Si è chiusa oggi al terza edizione dell’Offside Film Festival, rassegna cinematografica dedicata al mondo del calcio che quest’anno si è svolta integralmente in streaming a causa della emergenza Coronavirus. Malgrado le difficoltà iniziali della riconversione del format, la qualità dei film in cartello non ne ha assolutamente risentito, anzi ognuno di noi osservatori ha avuto modo di godere delle proiezioni sul proprio pc o tv di casa con comodità. Certamente i festival sono fatti per essere vissuti in prima persona, ma la soluzione da remoto non è affatto dispiaciuta ai partecipanti.
Dal punto di vista dei contenuti la kermesse è riuscita a concentrare in 10 pellicole le più svariate sfaccettature che compongono l’universo della palla a esagoni. Sono rimasti in pochi gli ingenui a pensare che il calcio sia un fenomeno di poco conto. È talmente inserito nel tessuto culturale e sociale della stragrande maggioranza del globo, che finisce inevitabilmente per assumere significati ben oltre il mero aspetto agonistico o il semplice ambito sportivo. Se la musica è la colonna sonora della vita, il calcio ne è il segnalibro.
Il festival ha selezionato una decina davvero notevole di produzioni che, giustamente, al giorno d’oggi hanno la pretesa di essere chiamate docufilm. Come si dice poi, i gusti son gusti, ma occorre precisare che la maggioranza di questi film hanno trattato tematiche sorprendentemente serie, allargando lo spettro del campo di gioco alla politica e alla storia, quasi a relegare in secondo piano il pallone. È il caso di “Celtics Soul” o “Umesto Top Liste“. Altri film sono a mio avviso riusciti a trovare un maggiore equilibrio tra rivendicazione politica e sport, quali “Footballization” e “Z’Antiye Football Club“.
Il calcio sa essere un viatico fondamentale per trattare argomenti complessi, senza che lo sport assuma connotati secondari, ma riuscendo nel ruolo di co-protagonista a sviscerare vicende problematiche. A questo riguardo è davvero notevole “Undici Metri“, documentario sulla vita e la morte del compianto – e non a sufficienza celebrato – Agostino di Bartolomei; così come “Lobanovskiy Forever“. Molto commovente invece “Barbosa“, breve racconto della sofferta esistenza del portiere del Brasile del 1950, divenuto capro espiatorio della tragedia sportiva che ha preso il nome di Maracanazo.
Vi vado a presentare il mio personalissimo podio – non che voglia sostituirmi ai notevoli giurati della rassegna, da Paolo Condò a Nicola Roggero, passando per Gigi Riva e Darwin Pastorin – così, per gioco.
Metto al terzo posto “Get Shirty“. Se fossimo alla notte degli Oscar vincerebbe la statuetta alla miglior sceneggiatura originale. Narra della incredibile storia dell’Admiral, industria che produceva maglieria intima negli anni settanta e che grazie a una serie di incredibili coincidenze, ha iniziato a cucire le maglie da gioco per una delle più forti squadre inglesi dell’epoca, il Leeds. Le divise hanno così tanto successo che quasi tutte le squadre della prima serie britannica finiscono per vestire Admiral. In pratica gli inventori del merchandising. Ho trovato la storia così accattivante che mi piacerebbe in futuro tornare a parlare di questa rivoluzione industrial-calcistica.
Medaglia d’argento per “Take the Ball, Pass the Ball“. Qualitativamente il film migliore, senza ombra di di dubbio, rivolto principalmente a un pubblico giovane che desidera conoscere le origini del mito del Barcellona di Pep Guardiola. Tra qualche anno diverrà un cult presente nelle videoteche degli appassionati, manca un solo ingrediente per essere un lungometraggio di successo nell’immediato: il fascino del racconto antico. È una storia ancora troppo recente per colpire completamente l’immaginario di chi guarda.
And the winner is… “I Believe in Miracles“. Lo ammetto, la mia passione per Brian Clough e per il Nottingham Forest ha indubbiamente condizionato il giudizio, trovo però che tra le dieci storie raccontate sia davvero la più interessante. Non sono mai riuscito a capire perché in Italia la narrazione di questo miracolo sportivo sia poco tramandata, ma credo che in generale al di fuori dei confini britannici sia conosciuta, ma non a tutti. Per esempio, ad eccezione de “Il maledetto United” di David Peace – che anticipa ma non narra l’epopea dei reds di fine anni ’70 – non esistono libri nel nostro Paese che descrivano al loro interno uno delle storie di sport più belle di sempre. Se Clough allenasse oggi, il web, le tv e i giornali di tutto il mondo farebbero a gara per registrare ogni sua parola o gesto. Tra le sue mille caratteristiche, d’altronde, il mondo del calcio sa essere anche irriconoscente, purtroppo.
Grazie davvero ad Offside per la bellissima manifestazione. All’anno prossimo!