20 settembre 1870, ore 07:00.
Il Papa è sveglio da almeno un paio d’ore quando il corpo diplomatico arriva in carrozza a piazza San Pietro per partecipare alla Messa negli appartamenti pontifici del Palazzo Apostolico. Nonostante i colpi di cannone che fanno tremare le grandi vetrate colorate e che rimbombano nei corridoi delle Logge vaticane, il Santo Padre prosegue imperturbabile la Celebrazione liturgica. Sono i bombardamenti dei reggimenti italiani su Porta San Pancrazio, a poche centinaia di metri da Villa Pamphilj e dal Gianicolo. Pio IX vive così le ultime ore della millenaria storia dello Stato Pontificio: celebrando l’eucarestia e restando sorprendentemente sorridente.

In realtà, il bombardamento di Porta San Pancrazio è solamente un diversivo. Il “vero fronte” è quello tra Porta Salaria e Porta Pia, dove i primi colpi di cannone sono stati sparati alle ore 05:15 quando il buio ancora avvolgeva la città. L’ordine effettivo è arrivato da un giovane capitano d’artiglieria, l’ebreo Giacomo Segre, che proprio in virtù della sua fede non può incorrere nella scomunica promessa dal Papa a chiunque avesse ordinato di aprire il fuoco su Roma. Alle 09:15, quattro ore dopo l’inizio dell’attacco, si apre il primo varco nelle mura, a circa una cinquantina di metri alla sinistra della Porta.

La strada che conduce a Porta Pia è fiancheggiata ai due lati dai muri di cinta dei poderi. Ci avanzammo verso la porta. La strada è dritta e la porta si vedeva benissimo a una grande lontananza; si vedevano le materasse legate al muro dai pontifici, e già per metà arse dai nostri fuochi; si vedevano le colonne della porta, le statue, i sacchi di terra ammonticchiati sulla barricata costruita dinnanzi […]. A poche centinaia di metri dalla barricata due grossi pezzi della nostra artiglieria traevano contro la porta e il muro. […] Gli ufficiali erano tutti presenti. Il generale Mazè, col suo Stato maggiore, stava dietro i due cannoni. Ad ogni colpo si vedeva un pezzo del muro o della porta staccarsi e rovinare.

Edmondo De Amicis, in veste di giornalista, racconta l’assalto a Roma del 20 settembre 1870 nel suo libro “Le tre Capitali. Torino, Firenze, Roma” (1898).

L’ordine è di concentrare il fuoco in direzione del varco che si è appena aperto. In pochi minuti, la breccia raggiunge una larghezza di una trentina di metri, permettendo così l’agevole passaggio dei reggimenti. Mentre il sottotenente dei bersaglieri Federico Cocito è il primo soldato italiano ad entrare nell’Urbe, il Generale Raffaele Cadorna dà l’annuncio dell’unificazione: «Ore 10. Forzata la Porta Pia e la breccia laterale aperta in quattro ore. Le colonne entrano con slancio, malgrado una vigorosa resistenza».

Quando la Porta Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colonne di fanteria furono lanciate all’assalto. […] Vidi tutti i soldati, presso la porta, gettarsi in ginocchio, per aspettare il momento di entrare. Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido «Savoia!» poi uno strepito confuso; poi una voce lontana che gridò: «Sono entrati!». […] La Porta Pia era tutta sfracellata; la sola immagine enorme della Madonna, che le sorge dietro, era rimasta intatta; le statue a destra e a sinistra non avevano più testa; il suolo intorno era sparso di mucchi di terra, di materasse fumanti, di berretti di zuavi, d’armi, di travi, di sassi. Per la breccia vicina entravano rapidamente i nostri reggimenti.

Edmondo De Amicis, Le tre Capitali. Torino, Firenze, Roma”, 1898.
La presa di Roma” di Filoteo Albertini (1905).
Nel film muto del 1905 – il primo ad essere proiettato pubblicamente in Italia – si può vedere la ricostruzione storica della Breccia di Porta Pia.

La resistenza messa in atto dagli zuavi pontifici non è poi così vigorosa come viene descritta dal Generale Cadorna. Infatti, l’ordine di Pio IX è quello di «aprire le trattative per la resa ai primi colpi di cannone», con l’obiettivo di evitare inutili spargimenti di sangue, pur rendendo evidente la violenza subita dallo Stato Pontificio. Anche perché la disparità delle forze in campo è nettamente a favore degli italiani, che possono contare su circa 50.000 uomini contro i poco più che 13.000 dell’esercito papale. È il comandante in capo degli zuavi ad optare per la difesa ad oltranza della città. Una decisione, costata 49 caduti tra l’esercito sabaudo e 19 tra quello papale, della quale Pio IX non declinerà la responsabilità nemmeno in seguito, modificando il testo della lettera con gli ordini militari per il Generale Kanzler e sostituendo la frase «ai primi colpi di cannone» con «appena aperta le breccia». Poco dopo le 10:00, a più di cinque ore dai primi colpi di cannone sulle mura dell’Urbe, non riuscendo a mettersi in contatto con il suo comandante, il Papa fa issare una bandiera bianca sulla cupola di San Pietro in modo che tutte le linee di soldati la possano vedere. Lo Stato Pontificio si arrende: Roma è italiana!

Prima pagina dell’edizione straordinaria del giornale “Paese Sera”, 20 settembre 1870.© Archivio Paese Sera

La resa ufficiale viene firmata a Villa Albani solamente nel pomeriggio. Poco più tardi, i bersaglieri del Generale Cadorna sfilano per le vie della città tra gli applausi della popolazione. Gli stessi applausi che erano stati riservati a Pio IX solo la sera prima. «Inizia così – riporta Sergio Romano nel suo libro ‘Libera Chiesa. Libero Stato?‘ – fra due manifestazioni popolari di segno opposto, la storia della convivenza tra Stato e Chiesa in una città che da quel momento è capitale di un Regno e di una Chiesa universale».

La firma del Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate dello Stato Pontificio, il Generale Hermann Kanzler, sul trattato ratificato a Villa Albani, 20 settembre 1870.

L’annessione di Roma al Regno d’Italia non mise però fine ai contrasti tra la corona ed il papato, ma anzi ne deteriorò definitivamente i rapporti. L’elezione di Pio IX nel 1846 aprì un biennio di grandi riforme liberali: fu introdotta la libertà di stampa, fu concessa la libertà agli ebrei, che non furono più costretti a vivere nel ghetto, e fu iniziata la costruzione della rete ferroviaria. L’atto politico di maggior rottura con il passato fu la concessione dello Statuto fondamentale del Governo temporale degli Stati di Santa Chiesa. Un editto che rinnovava l’assetto istituzionale dello stato, aprendolo per la prima volta anche ai laici. Ma ancora più importante fu il primo tentativo politico-diplomatico di realizzare l’unità nazionale attraverso una Lega doganale, che di fatto avrebbe reso l’Italia uno stato federale. Ma le lodi per i primi anni di pontificato, si trasformarono ben presto in crucifige.

L’ultimo Papa-Re si trovò in una situazione politica molto difficile da gestire. Storicamente lo Stato Pontificio godeva della protezione del Regno di Sardegna, della Francia e dell’Impero austriaco. I rapporti con i Savoia iniziarono però a deteriorarsi durante i moti rivoluzionari del 1848, quando Pio IX si trovò costretto a negare il proprio sostegno al Regno sabaudo durante la prima guerra d’indipendenza contro l’Austria. Questo perché se da una parte, in quanto sovrano, avrebbe potuto – e forse anche desiderato – inviare le proprie truppe per liberare i territori italici dall’occupazione austriaca, dall’altra non poteva dichiarare guerra ad una nazione fortemente cattolica per semplici motivi territoriali. Il Papa decise quindi per la neutralità: una scelta che i liberali italiani non gli perdoneranno mai. Nasceva così la Questione Romana.

Zuavi Pontifici sulla scalinata del castello di Mentana dopo la battaglia vittoriosa contro le truppe garibaldine (1867). – © Antonio D’Alessandri /Fondo Silvio Negro

Sul finire degli anni ’50 dell’Ottocento, il desiderio dei Savoia di unificare l’intera penisola sotto un’unica corona si fece ancora più forte e fu inevitabile arrivare allo scontro militare – e non solo diplomatico – con il papato. L’invasione della Legazione delle Romagne, delle Marche e dell’Umbria ridusse il territorio dello Stato Pontificio al solo Lazio. Non avendo consegnato una formale dichiarazione di guerra, le conquiste del Regno di Sardegna non avevano di fatto alcun valore legale. La situazione di stallo si protrasse per tutto il 1860, durante il quale il Governo di Torino propose a Pio IX di rinunciare volontariamente ai territori. Il Papa rifiutò, convinto dell’ingiustizia subita e furono necessari dei plebisciti per l’annessione. Così, il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia.

Nel suo primo discorso alla Camera dei Deputati da Primo Ministro, Camillo Benso di Cavour dichiarò «che senza che Roma sia riunita all’Italia come sua capitale, l’Italia non potrebbe avere un assetto definitivo». Parole che denotavano – non poi così velatamente – il desiderio di annettere l’intero Lazio. La reazione di Pio IX fu quella di non riconoscere il nuovo Stato italiano, che conseguentemente non venne riconosciuto anche da altri paesi. A fare da mediatore tra i due vicini di casa che non si parlavano fu la Francia. La nazione guidata da Napoleone III proteggeva il Pontefice in virtù di una tradizione molto antica, ma era al contempo il principale alleato del neonato Regno d’Italia. Così, le due nazioni giunsero alla stipulazione della Convenzione del 15 settembre 1864: la nazione transalpina s’impegnava a ritirare le proprie truppe da Roma, mentre l’Italia rinunciava a qualsiasi pretesa sulla città e sul Lazio. Quando, però, nel 1870 scoppiò la guerra franco-prussiana, Napoleone III fu costretto a richiamare in patria il contingente militare di stanza nell’Urbe. La caduta dell’Imperatore nella battaglia di Sedàn, il 2 settembre 1870, tolse l’ultimo ostacolo che fermava i Savoia, che infatti, di lì a pochi giorni, sarebbero entrati da trionfatori a Roma.

“Inaugurazione del Parlamento a Palazzo Madama il 2 aprile 1860”, P. Tetar van Elven, 1860. Torino, Palazzo Reale.© Sopraintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Torino, Asti, Cuneo, Biella, Vercelli.

Nonostante un’inizio di pontificato aperto alle istanze liberali, successivamente Pio IX cercò di fare quanto in suo potere per riportare la Chiesa e l’umanità a prima dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese. Nel 1864 emanò l’enciclica Quanta Cura, alla quale venne allegato il Sillabo: un elenco di ottanta errori della nostra epoca, tra cui il razionalismo, l’ateismo, il comunismo, il socialismo, il liberalismo, il matrimonio civile ed altre posizioni relative alla Chiesa e alla società civile. La risposta italiana fu dura e non si fece attendere: il Parlamento promulgò una serie di leggi che prevedevano la soppressione degli ordini religiosi e la devoluzione dei loro bene al demanio statale, l’eliminazione della giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri, il servizio di leva obbligatorio per i seminaristi e l’obbligo di matrimonio civile insieme a quello religioso.

Nel dicembre del 1869 Pio IX aprì il Concilio Vaticano I – il primo dai tempi del Concilio di Trento del 1563 – che stabilì le regole alle quali la Chiesa si sarebbe uniformata per quasi cent’anni, fino al Vaticano II indetto da Papa Giovanni XXIII nel 1962. Per prima cosa, il concilio ribadì quanto contenuto nell’enciclica Quanta Cura, ovvero l’incompatibilità delle dottrine moderne con la vita cristiana. Ma ancora più importante fu il dogma sull’infallibilità del magistero del Papa in materia religiosa e morale, promulgato il 18 luglio 1870. Un principio che è, ancora oggi, il primario ostacolo alla riunificazione delle diverse confessioni cristiane. Il Papa fu anche tentato di promulgare il dogma sul potere temporale, ma non fece in tempo a causa dello scoppio della guerra franco-prussiana che favorì la politica espansionistica italiana e mise fine ai lavori del Vaticano I.

20 settembre 1870, i bersaglieri italiani aprono una breccia nelle mura di Roma a circa 30 metri da Porta Pia. La presa della città mette fine al potere temporale dello Stato Pontificio. – © Wikimedia Commons

La questione del potere temporale del Papa continua ad avere una particolare valenza, nonostante sia basato su un fondamento teologico più che giuridico. Infatti, secondo il diritto divino, nello svolgimento delle sue funzioni religiose universali di capo della Chiesa, il Pontefice deve godere di un’indipendenza e di un’autonomia che non può essere sottoposta ad ingerenze politiche esterne. Questo perché finirebbe inevitabilmente con il ripercuotersi anche nell’ordine dei rapporti spirituali. Secondo la concezione canonica, confermata anche dal Concilio Vaticano II, per raggiungere questo risultato non esiste che un’unica via: la creazione di uno Stato posto sotto l’unica potestà del Santo Padre. Una condizione necessaria perché il Papa possa godere dell’autonomia e dell’immunità giuridica per poter esercitare la propria attività religiosa universale di capo della Chiesa.

Nel 1870 la popolazione romana era formata per un terzo da sacerdoti e per un terzo da disoccupati e mendicanti. La classe dirigente della nuova capitale d’Italia era composta, esclusi gli abili esponenti della Curia, dalla nobiltà papalina, ovvero l’unica aristocrazia europea che da secoli non combatteva per la difesa dello Stato e non aveva avuto alcun tipo di slancio imprenditoriale, politico ed intellettuale, che di fatto avevano permesso lo sviluppo delle altre grandi città del continente. Così, il nuovo stato italiano giunse in città con un esercito di burocrati, che venne ben presto inglobato da quella che in città chiamano il generone. Un termine che definisce perfettamente la borghesia romana, i cui unici scopi sono sempre stati quelli di impossessarsi del potere ed arricchirsi. L’ipertrofia statale che ancora oggi persiste, non è altro che il prodotto della Roma papalina. Una società nella quale ogni nuovo Pontefice creava nuovi inutili incarichi per sistemare parenti, amici e clienti, senza inimicarsi quelli dei suoi predecessori.

Nel film “Superfantozzi” del 1986 viene riproposta la presa di Roma attraverso le vicende della famiglia Fantozzi, che grazie al card. Ortona Natta riesce ad acquistare una casa a Porta Pia.

Ritornando agli eventi successivi alla breccia di Porta Pia e alla resa di Villa Albani, il 27 settembre l’esercito dei Savoia prese possesso anche di Castel Sant’Angelo, lasciando così i possedimenti del Papa limitati al solo Colle Vaticano. Pio IX non riconobbe la sovranità su Roma e si dichiarò prigioniero politico dello Stato italiano. Nel tentativo di risolvere la questione e disciplinare i rapporti tra i due stati, il Parlamento approvò la cosiddetta “Legge delle guarentigie” nel maggio 1871. Questa riconosceva il Papa come sovrano indipendente con il possesso dei palazzi e dei giardini del Vaticano, dei palazzi del Laterano, della Cancelleria e della villa di Castel Gandolfo. Inoltre, garantiva libertà di comunicazioni postali e telegrafiche, il diritto di rappresentanza diplomatica ed esentava i vescovi dal giuramento al Re. Tuttavia, Pio IX continuò a considerare la legge come un atto unilaterale dello Stato italiano, dichiarandola inaccettabile e scomunicandone gli autori. Davanti all’ostinazione del Santo padre, il Parlamento reagì con altrettanta intransigenza, sopprimendo le facoltà di Teologia dalle università italiane e sottomettendo i seminari al controllo statale.

I rapporti tra Stato e Chiesa andarono ulteriormente peggiorando quando nel 1874 la Curia romana – tramite il Non expedit (letteralmente: «non conviene») – arrivò a vietare esplicitamente ai cattolici qualsiasi tipo di partecipazione alla vita politica del paese. Solo con l’avvento del XX° secolo ci fu una progressiva distensione, testimoniata dalla lettera enciclica del 1904 Il fermo proposito, che pur conservando il Non expedit permetteva larghe eccezioni, dando così il via all’esperienza del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo. Il contenzioso tra l’Italia e la Santa Sede trovò una risoluzione solamente nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi, che di fatto sanciva la fine della Questione Romana e la nascita dello Stato della Città del Vaticano. Era l’11 febbraio, data che ancora oggi è festa nazionale nel piccolo stato all’interno delle Mura Leonine.

Il Museo Ossario Garibaldino (Roma), costruito in epoca fascista da Giovanni Jacobucci, contiene i resti tumulati dei caduti della Repubblica Romana del 1849, dell’insurrezione del 1867 e della presa di Roma del 1870. Qui vi è anche la tomba dell’autore delle parole dell’inno d’Italia, Goffredo Mameli. – © Giovanni Orsenigo