«Sembra solo ieri che la domenica, ci si chiudeva in casa con la radio, vedevamo le partite contro il muro non alla stadio…»

Questa è la frase con cui inizia la canzone di Lucio Dalla, Tempo, uscita nel 1990. Il cantautore, tifoso del Bologna, aveva intuito che il modo di fruire il calcio per gli appassionati stava cambiando. Presto non avremmo più fissato il muro dove era posizionata la radio del salotto, dipingendo su di esso le azioni di gioco della nostra squadra del cuore. Le avremmo viste in televisione integralmente e in tempo reale, abbandonando proprio quella parete che era come una tela su cui la nostra immaginazione dipingeva la partita in maniera unica. Vedendola solo dalla nostra angolazione, esclusivamente attraverso il nostro punto di vista. La nostra interpretazione del racconto, che naturalmente non corrispondeva mai al reale svolgimento. Dal 27 settembre 1970, le partite dopo averle immaginate, avremmo potuto vederle attraverso un breve resoconto, ma non a sera tarda, come accadeva con “La Domenica Sportiva”. No, quasi immediatamente dopo il fischio finale. Nasceva infatti quel giorno “Novantesimo minuto”, la storica trasmissione ideata da Paolo Valenti, che oggi compie 50 anni.

Vorrei poter scrivere che non dimostra il mezzo secolo di età, questo programma è stato un fenomeno culturale e di costume, ma purtroppo non è così. A partire da metà anni novanta, con l’avvento della pay tv ha perso molto del suo appeal e di conseguenza del suo pubblico. Ma per circa 25 anni, mentre fuori faceva buio e la domenica volgeva al termine, ha rappresentato il vero focolare calcistico nazionale. Tutti i veri tifosi prendevano parte allo stesso pellegrinaggio, passavano tutti per le stesse 3 parrocchie: prima la radio, con “Tutto il calcio minuto per minuto”, poi si accendeva ta tv per vedere i gol a “Novantesimo minuto”, infine a tarda sera c’era l’approfondimento con “La Domenica Sportiva”. Il prezzo più grande lo pagherà proprio “Novantesimo minuto”, che non facendo cronaca diretta né approfondimento, di fatto viene privato del suo scopo originario.

Nei bar in cui il fumo si poteva tagliare col coltello, “Novantesimo minuto” lo si guardava bevendo l’ultimo Campari prima di tornare dalle proprie mogli, mentre nelle case appena terminata “Domenica in”, la mamma andava in cucina e iniziava a preparare la cena, mentre i bambini coi papà si appropriavano della tv.

La sigla, pur con arrangiamenti e suoni contemporanei, segue ancora oggi lo stesso motivo: quello composto Jack Trombey, ovvero «Pancho». Poi appariva il sorriso di Paolo Valenti «Amici sportivi, buonasera». Elegante e professionale, ma allo stesso tempo amichevole. Nato a Roma ma tifoso viola, la scomparsa prematura di chi insieme a Maurizio Barendson ideò il programma, fu di fatto il primo impercettibile passo verso il declino. Occorre dire infatti, che nonostante molti si siano avvicendati alla conduzione nel corso degli anni, quando Valenti morì nel 1990, la trasmissione perse la sua chiave sorniona e ironica. Un giovane, ingessato e serioso Fabrizio Maffei, cambiò completamente spartito. Successivamente Giampiero Galeazzi gli restituì una certa connotazione nazional-popolare, anche se l’eleganza non era certamente il suo forte. In ogni caso il calcio cominciava ad essere una cosa seria, troppo, non c’era più posto per chi lo viveva con spensieratezza. Almeno finché non nacque anche la satira calcistica, ma è tutta un’altra storia.

Lo trama iniziale del programma era sempre lo stessa, una poesia mandata a memoria, una cantilena sovrapponibile, domenica dopo domenica. Si cominciava coi risultati delle partite in schedina. Attenzione. non la sola Serie A, ma tutta la schedina Totocalcio, che non era solo un sogno nel nostro cassetto, era il cassetto che conteneva tutti i nostri sogni. Tredici non era un numero, era una esclamazione di gioia che speravamo di fare nostra. Questa era composta, oltre che dalle 9 partite di A, anche da due partite di serie B e da 2 di serie C. Poi seguivano montepremi e quote per i vincitori. A quel punto però, prima di dare il via ai filmati, c’erano ”le altre di B”, ovvero i risultati di serie B non in schedina, seguite dalle classifiche. Questi erano solo preamboli, chi giocava al Totocalcio sapeva già se aveva vinto oppure no, e delle altre di B non fregava niente a nessuno. Era un rituale terribilmente rigido, ma chissà perché anche estremamente rassicurante. Creava la giusta attesa in chi stava a guardare. E comunque era l’unico momento stantio del programma, che durava tra i 30 e 40 minuti e doveva avere un ritmo che però che non apparteneva alla tv di allora.

Questo allo stesso tempo era un pregio ma anche un difetto, perché in quegli anni non si disponeva della tecnologia che l’immediatezza della messa in onda richiedeva. Infatti spesso Valenti doveva ingannare l’attesa degli spettatori, frattanto che qualcuno risolvesse problemi di carattere tecnico che di volta in volta si presentavano. Non c’erano ram di memoria, c’erano cassette a nastro. E non c’era il cloud, quei nastri dagli stadi dovevano essere portati nelle sedi Rai regionali, montati con quelle 3/4 immagini dei fatti più salienti, a cui sarebbe seguito il commento dell’inviato. Che inviato in realtà non era, in quanto nella maggior parte dei casi stava in uno studio con uno sfondo alle spalle, sul quale c’era un fermo immagine dello stadio. Un servizio durava massimo un minuto, un minuto mezzo la partita di cartello.

L’ordine con cui le partite venivano mandate in onda variava, da quel punto di vista gli autori non davano riferimenti al pubblico costringendoti, in un certo senso, a seguire tutto il programma dall’inizio alla fine. L’ incontro clou poteva essere trasmesso per primo, a metà programma o per ultimo. Non potevi saperlo, ogni domenica era diverso. Quindi non potevi sintonizzarti solo a un certo punto, per vedere la tua squadra dovevi aspettare che seguissero la scaletta scelta per quella sera. Coi servizi cominciava anche il carosello degli inviati, sempre gli stessi, sempre dalla stessa città: C’era Gianni Vasino da Milano, con la voce nasale e l’atteggiamento pignolo del ragioniere. C’era Franco Strippoli, il corrispondente da Bari che col riportino cercava di nascondere la calvizie. C’era Luigi Necco da Napoli, tipico omone campano che negli anni d’oro degli azzurri, alla fine del suo collegamento, mandava messaggi di sfida agli inviati di Torino e Milano. Donatella Scarnati da Roma, che per molto tempo è stata l’unica donna all’interno del programma. Tonino Carino, il corrispondente da Ascoli. Nel programma satirico “Drive In” un giovanissimo Ezio Greggio, all’interno del suo sketch “L’asta tosta”, ne fece benevolmente un bersaglio, rendendolo famoso anche a chi non seguiva il calcio, grazie a una sagoma di cartone che lo raffigurava con enormi cuffie in testa. E poi Carlo Nesti da Torino, Marcello Giannini da Firenze, Giorgio Bubba da Genova, Andrea Coco da Cagliari. C’erano poi quelli che fungevano un po’ da jolly, come Cesare Castellotti, Carlo Verna, Beppe Barletti, Ennio Vitanza, Nei primi anni c’era anche Beppe Viola. Tutto era strutturato in modo che l’inviato fosse identificato con una o più squadre di una determinata zona geografica.

“Novantesimo minuto” fu anche testimone di alcuni dei fatti più nefandi del calcio. Come quando nel 1980 le camionette della finanza irruppero negli stadi alla fine delle partite, per compiere arresti nei confronti di calciatori e dirigenti coinvolti nello scandalo scommesse. O come quando, prima del derby Roma-Lazio dell’ottobre 79, morì il tifoso laziale Vincenzo Paparelli. Questo piccolo ma genuino programma ha rappresentato il mondo del calcio in un modo unico, irripetibile. In un certo senso in bianco e nero, anche quando è arrivato il colore. Oggi le partite le vediamo in 4k, eppure molta della magia è divenuta invisibile. Quel calcio, per come era e soprattutto per come veniva raccontato, non tornerà mai più, anche se certamente i i protagonisti erano meno spendibili a livello mediatico, aveva qualcosa che oggi manca. Erano solo professionisti, non divi. Almeno, non volontariamente divi. Signori che a 40 anni ne dimostravano già più di 50, è vero, ma a quei tempi era così un po’ per tutti. Erano come eravamo noi, per quello entravano nelle case senza dover chiedere permesso: erano parte della routine, quella domenicale, delle famiglie. Molti di loro non nascondevano nemmeno la propria fede calcistica.

C’era poi una particolare ma significativa formula, che veniva utilizzata da Paolo Valenti per annunciare le vittorie delle squadre che giocavano in trasferta, che spiega bene quando sia lontano da noi quel modo di raccontare lo sport. Non so se meglio o peggio, solo lontano. Se, per ipotesi, il Milan vinceva uno a zero fuori casa contro l’Atalanta, il risultato non veniva dato così come si leggeva, ovvero Atalanta-Milan 0-1. Ma “A Bergamo, Milan batte Atalanta 1-0”. Doveva suonare bene, perciò si cambiava la forma, ma non la sostanza. Dovrebbero ricordarlo molti dei moderni fenomeni del commento sportivo.