Lo scorso 4 agosto la città di Beirut è stata sconvolta dall’esplosione più forte della sua storia, che ha causato 190 vittime, 6500 feriti e circa 300.000 sfollati. Secondo le ricostruzioni, un enorme quantitativo di nitrato di ammonio (quasi 3000 tonnellate) stipato nei magazzini del porto di Beirut sarebbe saltato in aria dopo aver preso fuoco a causa di un incendio divampato nelle vicinanze. La zona del porto è stata inizialmente ricoperta da una gigantesca nuvola di fumo e, nel giro di pochi minuti, due impressionanti esplosioni hanno devastato i vicini quartieri di Mar Mikhael e Geitawi.
Varie zone della città sono state danneggiate, e gran parte delle finestre e delle vetrine delle abitazioni e dei negozi presenti nelle aree limitrofe al porto sono andate in pezzi. Non è ancora stata fatta chiarezza sulle origini dell’esplosione: se la presenza del nitrato di ammonio (un composto chimico che viene utilizzato sia come fertilizzante che come esplosivo) è stata confermata, non è ancora stata fatta luce su cosa abbia causato l’incendio iniziale. Secondo le ultime versioni, tutto sarebbe partito da lavori di saldatura effettuati nei pressi del deposito in cui era stipato il materiale esplosivo.
E’ necessario appurare come sia stato possibile abbandonare così a lungo un tale quantitativo di materiale esplosivo nei magazzini del porto. Il presidente libanese Michel Aoun, oltre ad affermare che un coinvolgimento internazionale nelle indagini avrebbe come unico effetto quello di “diluire la verità”, aveva promesso che la dinamica dell’accaduto sarebbe stata accertata in tempi brevi attraverso un’inchiesta che, però, non è ancora stata conclusa.
Il 4 agosto è destinato a rimanere impresso per sempre nella memoria dei libanesi. In molti hanno parlato di apocalisse, a indicare come questa catastrofe rappresenti per Beirut sia la fine di ogni speranza di risollevarsi e tornare allo splendore di una volta che la definitiva rivelazione del male e della corruzione che pervadono la società libanese. L’esplosione ha lasciato l’intero paese sotto shock, e i danni fisici e psicologici si faranno sentire per molto tempo su una popolazione già stremata dalla peggior crisi finanziaria della propria storia (attualmente più di un libanese su due si trova oltre la soglia di povertà) e dalle conseguenze della pandemia. Sul fronte sanitario, la riapertura dell’aeroporto Rafik Hariri e il riavvio dei collegamenti internazionali, a inizio luglio, hanno causato un rapido aumento dei casi di Covid-19 nel paese, e le autorità sono state costrette ad annunciare un nuovo lockdown con un coprifuoco in tutte le ore della sera e della notte.
La popolazione sta dando sfogo alla propria rabbia: nei giorni immediatamente successivi alla detonazione gli abitanti di Beirut si sono riversati in piazza dei Martiri e nelle strade della città per chiedere giustizia. E’ infatti evidente, nonostante la dinamica dell’incidente non sia ancora stata del tutto chiarita e accertata, come la presenza di un tale quantitativo di materiale esplosivo nel porto di Beirut, il principale del paese nonché uno dei più importanti nel Mediterraneo orientale, rappresenti un crimine a priori, che trascende le responsabilità che hanno causato l’incendio e poi l’esplosione.
L’origine del nitrato di ammonio sembra essere stata stabilita con certezza: secondo l’emittente Al Jazeera, il materiale sarebbe arrivato del porto di Beirut nel settembre 2013, a bordo di un cargo russo battente bandiera moldava che dalla Georgia era diretto in Mozambico. L’imbarcazione sarebbe stata costretta a fermarsi a Beirut per problemi tecnici, e le autorità libanesi avrebbero poi impedito la ripartenza del cargo, il cui carico è stato stipato in un hangar del porto, dove è rimasto fino al giorno dell’esplosione. Le varie segnalazioni e inviti a trovare un’altra sistemazione al materiale esplosivo sono stati ripetutamente ignorati.
Le proteste dei cittadini libanesi nei giorni successivi al 4 agosto sono state represse con durezza dalle forze di polizia. La stessa Human Rights Watch ha criticato l’eccessivo utilizzo della violenza da parte dei rappresentati delle forze dell’ordine, e in pochi giorni ci sono state diverse centinaia di feriti tra i manifestanti e un morto tra gli agenti di sicurezza. Negli stessi giorni, vari ministri si sono fatti da parte uno dopo l’altro, e si è arrivati, a meno di una settimana dall’esplosione, alle dimissioni dello stesso premier Hassan Diab (in carica da gennaio) e di tutto il gabinetto di governo.
Il Libano, ora, è un paese in ginocchio che sembra aver perso la speranza di potersi rialzare contando solamente sulle proprie forze. L’esplosione è avvenuta a pochi giorni da quello che doveva essere un evento dall’alto contenuto simbolico per la storia del paese dei cedri, cioè la lettura della sentenza per l’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri avvenuto il 14 febbraio 2005. L’anziano ex premier, in carica fino al 2004, venne ucciso insieme ad altre 21 persone vicino alla corniche e al centro di Beirut. Siria e Hezbollah erano tradizionalmente stati indicati come i responsabili dell’omicidio; il padre di Saad Hariri, infatti, aveva rapporti burrascosi con la Siria di Assad, la cui presenza in Libano, tramite lo stanziamento permanente di reparti dell’esercito, a distanza di oltre 15 anni dalla fine della guerra civile, veniva considerata un’eccessiva ingerenza negli affari interni del piccolo paese mediorientale.
Proprio all’omicidio di Hariri seguì un’ondata di proteste che convinse Bashar al Assad ad ordinare il ritiro delle truppe siriane dal Libano, in ottemperanza con quanto stabilito dagli accordi di Ta’if che avevano posto fine alla sanguinosa guerra civile che spaccò a metà il Libano tra il 1975 e il 1990. A distanza di più di 15 anni dall’attentato che uccise l’ex premier libanese non era ancora stata fatta chiarezza sui responsabili e soprattutto sui mandanti della strage: il Tribunale speciale per il Libano (TSL), con sede all’Aia e creato tramite una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, avrebbe dovuto emettere il proprio verdetto proprio a tre giorni di distanza dall’esplosione al porto di Beirut dello scorso 4 agosto.
La lettura del verdetto è solamente stata rimandata di qualche giorno, e il 18 agosto, finalmente, il TSL ha indicato come colpevole uno dei quattro imputati (tutti facenti parte del movimento Hezbollah), senza però indicare con chiarezza chi fu a ordinare l’omicidio. Lo stesso Saadi Hariri, a sua volta premier dal 2009 al 2011 e dal 2016 all’ottobre 2019 (quando si dimise in seguito allo scoppio delle proteste della thawra), nel 2010 in un’intervista ad una televisione saudita aveva escluso la possibilità di un coinvolgimento siriano nell’assassinio del padre, sconfessando completamente la posizione assunta nei mesi successivi all’attentato.
La catastrofe del porto di Beirut rappresenta in modo emblematico gli effetti distruttivi della corruzione e del malgoverno dell’intera classe politica libanese. Fin dallo scorso ottobre i libanesi sono scesi in piazza per chiedere la fine del confessionalismo e del clientelismo che caratterizzano il funzionamento delle istituzioni libanesi, ai vertici delle quali rimangono da anni le stesse famiglie che si spartiscono il controllo di interi settori economici e produttivi. In particolare, il Libano non dispone tuttora di servizi essenziali: acqua potabile, elettricità per 24 h e un servizio decoroso di smaltimento dei rifiuti.
Il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron è stato tra i primi ad esprimere la propria solidarietà verso il popolo libanese e, soprattutto, a visitare la città di Beirut e a promettere aiuti in cambio di riforme. La visita di Macron ha fatto scalpore anche perché ha reso ancora più evidente l’assenza delle istituzioni libanesi e il loro distacco dalla gente comune: se da un lato il governo libanese non ha dimostrato in alcun modo la propria empatia e partecipazione e in molti casi i cittadini hanno dovuto auto-organizzarsi per venire incontro ai bisogni primari dei molti cittadini rimasti senza un tetto (in un contesto in cui tra l’altro gli stessi ospedali sono stati danneggiati dall’esplosione), dall’altro lato il presidente francese si è presentato come “salvatore”, visitando la zona del porto e evidenziando la necessità di individuare i responsabili della tragedia e avviare il paese verso un programma di riforme economiche e strutturali.
Proprio la mancata attuazione delle tanto agognate riforme ha impedito al governo libanese l’accesso agli aiuti internazionali della conferenza dei Cedri e del FMI (col quale i dialoghi avviati tra aprile e maggio si sono interrotti dopo poche settimane). La completa perdita di credibilità e la completa sfiducia della comunità internazionale verso la classe politica libanese hanno creato le basi per l’acutizzarsi della crisi economica del paese dei cedri, che si trova ad essere tra le altre cose “ostaggio” dello scontro geopolitico delle potenze regionali e vittima, indirettamente, delle sanzioni economiche degli USA verso la Siria (tramite il Caesar act).
La visita di Macron e i suoi proclami sulle riforme di cui il paese ha bisogno arrivano in un momento in cui, chiaramente, le principali forze politiche libanesi si trovano in una condizione di estrema debolezza. La stessa Hezbollah, che storicamente si era opposta alle riforme imposte dall’alto e che ha sempre visto di cattivo occhio i tentativi di ingerenza delle potenzie straniere che non fossero i tradizionali alleati sciiti, ha dato segnali di apertura e accondiscendenza verso il processo di cambiamento dell’impalcatura del paese. Va ricordato come Hezbollah sia considerata un’organizzazione di stampo terroristico da gran parte della comunità internazionale, e la possibilità di un dialogo con la Francia (tradizionalmente protettrice della comunità cristiana) solleva vari interrogativi. Nabih Berri, leader dell’altro partito sciita Amal e speaker della camera, si è detto a sua volta favorevole alla fine del confessionalismo.
In un triste gioco di ricorrenze, la seconda visita di Macron in Libano coincide col centesimo anniversario della proclamazione del “Grande Libano” (1 settembre 1920-1 settembre 2020). Nel corso della sua visita Macron ha incontrato la cantante Feiruz, simbolo di una libanesità che va oltre i confini settari, e piantato un cedro (gesto dall’alto valore simbolico) nella città di Byblos. Proprio un giorno prima della visita del presidente francese, e, con ogni probabilità, in risposta alle sue stesse pressioni, Mustapha Adib, che attualmente ricopre la carica di ambasciatore in Germania, ha ricevuto l’incarico di formare un nuovo governo. Adib ha ricevuto il mandato con il voto favorevole di 90 parlamentari su 120, raccogliendo il sostegno di Hezbollah e dei suoi alleati, oltre che quello del “Movimento del Futuro” di Saad Hariri. Il suo compito sarebbe quello di mettere insieme un governo di “esperti” con lo scopo di riformare sostanzialmente i vari ambiti della cosa pubblica libanese.
Macron si è detto pronto ad ospitare una conferenza di aiuti per il Libano ad ottobre, affermando, nel corso della sua seconda visita, che i prossimi mesi saranno decisivi per le sorti del paese. Nel corso della sua visita, però, il presidente francese si è anche espresso con chiarezza: senza l’attuazione di un programma di riforme la comunità internazionale è pronta a imporre delle sanzioni nei confronti della leadership libanese.
Nel giorno dell’anniversario non sono mancate le proteste e gli scontri in piazza, e per l’ennesima volta da quasi un anno a questa parte i libanesi hanno sfogato il proprio malessere per il progressivo deterioramento delle condizioni di vita, la corruzione della classe politica e il ruolo di “vittima sacrificale” sullo scacchiere geopolitico internazionale che il paese dei cedri si è trovato a interpretare troppe volte negli ultimi decenni.
La stessa visita di Macron rappresenta senza dubbio un fattore di sollievo e di speranza per il Libano, ma è lecito avere qualche perplessità riguardo all’effettiva genuinità delle intenzioni del presidente francese, sia alla luce della tradizionale attitudine di Parigi nei confronti dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo sia alla luce di quello che alcuni studiosi hanno definito come “capitalismo dei disastri”.
Rimane il fatto che i primi pagare la disperata situazione in cui si trova attualmente il Libano saranno ancora una volta le fasce più vulnerabili della popolazione (composte in buona parte da siriani e palestinesi), già stremate dai mesi di lockdown e che si trovano in grandissima parte escluse dal mercato del cosiddetto lavoro formale. Ora più che mai sarà di cruciale importanza il lavoro delle ONG locali e internazionali nel cercare di tamponare la deriva di centinaia di migliaia di persone verso la povertà più estrema.
Ciò che farebbe veramente la differenza, tuttavia, sarebbe un nuovo approccio della comunità internazionale verso il Libano e la sua popolazione, troppo spesso ridotti a tessere di un puzzle più ampio in cui i principi umanitari vengono subordinati alle logiche dello scontro geopolitico e dell’equilibrio di potenza. Se per il Libano, sul piano interno, non ci sarà ripresa senza un nuovo patto sociale che rimetta al centro dell’agenda politica valori di maggiore equità e interdipendenza, sul piano internazionale l’auspicio è che si possano mettere da parte le considerazione utilitaristiche per dare la priorità alla necessità di salvare un paese che non può contare sulle frontiere terrestri (Siria e Israele sono gli unici due paesi confinanti) e che ospita sul proprio suolo più di un milione di rifugiati (a fronte di una popolazione totale di poco superiore ai 6 milioni).