In che modo un movimento nato nel silenzio di un teatro milanese, nel giro di tre anni passò da qualche migliaio di voti alla guida del governo di un paese parlamentare, senza passare dalle elezioni? Come una dimostrazione di forza di alcune migliaia di “manipoli” prese il controllo di un paese che aveva da poco vinto il primo conflitto mondiale? Perché in anni di fermento sociale un singolo evento senza spargimento di sangue è considerato il crocevia, il “giorno zero” di un Ventennio di regime?
La fine della Prima guerra mondiale aveva trasformato profondamente l’assetto sociale del nostro Paese. Si era manifestata nel corso del conflitto una coscienza collettiva che al termine delle ostilità si sarebbe riversata nelle richieste allo Stato, sia in termini di ricompensa per il sacrificio compiuto al fronte (“La terra ai contadini“, ad esempio), sia in termini di peso politico.
La Grande Guerra aveva mobilitato la società italiana, era stata una grande esperienza di massa. Da questa esperienza si iniziavano ad avanzare richieste politiche volte ad un cambiamento istituzionale che tenesse conto dell’evoluzione avvenuta. Questa mobilitazione poneva nell’agenda politica una profonda riflessione su come si dovesse orientare l’ordinamento italiano. La classe liberale, nata dalle elite del Risorgimento, si trovò di fronte a richieste, istanze e suggestioni che provenivano da più parti.
Tra le fazioni più attive vi era l’Associazione Nazionale Combattenti.
Nel Paese si diffuse la proposta di una costituente che avrebbe rinnovato le istituzioni e la società. In campo politico il principale interprete di queste istanze fu il Partito Socialista Italiano. Si iniziava a delineare uno scontro tra il proletariato antinazionale e la borghesia patriottica che aveva sperimentato durante la guerra una condotta autoritaria nelle relazioni industriali. Parallelamente alla crescita del socialismo, venne fuori anche l’anima cattolica dell’Italia, raccolta intorno al Partito Popolare di Don Luigi Sturzo, fondato nel gennaio 1919.
Sempre nel 1919, in un piccolo teatro in piazza San Sepolcro, venne fondato un movimento che prese il nome di Fasci di Combattimento. Di questo episodio la stampa italiana non si occupò, fu solo il “Popolo d’Italia”, giornale fondato dall’ex leader della sinistra rivoluzionaria del Partito Socialista, Benito Mussolini, che accennò all’evento, dopo mesi di campagna di adesione, del Movimento facevano parte ex reduci, ex socialisti rivoluzionari e interventisti del 1915. Nel primo programma erano ancora evidenti le tracce socialiste rivoluzionarie, dall’anticlericalismo al repubblicanesimo. La vera novità del movimento fu la propensione per l’antipolitica che mirava all’abolizione del Senato di nomina regia e a sostituire i Deputati con dei tecnici. Inoltre il movimento si poneva come unica guida di coloro i quali avevano provato l’esperienza della trincea:per Mussolini la rivoluzione italiana era iniziata nel 1915 con l’ingresso in guerra.
La prima peculiarità del neonato movimento fu l’organizzazione paramilitare che lo caratterizzò fin dalle origini. Nel primo anno di vita non ottenne molte iscrizioni, i reduci preferirono l’Associazione Nazionale Combattenti; il fascino principale sugli ex combattenti veniva da Gabriele D’Annunzio, che nel settembre del ‘19 aveva occupato la città di Fiume: si delineava così una concorrenza a distanza tra il poeta e il fondatore dei fasci.
Il nemico da contrastare era il Partito Socialista, antinazionale, che puntava a portare in Italia il bolscevismo. A pochi giorni dalla fondazione esponenti del movimento mostrarono il volto violento dell’organizzazione assalendo la sede del quotidiano socialista “Avanti”, che Mussolini aveva diretto fino al 1915.
In campo politico si celebrarono le prime elezioni con il suffragio universale maschile (introdotto nel 1913 dal Patto Gentiloni) e la legge elettorale proporzionale. Dalle urne uscirono vincitori il Partito Socialista e il Partito Popolare ma, a causa di inconciliabili divisioni, non si riuscì a formare una maggioranza parlamentare. In quelle elezioni del 1919, il movimento dei Fasci italiani di combattimento presentò nel collegio di Milano i capilista Mussolini, Arturo Toscanini e Filippo Tommaso Marinetti, ma non ebbe alcun eletto. Il Partito Socialista non riuscì a sfruttare il 33% delle preferenze perché le anime del partito erano in lotta tra loro. Lo scontro era tra i riformisti, rappresentati dal vecchio Filippo Turati e dai massimalisti, coloro che volevano la soluzione massima: la rivoluzione.
Il XVI congresso del partito aveva visto la seconda corrente avere la meglio, si stava per delineare anche in Italia la «minaccia bolscevica». I massimalisti iniziarono a mettere in atto con ogni mezzo la via rivoluzionaria, prepararono scioperi, manifestazioni. Tra il 1919 e il 1920 venne organizzata a Torino, per poi estendersi in altre città, la cosiddetta Guardia Rossa, un’organizzazione armata che avrebbe dovuto essere il braccio della rivoluzione.
Il Partito Socialista controllava la vita politica e l’attività lavorativa dell’area padana attraverso sindacati, leghe contadine, cooperative e soprattutto attraverso le amministrazioni locali che divennero uno dei principali bersagli dello squadrismo fascista. Sono gli anni del “biennio rosso“, termine coniato dalla stampa borghese e liberale per descrivere la serie di lotte operaie e contadine che ebbero il loro culmine e la loro conclusione con l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. A fronteggiare le mobilitazioni contadine e le manifestazioni operaie non scese in campo solamente il Regio esercito. Progressivamente, e non casualmente, alle forze dell’ordine cominciarono a sostituirsi milizie interventiste antisocialiste, alla cui testa si misero prontamente i Fasci di combattimento di Mussolini e i suoi squadristi.
Dopo la sconfitta elettorale del 1919, il direttivo fascista iniziò ad organizzare delle bande armate al fine di reprimere «ogni moto anarchico ed estremista».
Nate come strumento di di rappresaglia, le squadre d’azione iniziarono a bersagliare le organizzazioni socialiste. La prima azione squadrista si verificò alla fine del 1920 a seguito dell’occupazione di alcune fabbriche nelle città industriali del nord che avevano destato preoccupazione nei ceti alto borghesi, minacciati dalla probabile rivoluzione bolscevica in Italia. L’occupazione durò 22 giorni e mise in allarme tutte le forze politiche che in occasione delle amministrative di fine 1920 si unirono in blocchi elettorali antibolscevichi.
Fu questo il momento più alto per il partito socialista. L’ala massimalista rinfocolò la retorica rivoluzionaria ottenendo persino in alcuni comuni la sostituzione del tricolore italiano con la bandiera rossa, ma la struttura del partito era minata all’interno dalle discordie tra massimalisti, riformisti e comunisti nati dalla scissione di Livorno nel 1921. Di questa situazione sembrò approfittarne Mussolini che rilanciò il proprio movimento con lo slogan di azione «siamo una formazione di combattimento e siamo anche gli zingari della politica italiana».
Da questo momento il movimento virò a destra verso un anti-bolscevismo rigido, iniziando ad attuare una costante e pianificata azione violenta contro la galassia socialista. L’attacco al socialismo avvenne mediante una struttura gerarchizzata che di lì a poco divenne la struttura del nascente Partito Nazionale Fascista.
Il fascismo sfruttò la paura del paese di sprofondare nella dittatura del bolscevismo. Il successo dell’azione squadrista è da ritrovare nel sentimento comune nella maggior parte del mondo politico ed economico di voler arrestare l’avanzata socialista: si credeva che il movimento sarebbe stato controllato ed eliminato naturalmente a termine del suo compito antisocialista. Tale concessione trovò spazio nel 1921 quando vennero formati i blocchi nazionali, voluti dal vecchio statista Giovanni Giolitti per arginare il successo elettorale socialista. Durante la campagna elettorale le violenze continuarono, i movimenti di sinistra crearono delle organizzazioni paramilitari per contrastare lo squadrismo. A questo punto si può notare una differenza tra le due contrapposte fazioni: da un lato il mondo socialista che contrastava lo squadrismo attraverso appendici paramilitari, dall’altro il Partito Nazionale Fascista – nato nel 1921 – che per statuto era un partito milizia, in aperta violazione del Codice Zanardelli del 1889.
La prima differenza del PNF rispetto agli altri partiti erano la struttura e l’attività paramilitare sancite da statuto. La crescita del fascismo non fu lineare né facile, perché il lo squadrismo era un movimento localista – tipico dell’Italia dei mille campanili. Prima del congresso, svoltosi tra il 7 e l’11 novembre 1921, le varie componenti provinciali, rappresentate dai più importanti capi squadristi, misero in crisi la strada, tracciata da Mussolini nei vari interventi pubblici e sulle colonne del “Popolo d’Italia”, di tentare una pacificazione e porre fine alle violenze. Vi fu un momento in cui il capo rimise la sua funzione, minacciando un’uscita dal movimento. Tale pratica, già attuata nel 1915 alla vigilia dell’entrata in guerra, non ebbe lo stesso epilogo, ovvero l’isolamento e l’allontanamento dal partito socialista.
Dal braccio di ferro tra lo zoccolo duro del movimento – rappresentato da Grandi, Farinacci, Balbo – e il capo Mussolini, vinse la linea dura che tracciò anche praticamente le modalità di organizzazione e impiego delle squadre. Le squadre d’azione divennero il fulcro del nascente partito. A più di un mese dalla costituzione in partito, il 27 dicembre , il “Popolo d’Italia” pubblicava il programma e lo statuto del PNF.
Emergevano delle novità sia di linguaggio che di organizzazione, mai registrate precedentemente: il partito si ergeva a gendarme della nazione attraverso la Milizia Volontaria, strumento paramilitare composto, prevalentemente, da reduci. L’organizzazione della milizia fascista avvenne attraverso uno schema che ricalcava la nomenclatura delle unità militari dell’Impero romano, proponendo la suddivisione degli iscritti in Principi e Triari. Questi ultimi erano le ultime forze che la legione romana impiegava, dopo sarebbe stato il fallimento. Allo stesso modo il fascismo considerava i triari come la riserva da impiegare in casi estremi.
Nel febbraio 1922 venne persino emanata una direttiva contenente le istruzioni per l’organizzazione delle squadre fasciste: era diventato di fatto il partito italiano più forte, per la crescita delle adesioni che si poneva in aperto contrasto con lo Stato costituito, sostenendo che l’unico stato possibile fosse quello fascista da contrapporre al lassismo e alla decadenza dello stato liberale. Ciò che i fascisti bersagliavano era la classe politica considerata inetta e imbelle.
Analizzando i fatti dei mesi che precedettero la marcia su Roma, possiamo dire che non avevano tutti i torti: la classe politica liberale, intimorita più dalla rivoluzione bolscevica che da quella fascista, sembrò agevolare lo strapotere dello squadrismo, ritenendo di poter liquidare il fascismo quando le acque si sarebbero calmate così da ristabilire l’ordine liberale. Una cosa era certa: la classe liberale sembrava non voler reagire con la forza pubblica – numerose sono le testimonianze della possibile firma dello stato di assedio – in quanto non desiderava causare una guerra civile. Così facendo, la guerra civile venne solo posticipata di qualche decennio.
La debolezza della reazione istituzionale era causata dalla debolezza dei gabinetti che si susseguirono dopo le elezioni politiche del 1921. L’unico scossone, che alimentò la paura di fallire da parte fascista, fu quando venne paventato il ritorno di Giovanni Giolitti come presidente del Consiglio. Per tutto il 1922 le azioni fasciste continuarono, anzi vennero intensificate durante l’estate, quando il parlamento invece che prendere decisioni si fermò per la sosta estiva, prevedendo la riapertura solo per il 7 novembre!
In campo fascista si parlava ormai apertamente di un’azione su Roma per realizzare finalmente lo stato fascista.
É interessante notare come solo a posteriori la paternità della marcia su Roma fu attribuita a Mussolini; durante quei momenti il PNF era diviso, da un lato lo stesso Mussolini tentava di trattare l’ingresso fascista in un governo con i liberali, dall’altro, l’ala estrema dello squadrismo premeva per l’azione su Roma. Tra i principali fautori, e forse anche il principale regista, della marcia su Roma, fu Michele Bianchi, un vecchio compagno di Mussolini, socialista rivoluzionario, sindacalista, che aveva seguito l’ex enfant prodige del socialismo italiano nell’avventura interventista prima, e in quella fascista poi. Al rivoluzionario Bianchi si affiancò un giovane ferrarese, Italo Balbo, rappresentante del mondo agrario della bassa Padana; ad essi si aggiunsero due figure: una di fede monarchica, il torinese Emilio De Bono, l’altra militare, il generale Cesare Maria De Vecchi: si compose così un puzzle ideologico-politico che stava per dar vita ad un’azione in potenza violenta, che in pratica divenne una sfilata nella città eterna in attesa dell’arrivo in stazione del leader del PNF: Benito Mussolini, che non è mai stato formalmente segretario, né ha mai avuto incarichi formali all’interno del PNF.
Le figure dei cosiddetti quadrumviri divennero i punti di contatto delle anime interne al PNF. La mancata deflagrazione dell’insurrezione fascista di fine ottobre 1922, portò molti contemporanei a sottovalutare l’evento, convinti che di lì a poco il vecchio Giolitti e la sua classe politica avrebbero spazzato via lo strumento utilizzato per eliminare lo spettro della rivoluzione socialista.
Ma cosa è stato nel concreto la marcia su Roma? La prima adunata di squadristi si ebbe a Napoli il 24 ottobre: era la prova generale di insurrezione. In quell’occasione, Mussolini dichiarò, prima di rientrare a Milano:
L’azione generale iniziò il 27, quando le milizie fasciste si mobilitarono in varie province, con la presa di una serie di prefetture e di uffici postali. Nella notte tra il 27 e il 28 le colonne di squadristi iniziarono ad affluire a Roma, anche se alcune colonne furono bloccate dagli Arditi del popolo a Civitavecchia e dall’esercito a Orte. Intanto il primo ministro Facta era deciso a dare le dimissioni, mentre tutto faceva sembrare che fosse pronto l’ordine di “stato d’assedio”. Nella notte il controllo della forza pubblica passò all’Esercito.
Alle cinque del mattino del 28 il governo Facta decise di proclamare lo stato d’assedio e il primo ministro si recò a Villa Savoia, ma il Re rifiutò di firmare il decreto. Per anni si è dibattuto sulle motivazioni che fermarono il sovrano dalla decisione di bloccare con la forza i fascisti e varie ipotesi sono state formulate a riguardo – tra le principali: scongiura di una guerra civile, ridimensionamento del fascismo tramite la dialettica parlamentare, reazione dell’esercito nei confronti degli squadristi. Ma il Re nemmeno con il famoso questionario del 1946 diede le motivazioni. Dopo le dimissioni di Facta, si pensava che l’incarico di formare il nuovo governo fosse attribuito a Salandra o Giolitti, con la presenza di fascisti in qualche ministero, contemporaneamente il quadrumvirato dichiarava che la «sola soluzione politica accettabile» era un governo Mussolini.
Alla notizia della mancata firma dello stato di assedio, i fascisti occupavano Roma, attuando la loro marcia armata all’interno della città. Il 29, mentre la manovra eversiva si allargava, il Re affidò l’incarico a Mussolini. Questi, partito da Milano la sera stessa, giunse a Roma il 30 mattina per ricevere formalmente l’incarico.
Ricevuto l’incarico dal Re, Mussolini iniziò la fascistizzazione del Paese.
Ad un anno dalla marcia, mentre ancora formalmente il regime istituzionale era lo stato liberale post unitario, Mussolini fece preparare una serie di francobolli per celebrare la ricorrenza, iniziando ad utilizzare il fascio littorio come simbolo di riconoscimento del fascismo.
Per approfondire:
– Renzo De felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi;
– Emilio Gentile, Storia del partito fascista, Roma-Bari, Laterza;
– Emilio Gentile, E fu subito regime Roma-Bari, Laterza;
– Emilio Gentile, Fascismo. storia e interpretazioneRoma-Bari, Laterza.