Nella ultima settimana, la notizia dell’invito della preside del Liceo Socrate di Roma, nella Garbatella, alle sue studentesse a “Non indossare le gonne a scuola perché al professore cade l’occhio” si è subito trasformato in un dibattito pubblico sulla questione dell’emancipazione femminile. Sull’esempio di una scuola francese che ha vietato addirittura l’uso del make-up, l’istituzione scolastica in questione è stata criticata aspramente per aver letto nelle parole della preside l’atteggiamento maschilista per cui: “Se ti vesti in un certo modo, poi non ti lamentare se ti succede qualcosa”. La reazione delle giovani è stata tempestiva, tanto che il giorno seguente molte studentesse si sono presentate in classe con la minigonna e un cartellone che recitava le parole: “Non è colpa nostra se gli cade l’occhio”.
Spettatrici di un film visto e rivisto – quasi patetico, perché pare incredibile nel 2020, trattare ancora certi temi – proviamo allora a ripercorre la storia di questo “provocatorio” indumento, simbolo di rivalsa del corpo femminile dal giogo maschile e di una cultura perbenista. La storia della liberazione del corpo femminile inizia qui.
E’ il 1963 quando nella vetrina della boutique Bazaar, in Kings Road a Londra, appare per la prima volta la mini-skirt, il capo di abbigliamento divenuto il simbolo di una generazione intera di donne che faceva di quei 10-15 cm sopra il ginocchio l’incarnazione della lotta per l’emancipazione femminile.
La maternità di quel “minuscolo” pezzo di stoffa, che scopre la bellezza del corpo femminile dalla ormai invalidante costrizione di abiti lunghi e coercitivi, è stata a lungo oggetto di discussione. Alcuni attribuiscono l’invenzione alla giovane stilista inglese Mary Quant – proprietaria del Bazaar, altri ad André Courrèges, stilista francese affermatosi lo stesso periodo della Quant. La stessa Quant sminuì la propria maternità dell’invenzione, attribuendola alle scelte delle proprie clienti che le richiedevano insistentemente di accorciare le proprie gonne, in un’epoca in cui erano ancora diffusissime quelle che coprivano il ginocchio, quando non le caviglie. “Né io né Courrèges abbiamo avuto l’idea della minigonna. E’ stata la strada a inventarla”.
Fu la modella britannica Lesley Hornby, passata alla storia con lo pseudonimo Twiggy, a fare da apripista alla moda della “gonna corta”. La famosa fotografia in bianco e nero che la ritrae nel suo corpo adolescenziale longilineo l’ha elevata a icona simbolo della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta. L’estrema magrezza, che oggi denunciamo come abuso della moda sul corpo della donna, a quel tempo si ergeva come segno di novità assoluta, potremmo dire di ribellione, dallo standard di formosità del corpo femminile che “definiva” la donna esclusivamente nel suo ruolo di moglie e madre.
Così la minigonna si diffuse capillarmente dalla Gran Bretagna a tutta l’Europa, attraversò l’Atlantico fino a invadere il mondo orientale. Ogni donna voleva prendere parte al nuovo fenomeno che investiva il sistema dei costumi del mondo femminile occidentale, rivendicando l’utilizzo della ormai celebratissima mini-skirt come piccola battaglia individuale contro il maschilismo cieco e dominante, poi divenuta lotta estesa a tutta la comunità femminile contro il rigido conservatorismo “sessista” vigente in tutti i paesi del mondo.
La liberazione della gambe delle donne, da quel momento, fu sulla bocca e davanti agli occhi di tutti.
Star di fama internazionale parteciparono attivamente alla battaglia femminile che vedeva nell’uso della minigonna l’affermazione di una nuova consapevolezza del corpo.
La celebrazione dell’erotismo, come istanza connaturata nella sinuosità del corpo femminile, scacciava via la visione di corpo come colpa, affermandolo invece come strumento performativo di potere femmineo: la donna è guardata dall’uomo ma sa di essere guardata, e fa del suo sguardo sul suo corpo la conquista di un potere di prevaricazione.
Non più oggetto ma soggetto attivo che trae forza dalle sue qualità corporee, come atto di rivolta contro il sistema patriarcale fallo-centrico. L’uomo così diventa soggetto passivo nei confronti del proprio stesso sguardo, e di un corpo che non può più dominare, pietrificato da una donna-medusa che celebra la propria forza procreatrice in un corpo che finalmente, mostrandosi nella sua nudità, sa di esistere.
Nel 1964 Audrey Hepburn, la famosissima interprete dell’acclamato film “Colazione da Tiffany”, viene fotografata, con il figlio Sean Ferrer, dentro un vestito corto a trapezio; nel 1966, in Italia, dopo lo scandalo suscitato dal balletto con le gambe scoperte delle sorelle Kessler, sarà la cantante Mina a provocare scalpore nel suo corto tubino nero.
Ce ne sarebbero troppi di nomi da citare di donne del mondo dello spettacolo che diedero il proprio contributo alla causa, affermando il modello di donna emancipata nel mondo.
In tutti i paesi europei l’adozione di barriere legislative da parte dei governi per ostacolarne la diffusione fallì miseramente. Ma da parte dell’opinione pubblica la minigonna fu sempre bollata come indumento indecoroso che riduceva la donna a mero oggetto di attrazione sessuale.
In Italia, addirittura, le minigonne furono limitate all’interno delle sale da ballo. Alcune ragazze furono denunciate per portare gonne troppo corte in luoghi pubblici fino a raggiungere esplosioni di aggressione violenta nei confronti di ragazze che le indossavano.
Negli anni Sessanta, metabolizzata la novità nella rivoluzione dei costumi femminili, la minigonna fu lentamente abbandonata negli armadi – soppiantata dalla moda dei pantaloni a zampa – dando spazio al movimento femminista di elaborare la denuncia sociale per cui questo capo, nato come simbolo di emancipazione femminile, diventasse – a seguito dell’affermazione della società dei consumi – simbolo di mercificazione del corpo femminile da parte dei media.
Così il femminismo denunciava “la piaga minigonna” come strumento dall’abietta società maschile per rinsaldare il proprio potere attraverso la creazione della donna-merce.
Paradossalmente, la lotta per la parità dei diritti, sembra cadere nell’idea femminocentrica secondo la quale il femminile dovrebbe ergersi a forza distruttrice del mondo maschile, ricalcando di fatto quel sistema valoriale di potere a cui si è opposta per secoli. Celebre è la frase “una donna che porta i pantaloni”, maschilista a mio parere, per delineare una donna che smette di essere tale per imporsi nelle qualità di uomo razionale.
Il lungo e complicato processo di costruzione di un’identità di genere autonoma che tenga conto delle qualità femminili – soprattutto dell’innegabile differenza nel corpo e dell’innata qualità erotica come proprietà che permette il pieno possesso del corpo – e usare le proprie caratteristiche come punti di forza per porre un equilibrio tra i sessi che vada oltre la semplice imitazione del modello maschile. Così la minigonna finisce per incarnare il simbolo più forte nella costruzione di un percorso autonomo nell’identità di genere.
Divenuta una costante nell’abbigliamento femminile anni Novanta, negli anni 2000 la minigonna finisce per diventare quasi un simbolo di omologazione sociale a seguito delle numerose varianti che vengono prodotte e commercializzate dal mondo della moda.
Solo oggi, nel 2020, quel simbolo che ormai sembrava sclerotizzarsi, ritorna con tutta la sua forza rivoluzionaria nella lotta contro sistema maschilista imperante, che si estende purtroppo a tutte le istituzioni, in questo caso la scuola Socrate di Roma, al grido da parte delle giovani “Non è colpa mia se gli cade l’occhio”. In un’Italia che vede nelle “quote rosa” un modello, come se non fosse già implicito un presupposto di rappresentanza femminile, non è sconvolgente imbattersi nell’esplicitarsi di forme repressive dei costumi nelle istituzioni.
Mi rendo conto che l’istituzione-scuola debba fare osservare regole di disciplina, in questo caso nell’abbigliamento, ma solo per una questione di rispetto della libertà altrui, non per la questione sessista che “al professore cade l’occhio”. In più è ipocritamente aberrante pensare di non attirare lo sguardo maschile o femminile che sia. Siamo immersi in un mondo fatto di sguardi che ci individualizzano continuamente, che pongono le basi per un processo di soggettivazione continuo e inarrestabile.
Senza escludere il fatto che sembra ridicolo pensare che un jeans stretto non possa attirare lo sguardo maschile. Quindi secondo il liceo Socrate una ragazza del 2000 dovrebbe buttare il guardaroba perché potrebbe, in qualunque caso, essere vittima dell’attenzione maschile?
Il buongusto è ciò che si ottiene rendendo consapevoli la nuova generazione di donne della potenza dell’erotismo del proprio corpo, non rendendolo invisibile, ma dandole gli strumenti atti a promuovere l’idea di possesso e controllo del proprio corpo femmineo.
Insegnare a sentirsi padrone del proprio corpo, senza ribadire il possesso maschile, è la missione scolastica. Non ridurre la donna esclusivamente a oggetto sessuale o piuttosto condannare tutto il genere maschile nel ruolo del perverso voyeur.
Rendere consapevoli è la chiave: una ragazza consapevole del proprio corpo di donna futuro e un ragazzo consapevole dell’improprio diritto al possesso femminile.
Concludo con un appello alle giovani donne di questa generazione, che si possano unire in questa piccola battaglia, con il semplice hashtag #MeToo – magari sotto una foto in minigonna pubblicata sui social – come invito iniziatico a prendere parte nella lotta dell’indipendenza femminile.
Congratulazioni ragazze, oggi siete anche voi responsabili della costruzione del futuro delle donne di domani.