“C’era una Tappa” è la rubrica di The Pitch Olympia che racconta alcune delle leggendarie imprese compiute al Giro d’Italia che trascendono le due ruote. Perché la storia della Corsa Rosa s’intreccia a doppio filo con quella del nostro Paese.
In questa quarta puntata raccontiamo della Valmalenco-Bormio 1988 e della mitica e tragica bufera di neve sul Gavia.
Mancano pochi minuti alle 10 quando Vincenzo Torriani, patron del Giro, prende di petto la situazione e decide che no, la Chiesa in Valmalenco – Bormio, quattordicesima tappa della corsa rosa, non subirà modifiche al percorso. D’altronde era stato proprio lui, 28 anni prima, a “inventarsi” la salita di giornata, quel passo Gavia che nel 1960 – posto alla penultima tappa – aveva di fatto permesso a Jacques Anquetil di portare la maglia rosa fino a Milano. Il Gavia, Torriani l’aveva scoperto sorvolando in elicottero la Valcamonica: quella mulattiera sterrata l’aveva stregato. Il resto l’avevano fatto gli alpini, incaricati di ripulire – per quanto possibile – il percorso. Per quanto possibile, appunto, perché Imerio Massignan sulla discesa verso Bormio forerà tre volte e sarà costretto a lasciare la gloria del successo di tappa al lussemburghese Charly Gaul. Poi per quasi un trentennio più nulla.
Fino a quella mattina del 5 giugno 1988, appunto, quando Torriani dà l’ok: si tornerà a scalare il Gavia. Si parte come è giusto e normale partire per una tappa di metà Giro a inizio giugno: in pantaloncini e maglietta. Peccato che sul Gavia sta nevicando. E pure parecchio. Mike Neel, direttore sportivo della 7 Eleven, lo scopre prima degli altri telefonando al rifugio in cima alla salita e non perde occasione di andare dal suo capitano, l’americano Andy Hampsten, per informarlo che con ogni probabilità il Giro si giocherà lassù. In effetti Hampsten alla partenza da Chiesa in Valmalenco è quarto a 1’18” dal leader Chioccioli e questa può essere l’occasione giusta. A colazione i corridori della 7 Eleven trovano nel piatto una gigantesca bistecca: «un peso sullo stomaco nelle prime 3 ore di gara – ricorda Hampsten – ma poi si rivelerà semplicemente fondamentale». Così come il grasso di lanolina spalmato sul corpo.
Ma non è finita qui: ai corridori vengono dati cappelli di lana e manicotti e lungo il percorso Neel colloca uno dopo l’altro tutti i suoi uomini di fiducia: a 1.500 metri dal Gran Premio della Montagna c’è addirittura il General Manager Jim Ochowicz, pronto a rifornire i suoi di passamontagna, copriscarpe, impermeabile e guanti. Arriva finalmente il Gavia: l’asfalto è in discrete condizioni ma la neve non accenna a smettere di cadere. È allora che gli appassionati di ciclismo incollati alla tv, divisi tra il tifo per Chioccioli e lo stupore per le condizioni climatiche, vedono partire come un razzo la maglia ciclamino, l’olandese Johan van der Velde, pupillo del “Rinus Michels del ciclismo” Peter Post, miglior giovane al Tour 1980 prima di essere trovato positivo, l’anno successivo, alle anfetamine. Un vizio che non lo abbandonerà mai, ma che non gli impedirà di togliersi qualche altra soddisfazione.
Al Giro ’87 si aggiudica due tapponi alpini consecutivi e sembra rinascere. Nell’88, ormai 32enne, il suo obiettivo dichiarato è appunto la maglia ciclamino, quella della classifica a punti. Motivo per cui, nelle due frazioni precedenti, ha fatto di tutto per uscire dalla generale: non vuole essere marcato dai big e intende fare corsa a sé. Vuole la tappa. Parte a metà della salita, verso Lagonero, mentre già lo scenario inizia a farsi apocalittico e il segnale tv a claudicare. Sembra inarrestabile e in effetti fino allo scollinamento lo è. Poi però la scelta fatta a inizio salita, quella di abbandonare l’impermeabile, inizia a presentare il conto. Gli organizzatori se ne rendono conto e, per tutelare la sua incolumità e quella degli altri, decidono di interrompere la corsa. Il problema è che van der Velde di fermarsi non ne ha la minima idea e si fionda in discesa verso Bormio. Senza giacca e senza termos.
Dopo un paio di curve passate a soffiare sulle mani congelate nel tentativo di rianimarle, fa l’unica cosa possibile per evitare la morte: si ferma ed entra in un rifugio. Ha un principio di assideramento e lo sguardo fisso nel vuoto. Al traguardo i minuti di ritardo dal vincitore saranno quasi 47, ma riuscirà comunque a portare la ciclamino fino a Milano. Si ritirerà due anni dopo e negli anni successivi il suo nome tornerà agli onori della cronaca per ragioni tutt’altro che edificanti: tra gioco d’azzardo e (ancora) anfetamine, sarà costretto a vendere tutto, finendo anche in carcere per una rapina a un ufficio postale. Da qualche anno però è tornato nel ciclismo: è l’autista del pullman del Roompot Orange Cycling Team. Nel cui staff – ironia della sorte – c’è anche l’altro “tulipano” del Gavia, Erik Breukink, che quel giorno a Bormio alzò le braccia al cielo. Secondo? Chi se non Hampsten?
«Nel ciclismo moderno – dirà anni dopo il vincitore di tappa – se vedono della neve in cima alla salita, si fermano. Ed è giusto così: è troppo pericoloso. Ma quando riesci a vincere in quelle condizioni, è qualcosa di unico». Non è il solo a conservare un bel ricordo di quella folle tappa, però. «Ovunque mi trovi – racconta van der Velde a ogni intervista – vengo ricordato sempre per il Gavia. Non ho vinto, è vero. Ma ciò che ho fatto è rimasto». Alla compagnia non può che unirsi lo statunitense che quel giorno, come aveva predetto il suo ds, ipotecò un’inaspettata maglia rosa: «quando vidi van der Velde in maniche corte in mezzo alla bufera pensai di avere le traveggole – dirà Hampsten – e non mi sognai nemmeno di andarlo a riprendere. Avevo uno strato di neve in testa e sulle spalle e il freddo cominciava a fare male. La forza me la diedero i tifosi, in attesa al gelo da ore».
«Mi ripetevo che non avrei dovuto farlo, ma in discesa abbassai lo sguardo sulle gambe – continua l’americano – erano di un rosso acceso, con una piccola lastra di ghiaccio sulla pelle». E così, in un caos in cui molti tra ds e meccanici non sanno se la gara sia stata sospesa oppure no, Hampsten – dopo aver visto van der Velde rifugiarsi al caldo, viene raggiunto e superato da Breukink. Appena sette secondi che all’olandese basteranno per aggiudicarsi la più incredibile delle tappe. Il corridore della 7 Eleven si consola con la Rosa, che riuscirà a mantenere fino a Milano con 1’43” sullo stesso Breukink che ricorda: «Lassù era tutto bianco. Ho corso spesso in situazioni di maltempo, ma mai a 2.600 metri di altezza. Mi ripresi soltanto dopo una doccia calda e un piatto di spaghetti». Chi invece per tre anni faticherà a riprendersi è Franco Chioccioli, a cui il Gavia ’88 costò la maglia rosa.
All’arrivo l’aretino sviene. È giunto a 5 minuti da Breukink ed è furioso: «Mi hanno rubato il Giro», ripete. «La corsa doveva essere fermata in cima al Gavia – accusa – tutto quello che è avvenuto dopo è stato frutto della passione e dell’incoscienza dei ciclisti, ma non definiamola una corsa». A rincarare la dose ci pensa il francese Bernard, prima maglia rosa di quel Giro, a Urbino: «Ci fosse stato Moser, oggi non saremmo nemmeno partiti», polemizza. Le proteste fruttano un taglio alla tappa dell’indomani, che senza lo Stelvio innevato viene ridotta ad appena 83 km. In molti tirano un sospiro di sollievo, ma a Chioccioli nessuno restituisce un Giro che considerava suo. Lo vincerà nel 1991, alla faccia dei favoritissimi Bugno e Chiappucci. Hampsten invece non raccoglierà molto altro in carriera e si ritirerà a 34 anni. Chissà, forse senza gli anni di vita persi quel giorno…