“C’era una Tappa” è la rubrica di The Pitch Olympia che racconta alcune delle leggendarie imprese compiute al Giro d’Italia che trascendono le due ruote. Perché la storia della Corsa Rosa s’intreccia a doppio filo con quella del nostro Paese.
In questa seconda puntata raccontiamo della Merano-Trento 1956, di Charly Gaul e dell’Apocalisse che si scatena sul Bondone.
Il Giro è follia: solo una lucida pazzia può infatti spingerti a cento e più all’ora in discesa sotto la pioggia, o a scalare una montagna sui pedali sotto la neve, o a sprintare in mezzo ad altri dieci che ondeggiano, ti stringono, ti tagliano la strada.
Fabio Genovesi
La primavera italiana del 1956 si aprì e si chiuse con una competizione. Gli occhi del paese, in marzo, osservarono il Festival di Sanremo, arrivato alla sesta edizione. Gli organizzatoridecisero per un ritorno alle origini: non più una gara fra interpreti noti al grande pubblico, ma un concorso per cantanti debuttanti. La vittoria andò a Franca Raimondi con il brano “Aprite le finestre“. Non un Festival di Sanremo memorabile – va detto – tant’è che la Rai, dall’anno seguente, richiamò alla conduzione Nunzio Filogamo e riaprì il concorso a nomi già noti al grande pubblico. Anche la competizione che chiuse la primavera del ’56 sembrava indirizzata a un destino simile. A poche tappe dalla conclusione, il Giro d’Italia non era riuscito ad entusiasmare gli appassionati delle due ruote. Fausto Coppi, ormai imboccato il viale del tramonto, si ritirò già nella quinta tappa. Le speranza dei trentini erano riposte su Aldo Moser, all’epoca ventiduenne di belle speranze, ancora ignaro (e come avrebbe potuto non esserlo?) che il suo fratellino Francesco, cinque anni, sarebbe diventato il ciclista italiano con il maggior numero di vittorie da professionista.
Prima della tappa dell’8 giugno del 1956 la maglia rosa sembrava salda sulle spalle di Pasquale Fornara, ex gregario di Coppi, trentunenne arrivato all’occasione della vita dopo vari piazzamenti nelle grandi corse di tre settimane. Ma la terz’ultima tappa, la Merano – Monte Bondone, cambiò per sempre il destino di quel Giro d’Italia, che da corsa anonima, poco entusiasmante e povera di corridori capaci di infiammare il pubblico, divenne in un attimo un’edizione storica e memorabile, capace ancora oggi di restare impressa nella memoria collettiva nazionale.
In realtà, nel percorso di quel Giro d’Italia la ventunesima tappa ha un altro nome: la Merano – Trento alta, dolomiti occidentali. Cinque i colli da scalare: Rolle, Costalunga, Gobbera, Brocon, Bondone. Il dislivello è notevole, ma la quota altimetrica non particolarmente eccelsa. Infatti nessuna, tra le cinque vette da scalare, raggiunge i 2000 metri di altezza. Già tre anni prima, nel Giro del ’53, gli appassionati di ciclismo conobbero i tornanti dello Stelvio, una salita di oltre 25 chilometri la cui vetta tocca quota 2.758 metri. Il 7 giugno del ’56 la carovana del Giro transita sullo Stelvio nella tappa con arrivo a Merano. Le condizioni atmosferiche sono ottimali, vince Cleto Maule e Pasquale Fornara riesce a conservare la maglia rosa senza andare in difficoltà. Il peggio sembra essere alle spalle.
Nella storia del Giro le vette dolomitiche hanno sempre segnato il confine, molto labile, tra i vincitori e gli sconfitti. Alla partenza della ventunesima tappa Fornara è pienamente consapevole che quel giorno, probabilmente, verrà attaccato da tutte le parti, poiché i suoi rivali hanno a disposizione soltanto due tappe prima dell’arrivo a Milano. La maglia rosa deve guardarsi da Bruno Monti (secondo nella generale), Aldo Moser (che sente odore di casa),Cleto Maule (vincitore il giorno precedente) e da Charly Gaul, ventitreenne lussemburghese terzo al Tour del ’55 e detentore della maglia a pois di miglior scalatore.
Già sul Rolle comincia la bagarre e il gruppo inizia a sgretolarsi. Piove leggermente e Charly Gaul, forse maggiormente abituato al clima nord-europeo, sembra averne più degli altri e riesce a scollinare in solitaria il primo valico di giornata. Mancano ancora varie ore di corsa e il cielo non sembra promettere nulla di buono. Già, ma cosa dicono le previsioni meteorologiche per quella giornata? Siamo a metà degli anni ’50: il colonnello Giuliacci, Meteo.It e gli aggiornamenti in diretta non sono ancora previsti. Solamente dalla stazione meteo di Karlsrhue, Germania, è giunta una notizia qualche ora prima della partenza: prevista una forte perturbazione proveniente dalla Groenlandia che andrà a toccare l’Europa centrale e, forse, arriverà fino al Nord Italia. Ma ormai la corsa è partita, piove, questo è vero, ma i ciclisti sul Monte Bondone toccheranno quota 1500 metri, difficile che a inizio giugno quella pioggia si trasformi in neve. Già, difficile, ma non impossibile.
La cronaca dell’epoca sottolinea come già la discesa del Rolle, resa viscida dalla pioggia, cominci a mietere le prime vittime della tappa. È un pomeriggio tardo-primaverile di inizio giugno, ma l’atmosfera è da girone dantesco. Dal cielo non filtra la benché minima luce, le vette dolomitiche sono ricoperte da oscure nuvole basse, colme di pioggia e di cattivi presagi. La corsa continua, nonostante gli addetti ai lavori al seguito della carovana rosa siano convinti che a Trento la tappa verrà interrotta, risparmiando ai corridori le rampe del Bondone, sul quale sta cominciando a grandinare. Lo storico patron del Giro, Vincenzo Torriani anticipa di qualche anno lo show di Freddy Mercury: lo spettacolo deve continuare. Il Bondone è previsto nella tappa, quindi s’ha da fare. E si farà, trasportando la Merano – Trento Alta direttamente nel mito.
Il gruppo iniziale si è scremato definitivamente. Ormai è diventata una sfida tra il singolo atleta e le forze della natura. Niente più calcoli e strategie, impossibile risparmiare qualche energia. Charly Gaul scollina per primo sul penultimo colle, scende verso Trento e si prepara ad affrontare l’ultima asperità, il famigerato Bondone. Dietro di lui, staccato di vari minuti c’è Fantini, mentre terzo è Fiorenzo Magni, che, stando alla cronaca dell’epoca, ha completato la tappa con una frattura alla clavicola. Le immagini, in effetti, lo mostrano arrancare in mezzo alla tormenta, con la spalla destra tutt’altro che nella sua posizione abituale.
Charly Gaul ha legato il suo nome a quell’8 giugno del 1956. L’Angelo della montagna entra prepotentemente nel cuore degli appassionati di ciclismo e da lì non se ne andrà più. Le immagini della sua scalata sul Bondone, in mezzo alla bufera di neve, lo proiettano nel mito della corsa rosa. Taglia il traguardo in solitaria, sfinito, probabilmente senza rendersi conto di quello che è successo e, soprattutto, di quello che gli è successo. Per circa un quarto d’ora si mantiene in uno stato di semi-incoscienza, non riuscendo a comunicare con nessuno. Viene gettato in una vasca bollente, sorte che tocca a tutti i corridori che hanno avuto la forza, il coraggio e lo sprezzo del pericolo per arrivare fin lì, in cima al Bondone. Si narra che qualcuno, immerso nella vasca, si sia lamentato della temperatura dell’acqua, considerata ancora troppo fredda. Con grande fatica si riesce a sfilare la maglia di Charly Gaul, rimasta incollata alla pelle del corridore, a causa del gelo. Al posto della divisa della sua squadra, la Faema, gli viene consegnata la maglia rosa, mai così sofferta e mai così meritata.
La maglia rosa Fornara, che aveva resisto fino a quel momento, abbandona la corsa poco dopo aver cominciato a salire sul Bondone. Si accascia per terra e viene portato via dall’ammiraglia. L’occasione della vita è andata perduta, sciolta come neve da un sole che quel giorno non si è visto mai. La Gazzetta dello Sport del giorno successivo rende omaggio al vincitore, di giornata e di quel Giro: «Al Bondone su tutti Charly Gaul». L’inviato della corsa, il giornalista De Martino, è lapidario, tranchant: «Nei miei lunghi anni al seguito delle corse ciclistiche internazionali non ho mai vissuto una giornata infernale come quella di oggi». La decisione del patron Torriani ha suscitato polemiche a non finire, come è normale che fosse. Fortunatamente non ci sono stati danni considerevoli, tutti i ciclisti sono sopravvissuti, non da un punto di vista sportivo (partirono in 87, si ritirarono in 44), ma perlomeno umano. Chiunque, da Charly Gaul transitato per primo, a Fornara costretto al ritiro, passando per Fiorenzo Magni, terzo masticando con la bocca uno spago che gli reggeva la clavicola fratturata, tutti hanno potuto raccontare a figli, nipoti e a chiunque si fosse messo all’ascolto, di quel giorno di giugno del ’56, quando uscirono indenni dall’apocalisse sul Bondone.