane Bernbach (DDB) di New York.
Tutto iniziò con una bambina che in maniera ingenua contava i petali di una margherita –daisy in inglese- sbagliando anche qualche numero, in un gesto dolce e ingenuo. Poi interviene la voce di un uomo metallica, simile a quella dei lanci della Nasa che inizia un countdown. Piano piano la telecamera si avvicina a gli occhi della bambina e nei suoi occhi compare un esplosione atomica, per circa 36 secondi non si capisce di cosa stiamo parlando, poi spunta una voce:
Questa è la posta in gioco. Costruire un mondo in cui tutti i figli di Dio possano vivere, o sprofondare nell’oscurità. Dobbiamo amarci l’un l’altro, o moriremo. Vota per Johnson Presidente il 3 Novembre. La posta in gioco è troppo alta per restare a casa
In questo spot l’avversario Barry Goldwater, non viene mai citato. Si basa su quello che tecnicamente viene chiamato “insight”, una verità che lega il consumatore al prodotto: “le persone hanno paura di un conflitto nucleare e cercano qualcuno che dia sicurezza e che possa scongiurare la cosa”. Johnson incarnava questa verità. Sebbene l’annuncio sia andato in onda solo una volta, è spesso citato come un fattore che ha contribuito alla schiacciante vittoria di Lyndon Johnson su Goldwater nel 1964. Prova che la pubblicità negli anni ’60 è stata davvero molto influente e che in ambito pubblicitario era nata una stella, quella di DDB.
Bill Bernbach è considerato una legenda nel mondo pubblicitario. Nato nel 1911 in una famiglia di origini ebraiche del Bronx, il primo giugno del 1949 fondò insieme a Ned Doylen e Maxwell Dan la DDB. Le riviste di settore a stento pubblicarono la notizia, domandandosi se avesse senso un’altra agenzia a Madison Avenue. Ma la tenacia dei tre alla lunga diede i suoi frutti. Nel 1959 Volkswagen gli affidò il lancio del Maggiolino in un mercato, quello americano che ancora associava la vettura “all’auto di Hitler“. Non era certo un marchio qualunque, a pochi anni dalla seconda guerra mondiale, per un’agenzia diretta da un ebreo, per di più. Eppure per quel maggiolino nacque la campagna ancora oggi considerata la misura aurea della pubblicità moderna, il Partenone dell’advertising. Per promuovere il Maggiolino Volkswagen, i tre pubblicitari capitalizzarono le percezioni negative verso un’auto così piccola con titoli come “Think Small” e “Lemon”, trasformando i difetti in elementi positivi. All’epoca le auto in America erano molto grandi e consumavano tanto. Questa era piccola e solida.
Bill in quegli anni generò una vera è propria rivoluzione creativa, ascoltando il sentimento che gli americani avevano in quel momento nei confronti della pubblicità. La voglia di non essere presi in giro e di vedere annunci ironici e spensierati, fatte da argute “trovate pubblicitarie”.
In questo video c’è la raccolta di 60 anni di campagne presidenziali per la corsa alla Casa Bianca. Una panoramica in pochi minuti di come la comunicazione negli anni si è evoluta e di come da Eisenhower fino ad i giorni nostri sono cambiati gli stili della comunicazione.
E oggi? Come sta andando la corsa alla Casa Bianca.
Le elezioni presidenziali del 2020 hanno fatto seguito a mesi estremamente caotici.
Il 18 dicembre 2019, la Camera dei Rappresentanti ha votato per mettere sotto accusa il presidente Donald Trump con l’accusa di abuso di potere e ostruzione al Congresso, in relazione ai suoi rapporti con l’Ucraina. Il 5 febbraio 2020 il Senato ha votato per l’assoluzione da entrambe le accuse. Nello stesso mese, il Partito Democratico ha iniziato le sue elezioni primarie con in campo tanti candidati e portando alla vittoria di Joe Biden.
L’impeachment e le primarie democratiche sono rapidamente passate in secondo piano all’inizio di marzo quando la pandemia COVID-19 ha colpito gli Stati Uniti. Il 13 marzo, il presidente Trump ha dichiarato un’emergenza nazionale, ma ha lasciato agli Stati le decisioni sulla chiusura delle attività commerciali e le direttive sulla permanenza in patria. Il 26 marzo, gli Stati Uniti avevano il più alto numero di casi al mondo e, dal 1 settembre, sono in testa al mondo con oltre 6 milioni di casi e più di 180.000 morti per COVID-19. Presto seguì un grave crollo economico e ad aprile quasi 10 milioni di americani erano disoccupati, con casi e tassi di mortalità in aumento ogni giorno. I democratici indicano l’escalation di COVID-19 e la mancanza di un sistema di test coordinato come prova che Trump ha deluso gli americani.
L’altro grande problema della campagna di Trump è il crescente movimento per la giustizia razziale. Una serie di omicidi da parte della polizia di persone di colore disarmate -come Breonna Taylor a marzo e George Floyd a maggio- ha spinto milioni di americani a unirsi alle manifestazioni di Black Lives Matter in tutto il paese per chiedere la fine della brutalità della polizia e affrontare la sempiterna questione del razzismo sistemico. La campagna di Biden ha reso l’equità razziale e la riforma della giustizia penale una questione centrale, mentre Donald Trump ha diffamato e screditando i manifestanti su Twitter.
Tutta la comunicazione di Biden si basa sull’inclusione e su quei valori autentici. Un sano richiamo al patriottismo e all’uguaglianza. Nel suo discorso in cui accetta la candidatura alla corsa per la Casa Bianca ha dichiarato Biden:
La presidenza Trump è stata caratterizzata da una retorica divisiva, un uso non convenzionale dei social media e la frequente promozione di notizie false. Ha basato tutta la sua campagna rielettiva sulla celebrazione dell’economia del paese prima del crollo a causa della pandemia, sull’elenco di quanto di positivo abbia fatto per rendere nuovamente grande l’America, rimarcando in più occasioni il motto conservatore del “Law and Order” per sedare le proteste in corso per l’uguaglianza razziale.
Tra Biden e Trump gli approcci e gli stili di comunicazione sono nettamente diversi: Biden prende il testimone da Obama, cercando di arrivare al cuore degli americani con un approccio emotivo, mentre Trump è il “one-man show” che elenca risultati per arrivare alla pancia del Paese, invocando a pieni polmoni il suo mantra: “Make america great again“.
Biden è inclusivo, la sua narrazione è rassicurante, sobria. Infatti utilizza un linguaggio moderato e senza picchi di tonalità. Mira ad una platea più ampia e attenta ai contenuti che alla spettacolarizzazione di essi. “Battle for the soul of the nation“ è il suo claim che da un punto di vista strategico punta ad un sentimento più intimo e riflessivo. Poi c’è tutta la narrazione legata a se stesso come uomo impegnato nel sociale, in oltre la sua comunicazione è caratterizzata sul sottolineare la totale inefficienza della gestione Trump.
Trump invece concentra tutto su di sé, senza dedicare spazio agli affetti personali -come la moglie Melania o il suo vice Mike Pence. Lui è l’uomo che ha sconfitto il COVID-19 di cui si era ammalato, un patriota solo contro l’establishment del partito e della nazione. Ha un mood comunicativo sicuramente più emotivo e coinvolgente, non mancano le foto in mezzo ai militari e fra la folla. In quasi tutte le foto la mimica facciale è sempre la stessa e gli scatti sono scelti uno ad uno per trasmettere determinazione.
Rispetto al 1963, quando ancora non esistevano i social media, gli spot elettorali sono enormemente diversi, per peso e per contenuti. Oggi i candidati hanno a disposizione una marea di canali su cui essere presenti, per catturare attenzione e voti. A partire dal 2008 con la campagna Obamize dell’allora candidato democratico Barack Obama su Facebook, i social media hanno avuto un ruolo chiave sempre maggiore. Le scorse elezioni hanno diffuso la sensazione che i medium social siano sfuggiti al controllo dei candidati e delle leggi sul silenzio elettorale. Lo stesso Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook si è detto preoccupato delle manipolazioni dell’esito elettorale ad opera dei social network.
Adesso non ci resta che vedere quale campagna elettorale domani avrà la meglio.