Il 1992 è l’anno dell’apertura madrilena del Reina Sofia e del Thyssen Museum, epoca storica in cui i fondi europei venivano elargiti senza eccessiva parsimonia. L’anno in cui Sevilla, tramite l’Expo ribattezzato non casualmente “L’era delle scoperte”, scelse di ripercorrere le tappe che esattamente cinque secoli prima l’avevano portata ad essere la città più importante del mondo, nel siglo più importante di Spagna. Da un ’92 a un altro. Quello del ‘400, quando un trianero – un abitante di Truana, il quartiere gitano della città, oltre il fiume Guadalquivir – di vedetta su una delle tre caravelle ripetute a mò di filastrocca (la Nina, la Pinta e la Santa Maria) scorse, por fin, la terraferma dopo settimane di navigazione. E poi c’è il ’92 del Novecento. Depositiamo il trattato di Maastricht e, quasi in concomitanza, esplode la polveriera balcanica. Noi italiani siamo distratti da Tangentopoli e da altre esplosioni che, in maggio e in luglio, uccidono i magistrati Falcone e Borsellino. C’è una parte del Mediterraneo, però, che festeggia e, proprio in quei giorni, non può dormire. Una punizione di Ronald Koemann (proprio lui, direbbe un noto telecronista sportivo) sorprende Gianluca Pagliuca e fa attraccare, per la prima volta, la Coppa di Campioni al porto di Barcellona. Nella Genova blucerchiata, altro porto mediterraneo, sanno che un’occasione del genere non si ripeterà mai più. La Coppa vinta in maggio dal Dream Team di Crujiff altro non è che il prologo per le due settimane olimpiche che segnano definitivamente uno spartiacque nella storia della città. Per Barcellona, c’è un prima e un dopo 1992. Dalla collina della sua casa di Vallvidrera, un detective sul viale del tramonto osserva una città (e una comunità) cambiare drasticamente, rivolgersi su sé stessa, perdere lentamente le proprie secolari certezze.
Il 18 ottobre del 2003, mentre il suo aereo faceva scalo a Bangkok, un infarto improvviso spense definitivamente Manuel Vázquez Montalbán, nato a Barcellona 64 anni prima, poche settimane dopo la fine della Guerra civil e l’avvento del franquismo. Bangkok fu il luogo di una delle trasferte lavorative di Pepe Carvalho, detective privato che ha lanciato un genere, quello del noir mediterraneo che, come ha ricordato Markaris, fondamentalmente mette al centro due entità, che non sono il bene e il male, o le rispettive sfaccettature, ma bensì la città e la cucina. Per questo a Pepe ogni tanto toccava salire su un velivolo (o qualsiasi altro mezzo di trasporto) e atterrare in qualche luogo perlopiù esotico (Bangkok, Buenos Aires, Kabul, ma anche Amsterdam e Madrid). Ma in fin dei conti, rientrava sempre lì, nella sua Barcellona, di cui si poteva scorgere il lento mutamento, osservandola dall’alto con un sigaro in una mano e reggendo, con l’altra, un bicchiere di whiskey invecchiato, utile a digerire la portata calorica di un piatto di Botifarra amb mongetes.
Il motto della seconda squadra più titolata di Spagna (la prima in Catalunya) è arcinoto: “Més que un club”, più di un club. Il Barcelona Futbol Club ha rappresentato un’oasi di dissenso e di libertà nel quarantennio franchista, dove il centro nevralgico del calcio spagnolo si trovava a Madrid, presso la fuente de Cibeles, teatro dei festeggiamenti dei tifosi del Real, pronta tutt’ora a riempirsi di aficionados ogni qualvolta venga sollevato un trofeo dalle parti di Chamartin. Ciò è vero, ma in parte.
Infatti le cinque Coppe dei Campioni consecutive degli anni ’50 vinte dalla Casa blanca si portano con sé l’immagine sorridente di Francisco Franco e della sua Spagna, centralista, unitaria, monarchica. Eppure, nella capitale si è sempre detto (sottovoce) che il Caudillo, in realtà, fosse tifoso dell’Atletico. D’altronde i primi due campionati spagnoli disputatosi sotto la dittatura vanno proprio ai Colchoneros, i quali, escludendo questo meraviglioso decennio cholista, hanno arricchito il proprio palmarés quasi esclusivamente sotto il dominio franchista. No, in quegli anni non si possono trovare ribelli nella capitale, ma bisogna piuttosto scendere a Sud, in Catalunya, a Barcellona. La metafora è dello stesso Montalbán: “Il Futbol Club Barcelona rappresenta l’esercito simbolico e disarmato della Catalogna”. La domanda sorge spontanea: lo è ancora?
Il Barça divenne un fenomeno politico-sociale molto presto, ancora prima dell’avvento del franquismo. Negli anni ’20 il club si oppose a Primo de Rivera, il creatore della Falange, al potere dal 1923 al 1930, primo dittatore spagnolo del ‘900. Il 14 giugno del 1925, allo stadio di Les Corts, quattordicimila spettatori fischiarono l’interpretazione della Marcha Real, tenuta da una banda musicale. Il governo spagnolo rispose duramente: lo stadio venne chiuso per sei mesi e il Presidente, nonché fondatore del Club, lo svizzero Hans Gamper, fu costretto all’esilio nella sua terra natia fino al termine della stagione. «Nella citata società vi sono persone che aderiscono a idee contrarie al bene della patria», si legge nelle motivazioni della sentenza che obbligò il Barça a giocare a porte chiuse per gli ultimi sei mesi del 1925. Sei anni più tardi, sempre un 14 ma di aprile, la situazione politica della penisola cambiò drasticamente e si instaurò la Seconda Repubblica Spagnola, che, tra le altre cose, aggiunse il colore morato (o viola) al rosso e giallo della bandiera del Regno. I dirigenti del club non nascosero le proprie simpatie repubblicane, tant’è che nel 1936, anno dello scoppio della Guerra civil, l’FC Barcellona si definì «un’entità al servizio del governo legittimo della Repubblica».
Il ruolo politico del Futbol Club Barcellona, nell’universo catalano odierno, è sicuramente meno centrale rispetto ai decenni precedenti. Oggi, durante le settimane della telenovela Messi, i tifosi del club hanno reagito in maniera diversa. O meglio, lo sconforto veniva manifestato secondo differenti sfaccettature. I millennials hanno accolto la sicura partenza (poi tramutatasi in una vita da separati in casa, almeno per un anno) della Pulce piangendo l’abbandono del più grande calciatore del mondo, idolo globalizzato della loro gioventù, al quale legare il periodo di massimo splendore della storia del Barça, un decennio di dominio quasi assoluto sul calcio spagnolo e continentale. Gli altri, invece, quelli che millennials non sono, osservano l’intricata situazione societaria percependo un netto distacco del club dagli ideali storici. Il disprezzo per il Presidente Bartomeu ha radici più profonde: non è una novità, e non dipende esclusivamente dalla drammatica gestione del più grande calciatore del mondo (o il numero due, a seconda dei punti di vista), che ha avuto il suo apice quest’estate, con il rischio, concreto, che il contenzioso potesse essere risolto soltanto in tribunale.
Bartomeu è figlio di quella corrente catalana ribattezzata nuñismo, che si rifà a Josep Lluis Nuñez, Presidente del Barça per ventidue anni, dal 1978 fino all’alba del nuovo millennio. A metà anni ’90 avvenne la celebre frizione, mai risolta, con Joan Crujff, ex giocatore del club e, soprattutto, allenatore del Dream Team che ebbe, come si è già detto, la sua apoteosi nella notte di Wembley del 1992. Nuñez fu il presidente del club durante uno dei periodi di massimo splendore, ma a livello ideologico non è mai stato realmente e concretamente apprezzato dal mondo catalano, tant’è che nella disputa tra lui e Crujff, per i tifosi del Barcellona non c’è mai stata realmente partita: chiunque avrebbe scelto Joan e desiderato mettere alla porta Nuñez. La corrente del nuñismo, prima ancora di Bartomeu, ha portato all’elezione del presidente Rosell che, una volta insediatosi, ha messo alla porta Crujff togliendoli la presidenza onoraria, si è inimicato parecchie vecchie glorie del club (Puyol e Xavi su tutti) e soprattutto ha contribuito a un’inversione dei valori totalmente antitetica rispetto all’ideologia del club: la masia (il settore giovanile del Barca) non è più una fucina di talenti pronti a vestire, un giorno, la maglia blaugrana, ma piuttosto uno strumento utile per formare una serie di giocatori rivendibili in Spagna, o all’estero, per creare plusvalenze e sistemare i conti.
Probabilmente è cambiato il Barcelona Futbol Club poiché, semplicemente, è cambiata Barcellona città. Carvalho, questo, lo sapeva bene. Era facile accorgersene, tra una camminata sulle ramblas, un passaggio sulla spiaggia di Barceloneta, o una sosta nel Barrio chino in cerca di criminali della nuova scuola, fedeli ad altre leggi, altri codici ed altri eroi. La città non era più quella della sua giovinezza, sotto il franchismo, l’oasi di libertà, la città vedova del potere e quindi ribelle per natura. Secondo Pepe, il potere, ormai, Barcellona e la Catalogna lo avevano conquistato con l’istituzione dell’Autonomia regionale, sorta dopo il franchismo. Tant’è che per oltre trent’anni l’indipendentismo catalano (a differenza di quello basco) non occupò i titoli dei giornali, né le pagine politiche, né quelle di cronaca nera (sempre a differenza di quello basco). Barcellona come «capitale assoluta di un immaginario chiamato Catalogna e capitale relativa di una comunità relativamente autonoma». Certo, Carvalho non avrebbe mai potuto essere indipendentista anche perché era agnostico in tutto e per tutto, tant’è che non tifava nemmeno per il Barça (a differenza del suo creatore): «Fatico già abbastanza a essere un individuo e diffido dei popoli. Gli individui possono provare compassione, i popoli no. Essere una nazione mi complicherebbe troppo la vita. Ma adoro le nazioni altrui».
Forse il detective, nel suo decennale peregrinare per la città, aveva già colto le potenziali contraddizioni di una comunità che oggi vorrebbe diventare nazione, smettendo di essere spagnola, ma restando comunque europea. Contraddizioni analoghe a quelle di un club calcistico, rimasto impantanato a metà del guado, tra legittime aspirazioni globali e il desiderio di restare ancorato a un mondo che, forse, non esiste più.
Questa, come tutte le altre le citazioni riportate nell’articolo, sono tratte da: Manuel Vázquez Montalbán, L’uomo della mia vita, Feltrinelli, 1999. L’ultimo, malinconico, romanzo di Pepe Carvalho ambientato a Barcellona.