Ha senso parlare di psicologia dello sport in un paese come il nostro, che vive solo di calcio e spesso accosta lo studio dei meccanismi mentali e cognitivi a forme di misticismo e controllo mentale, se non magia oscura?
“Lo sport si gioca con il corpo, a che serve la mente?” è una delle frasi più sbagliate a cui questa rubrica cerca di rispondere. Per gli addetti ai lavori, e gli sportivi che hanno tratto benefici da un supporto in tal senso, la definizione della psicologia sportiva si esprime meglio con i fatti che con le parole. Per dovere di cronaca tuttavia definiremo prima il concetto e poi citeremo alcune delle sue applicazioni.
Cos’è la psicologia dello sport? E’ quella branca della psicologia che si concentra sull’ottimizzazione delle performance dell’atleta, attraverso il sostegno e l’allenamento delle componenti mentali chiamate in causa nell’attività sportiva. Motivazione, attenzione, propriocezione, resistenza allo stress, reazione all’errore, routine, regolazione dell’attivazione fisiologica, goal setting, flow e si potrebbe ancora andare avanti a lungo con questo elenco.
Chi sono le figure professionali adatte?
Psicologi, specializzati in psicologia dello sport e regolarmente iscritti all’albo della regione di competenza, che abbiano svolto attività sportiva competitiva durante la propria vita. Diffidate dai mental trainer che non hanno effettuato studi in materia, molto spesso queste figure rischiano di creare più danni che benefici.
Come si articola un percorso di mental training?
Innanzitutto va precisato che lo psicologo dello sport lavora sull’ottimizzazione del processo, non assicura la performance in assoluto. Questo vuol dire che la sua attenzione è volta a mettere l’atleta, o la squadra, nelle condizioni di esprimere al meglio delle proprie potenzialità. Ci vorrebbe un mago per dotare Gattuso (con tutto il rispetto per il campione del mondo del 2006) dei piedi di Ronaldo, non siamo ancora a quel punto.
Tornando all’articolazione del percorso, in genere si comincia dal goal setting, ovvero dallo stabilire obiettivi che siano semplici, misurabili, raggiungibili e temporalmente definiti. Questa fase è cruciale per stabilire una relazione di fiducia tra le parti e allinearle in merito alla direzione del lavoro e dei risultati attesi per raggiungere traguardi condivisi. Da qui in poi ogni professionista ed ha un proprio modus operandi, spesso flessibile in concomitanza delle caratteristiche dello sport, delle abilità dell’atleta e delle necessità di entrambi (queste sono individuate attraverso il Performance Profile). Alcuni atleti portano richieste di miglioramento della concentrazione, altri di ottimizzazione di un determinato gesto tecnico, ma nella maggior parte dei casi è lo psicologo dello sport che deve far emergere le richieste specifiche attraverso le proprie competenze.
Che differenza c’è tra uno psicologo psicoterapeuta e uno psicologo dello sport?
Lo psicoterapeuta opera in una situazione di riabilitazione o di prevenzione in termini di igiene mentale, aiutando i propri pazienti a seconda del disagio di cui sono portatori. Lavora per risanare una situazione compromessa (per la maggior parte). Lo psicologo dello sport si occupa invece di potenziare alcune abilità mentali e personali, configurandosi come un ottimizzatore di performance. A ciascuno il proprio ruolo e mestiere.
Ma a volte i giocatori finiscono una partita, magari una sconfitta e sembrano depressi, non servirebbe un terapeuta in quel caso?
“Depressione” è una parola eccessivamente inflazionata, quello che si osserva nella maggior parte di queste situazioni è frustrazione, un’emozione comune tra chi vede i propri obiettivi sfumare o non riesce a raggiungere i traguardi desiderati.
E lo stress chi lo gestisce?
Dipende dalla natura dello stress. Un giocatore può essere sotto pressione durante un momento della propria carriera o della propria partita, è stressato dalle caratteristiche della situazione che sta vivendo. In questo caso si parla di eustress ovvero stress positivo, adattivo, che esiste come richiesta dell’organismo di maggiori energie per fronteggiare l’evento (strategie di coping).
Caso diverso è quello di un operaio può essere a rischio di perdere il proprio lavoro, con ripercussioni sulla sua vita e della propria famiglia. Qui di parla di distress, ovvero uno stress che assomiglia maggiormente ad un logorio, qualcosa che tiene svegli la notte intaccando anche le proprie capacità di agire nel giorno successivo.
Senza entrare nella natura della vicenda, il caso di Joseph Ilicic oggi (come potremmo considerare quelli di Casey Stoner qualche anno fa) ci ricorda qualcosa di importante, è che troppo spesso noi tutti dimentichiamo. Gli sportivi e le sportive sono prima di tutto persone, e come tali possono avere momenti di difficoltà, di smarrimento o di depressione. È proprio la loro natura umana (che spesso ci viene celata dai media) che delle volte ci lascia senza parole, ma è quella stessa natura che li rende capaci di fare ciò che fanno, che ce li fa amare e ci fa soffrire o esultare con loro.
Ilicic (a cui facciamo un grande in bocca al lupo) è l’esempio più recente di come lo stress e le situazioni inaspettate della vita, come quello derivato dalla pandemia, possano far crollare anche i guerrieri più forti. Ma non per questo chi è crollato non può rialzarsi, anzi spesso torna più forte e più agguerrito di prima. Ti aspettiamo presto in campo Joseph!