«Il calcio è apolitico come la produzione di una bomba atomica».
Così scrivevano i tifosi del St Pauli a chi voleva la politica fuori dagli stadi, e lo facevano ben prima che il fenomeno del pallone raggiungesse le dimensioni odierne: secondo un sondaggio della FIFA di inizio millennio sarebbero oltre 240 milioni le persone che giocano a calcio in maniera regolare, in oltre 200 paesi del mondo. Una religione laica e globale, che coinvolge certamente più del quarto di miliardo di fortunati adepti in grado di praticarlo con regolarità, all’interno di organizzazioni come federazioni o società. Il calcio è una delle manifestazioni antropologiche più onnipervasive che esistano sul pianeta, è impossibile che rimanga incontaminato rispetto agli avvenimenti in corso sul globo terrestre, siano essi culturali, economici, religiosi o politici. Il mondo è sempre più interconnesso e il calcio è un acceleratore di particelle, in grado di mettere in evidenza le criticità della contemporaneità in cui viviamo.
Un esempio su tutti è la cronaca recente col caso del calciomercato italiano ai tempi della pandemia: l’esame d’italiano di Luis Suarez.
Per sommi capi per chi viene da Marte: la procura di Perugia ha aperto un’indagine sull’esame a cui è stato sottoposto il calciatore uruguaiano Luis Suarez durante le pratiche per la cittadinanza italiana, ottenendo un passaporto comunitario in vista di un suo possibile trasferimento dal Barcellona alla Juventus. La Guardia di Finanza avrebbe accertato delle irregolarità nella prova di conoscenza della lingua italiana che Suarez ha sostenuto a Perugia lo scorso 17 settembre. Secondo i giornali, avrebbe conosciuto in anticipo le domande, sarebbe stato sottoposto a un esame molto più facile di quello ordinario e il punteggio gli sarebbe stato attribuito prima della prova. La procura di Perugia e la Guardia di Finanza stavano acquisendo documenti presso l’università, quando, proprio in virtù dell’eccessiva fuga di notizie, il procuratore capo di Perugia, Raffaele Cantone, ha deciso di sospendere le indagini.
«La questione è economica, le intercettazioni lo confermano» non ha dubbi Gian Marco Duina, autore di “Calcio e Migrazioni. Un fenomeno mondiale”, un libro in grado di andare oltre il sordido teatrino del calciomercato, allargando lo spettro ai temi che impediscono al calcio di rimanere immune ai richiami del mondo esterno. «In una telefonata un dirigente della Juve lo confessa candidamente: “L’esame lo deve passare, questo prende 10 milioni”. Salvo poi, evidentemente, accorgersi delle difficoltà che comporta il tesseramento di un extra-comunitario, anche se dall’ingaggio faraonico».
Ecco, è abbastanza probabile che i dirigenti della Juventus non abbiano fatto i conti con il convitato di pietra della vicenda: le difficoltà delle pratiche per l’ottenimento della cittadinanza italiana. Il calciatore, sposato da più di tre anni con la figlia di un immigrato italiano che anni fa ottenne la cittadinanza, fino a poco tempo fa avrebbe potuto ottenere semplicemente la cittadinanza. «Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero», recita infatti l’ultima Legge sulla cittadinanza, datata 1992 e che prevede come principale modalità di acquisizione lo ius sanguinis (il “diritto di sangue”): un bambino è italiano se almeno uno dei genitori è italiano. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni.
Da circa due anni il Parlamento ha aggiunto un piccolo ostacolo a questo percorso: un emendamento approvato durante l’iter di conversione in legge del primo “decreto sicurezza” promosso da Matteo Salvini prevede che per ottenere la cittadinanza il coniuge superi un esame di lingua italiana di livello B1, che attesta una conoscenza base della lingua. Non ci addentriamo nella polemica sullo ius soli (il “diritto del suolo”) secondo cui chiunque nasca in Italia dovrebbe essere italiano, o altre varianti più graduali come lo ius culturae (il “diritto della cultura”) che permetterebbe di chiedere la cittadinanza a chi è nato in Italia e ha completato in Italia almeno un ciclo di studi. Anche perché l’autore del libro le considera «solo opportunismo politico: una società più umana non dovrebbe ricorrere a questi stratagemmi. L’intervento deve essere strutturale, non legato a logiche opportunistiche».
Quello che realmente preme all’autore è raccontare «storie che portano con sé non solo aspetti personali, ma molto spesso anche relazioni con fenomeni mondiali quali guerre, persecuzioni, crisi, ed in ogni caso accomunate dal minimo comun denominatore delle migrazioni: la ricerca di un posto migliore dove lavorare, vivere e far crescere i propri figli. Al concetto di migrazione se ne affianca un altro altrettanto importante e personale: il concetto di identità».
Di storie così, Duina ne ha conosciute nei lunghi anni di militanza nel St. Ambreous FC, una squadra di calcio popolare di Milano, una realtà simile a quella dell’Ardita Giambellino, Dal Pozzo, Partizan Bobola e Brigata Dax, microcosmi in grado di vivere lo sport in maniera differente. «Viviamo enormi ostacoli, orribili anche umanamente. Alex, un ragazzo sinti rumeno (quindi europeo) non aveva residenza. Si è allenato più volte con noi, ma la domenica non si poteva nemmeno farlo entrare negli spogliatoi. La motivazione è difficile da trasmettere a un ragazzo del 2000. E’ stata un’occasione persa di crescita e integrazione».
Il tesseramento degli extracomunitari ogni anno va rifatto, serve un nulla osta in cui il giocatore dichiara di non essere mai stato tesserato nel paese d’origine, altrimenti la Figc deve contattare la Federazione di provenienza. La finestra di tesseramento è temporalmente limitate e spesso le lungaggini burocratiche causano intoppi, a volte insormontabili.
Esistono anche realtà sportive che affrontano questi ostacoli con coraggio, come la Liberi Nantes, una realtà nata 12 anni fa, la prima squadra in Italia a giocare in Figc con migranti. Il nome viene dal latino “Nuotatori”, riprende l’Eneide di Virgilio, quando una nave di troiani in fuga dalla guerra naufraga, il loro simbolo è una tartaruga. A differenza di tutte le altre squadre di calcio, la Liberi Nantes scende comunque in campo con gli impresentabili, perdendo tutte le partite a tavolino. Hanno avuto risultati sportivi ottimi, ogni anno sarebbero stati promossi o arrivati ai playoff in base ai punti sul campo. Tutti gli anni si sono aggiudicati il premio fair play. «Non accettano la regola, la infrangono a costo di perdere tutte le partite, così la contraddizione viene messa in risalto. Sono 10 anni che pagano, fanno risultati e ricevono zero punti. Hanno un loro centro sportivo, tantissimi progetti, una squadra di calcio femminile con donne migranti». Da due anni hanno abbandonato la Figc: «un’altra enorme occasione persa. Sono stati degli apripista unici nella battaglia per far venire al pettine i nodi del sistema».
I temi affrontati da “Calcio e Migrazioni. Un fenomeno mondiale” sono svariati. Iniziano con le migrazioni transatlantiche, che hanno coinvolto centinaia di migliaia di persone che dall’Europa migrarono verso le Americhe, fino ai flussi migratori post coloniali dall’Africa dei giorni nostri, il tutto ricollegandosi alle squadre che hanno pestato il palcoscenico calcistico più prestigioso al mondo.
Emergono storie di calciatori immortali come Ferenc Puskas, nato a Budapest ma costretto a scappare dopo le rivolte ungheresi del ’56, che vestì la maglia delle furie rosse spagnole in occasione del Mondiale ’62 e della sorte simile del suo amico Laszlo Kubala.
E così l’Italia campione iridata nel ’34 e nel ’38 portava con sé proprio i nipoti di quegli emigranti a cavallo tra il IXX ed il XX secolo, concedendo la nazionalità italiana ai fenomeni sudamericani nonostante la “purezza della razza” millantata dalla dittatura fascista proprio in quegli anni. «Nei due mondiali vinti sotto il regime, del 1934 e 1938, avevamo oriundi come De Maria, Orsi, Guaita e altri ancora. Una contraddizione rispetto alla razza pura del fascismo. Una storia di opportunismo che si ripete: finché è un campione, allora va bene, si italianizza. Esemplare è la storia di Guaita che allo scoppio della Guerra in Etiopia nel 1935 scappa: “Io faccio i gol, non la guerra”».
«Il libro è per me una nuova esperienza, un esordio involontario legato a un progetto lavorativo: “Football makes history”». Duina ha inventato il “Fantacalcio migrante”, un’attività per le scuole: si possono scegliere giocatori con background più migrante possibile che abbiano preso parte ad un Campionato del Mondo. «In questo modo ai ragazzi dalle medie in su è possibile trasmettere il valore dell’aspetto migratorio. Anche la seconda generazione, spesso stigmatizzata, attraverso questo gioco diventa un valore».
Il libro ha un obbiettivo didattico, è schematico e compilativo, a tratti settoriale. Sembra riprendere il solco della trattazione sul tema migrazioni e razzismo, introdotto in Italia da “La razza in campo. Per una storia della Rivoluzione Nera nel calcio“, un trattato rivoluzionario, scritto dal sociologo Mauro Valeri nel 2005.
«Alcune storie trasmettono speranza e riscatto, come la qualificazione della Costa d’Avorio ai mondiali del 2006 che convinse il presidente Laurent Gbagbo ad intavolare una trattativa di pace con le forze ribelli, o la storia di Rio Mavuba l’unico calciatore al mondo ad essere “nato in mare” come testimonia il suo documento, partorito in acque internazionali mentre i genitori scappavano dalla guerra in Angola verso la Francia».
Sono stati oltre 450 i calciatori che, dal 1930 al 2020, hanno vestito, in occasione dei mondiali di calcio, una maglia diversa rispetto a quella del paese nel quale sono nati.
Emblematici sono i casi di due fratelli che scelgono di rappresentare due nazioni diverse: sono i fratelli Kevin-Prince e Jerome Boateng ed i fratelli Granit e Taulant Xhaka. Kevin-Prince e Jerome nascono nella Berlino Ovest da madre tedesca e padre ghanese ma mentre il primo sceglierà di vestire i colori d’origine paterni, il secondo indosserà i colori del proprio paese nato dando vita, il 23 giugno 2010 in occasione del match tra Germania e Ghana, ad un inedito storico della Coppa del Mondo: due fratelli scendono in campo insieme, ma da avversari. Granit e Taulant nascono invece nascono in Svizzera da genitori kosovari e mentre il primo vestirà la maglia rossocrociata, il secondo rappresenterà i colori dell’Albania.
Queste e tante altre storie, aneddoti, curiosità, dati e analisi dello stretto rapporto che unisce il mondo del calcio con i flussi migratori in atto. Un libro dunque che non si pone esclusivamente in chiave accademica e documentaristica, ma anche che vuole evidenziare il ruolo del calcio come strumento di inclusione sociale, aggregazione, lotta alle discriminazioni e valorizzazione delle diversità. Il calcio è uno strumento che è sempre stato in grado di parlare al mondo intero, che non conosce idioma né religione, che non si ferma davanti ai confini ma si inserisce nelle comunità, nei popoli e nelle nazioni, portandole ad esultare con un grido di libertà.