«Le telecronache si fanno per mangiare, le altre cose per vivere»
Chissà come l’avrebbe commentato lui questo derby surreale, il primo della storia con le porte chiuse ai piedi della Madonnina per le ombre di un nuovo lockdown che si fanno sempre più angoscianti. Con un San Siro così spettrale, alle 18 di sabato, occorre fantasia per immaginarsi a naturale splendore la “scala del Calcio”, «luogo di esasperato romanticismo, dalle 14.30 alle 16.15 di ogni domenica».
Nulla contro gli esercizi di “immersione” di Fabio Caressa e di Giuseppe – lo storico capitano dell’Inter – è semplice curiosità di «quelli che quando perde l’Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio e poi vanno a casa e picchiano i figli, oh yes!».
Come avrebbe raccontato questo derby Giuseppe, detto Beppe – per un collega in particolare “Pepinoeu” – Viola?
Cosa avrebbe detto, lui che se n’è andato nel 1982 mentre veniva montato un suo servizio su Inter-Napoli, un 18 ottobre che trentotto anni dopo è la domenica successiva alla stracittadina, serata ideale per la conduzione di un rotocalco televisivo.
Ma soprattutto lui che era nato «su un stradun per andare all’Idroscalo e fu lì che l’amore lo colpì»:
Beppe Viola è cresciuto in via Lomellina, quasi un’ora a piedi dal Duomo, circa due da San Siro, ma a cinque minuti da via Sismondi, dove abitava Enzo Jannacci.
Sono gli anni del dopoguerra, se Roma è città aperta, Milan l’è minga on gran Milan. Una città di macerie che vede nascere le Coree, cubicoli addossati gli uni agli altri, eretti dagli stessi immigrati meridionali che vi abitavano, in barba ai piani regolatori del fascismo.
Zona Undici, dove via Lomellina incrocia via Sismondi, è attaccata all’aeroporto di Linate, dove il signor Enzo Viola fa il marconista – professione senza tempo della commedia italiana – e conosce Giuseppe Jannacci, aviatore e figlio di un collega di suo padre. I loro figli si conoscono a tre-quattro anni e non si mollano più.
Enzo studia medicina e si paga l’università cantando nei locali dell’Ortica, a dargli una mano coi testi delle canzoni ci pensa Beppe, che di professione farebbe il giornalista – più per portare a casa il pane che per vera vocazione – un modo come un altro per mantenere le sue quattro figlie con lo stipendio e il tesserino, senza essere tesserato.
«Trattare Viola come un giornalista che fa ridere o un umorista che si guadagna il pane facendo servizi sportivi per la tv è un modo per allontanarlo» ha scritto Bartezzaghi nell’introduzione a Vite vere compresa la mia, il libro-raccolta delle vite di Viola, Gianni Rivera e Renato Pozzetto, che Beppe pubblicò nel 1981 con la stessa casa editrice che fondò Linus. Ed effettivamente, Beppe Viola non è stato un semplice giornalista sportivo: è stato molto di più. Assunto in Rai – dopo un epico esame di stato in cui il commissario Enzo Biagi cerca di metterlo in difficoltà con una domanda politica: domanda, “Fanfani è più verso destra o verso sinistra nello schieramento DC?”; risposta “Dipende dai giorni” – per questioni contrattuali non potrebbe firmare nulla che non sia produzione del Cavallino. Ma lui ha messo il suo contributo – non sempre riconosciuto – a lavori di Cochi e Renato, di Monicelli e di Jannacci.
Giornalista, non in carriera – «Dal 1962, data ufficiale della mia assunzione, a oggi senza nemmeno un saltino. Sono convinto di essere recordman e ciò mi rende orgoglioso» – nel 1979 approda finalmente alla Domenica Sportiva. In un’epoca in cui in cui non esistevano ancora gli storyteller, anzi, che all’inglese era proprio immune – “Io non ho mai capito tre cose. La prima è: cos’è un leasing?” – i giornalisti erano conduttori, in grado di veicolare il racconto sportivo, anche se il mezzo non è quello che immaginiamo…
Così alla vigilia di Natale del 1978, intervista Gianni Rivera sul Tram numero 15.
I mezzi pubblici, i «Gamba de legn», sono il topos per eccellenza della genialità di Beppe Viola, che tracima il campo per sconfinare nel cinema, nelle canzoni e nei racconti. Ha narrato di una Milano-non-ancora-da-bere, tra marciapiedi, navigli e biliardi. Notturna, strampalata e romantica, ma non nostalgica. Rileggendo «Vite vere», la raccolta dei racconti (usciti su Linus dal 1977 al 1982) si ripiomba nella città dei «cumènda» e del benessere diffuso, avvolta dalla nebbia e dallo sferragliare dei tram, che di tante addizioni conteggiava soprattutto quel che andava perduto, a cominciare dai sogni di una metropoli diversa. Fatta di gente che parlava il lessico spurio e la sintassi asimmetrica e spericolata della «ligéra», complici fidati che non aprivano bocca «nemmeno dal dentista», allibratori clandestini, avventori irascibili e a corto di inglese, buoni a nulla ma capaci di tutto.
Giornalista, umorista, paroliere, sceneggiatore, “collezionista di colesterolo” – «L’ultima volta gli esami clinici mi hanno riferito che ho più salame io in vena che Peck in vetrina» – amatissimo conduttore della “Domenica Sportiva” dall’indole libertaria. Dal padre, incallito scommettitore di cavalli, e di quel nonno di Contursi – che non fece mai un cavolo nella vita, salvo sposare due ricchissime signore che lo mantennero – Beppe Viola ereditò l’indole: «Penso che mio padre abbia fatto bene a ballarsi i soldi sui cavalli perché se ne avesse lasciati in giro un po’ per casa li avrei fatti fuori io, magari al biliardo, dove, tra l’altro, si respira anche poco per colpa del fumo».
Ironico, fuori schemi, battutista straordinario, esperto di ore piccole, Beppe Viola era il calcio che non vedi più nella Milano che non esiste più. Lirico e in grado di sfornare incipit decisamente oltre il perimetro del campo di gioco, come quello di «Offerta speciale»: «Ubriachi di miseria e di bianchini, costeggiamo il Naviglio in una notte senza fine».
Sempre fuori dal coro e da quel giornalismo costruito su frasi preconfezionate e prassi omologate – «Tengo duro – diceva con quell’humour anglosassone – per migliorare il mio record di mancata carriera» – Viola era un autore che non faceva mai sentire la nostalgia delle parole, con quell’uso dell’italiano capace di raccontare una storia, anche giocando, prima ancora del fatto in sé.
Beppe Viola era davvero uno così: dissipato per questioni di genetica, e non per posa.
«Ho quarant’anni – ha scritto in una lettera che ha davvero mandato a tutti i vertici della Rai –, quattro figlie e la sensazione di essere preso per il culo».
Di lui Gianni Brera, dopo l’improvvisa dipartita, disse:
Chissà come avrebbe raccontato questo derby il “Pepinoeu“, per lui milanista tutt’altro che bruttissimo. Magari si sarebbe inventato un altro colpo di genio, pari al suo testamento ideologico, un capolavoro di pensiero laterale, di rottura della quarta parete, un servizio della Domenica Sportiva che ha preso posto nell’immaginario collettivo sportivo degli italiani: un contro-canto a “un autentico derbycidio“.