Nel 1976, l’antropologo e architetto paesaggista Dean MacCannell definì il turismo come la struttura fondamentale della modernità. Il viaggiatore contemporaneo, spinto dai processi alienanti della vita quotidiana, cerca in luoghi lontani ed esotici un’autenticità che più non ritrova nella propria esistenza. Questi luoghi lontani ed esotici però, a loro volta, diventano non autentici, perché artefatti, costruiti per incontrare le aspettative dei viaggiatori. La definizione di MacCannell è piuttosto rigida e datata ma sintetizza chiaramente il problema. Il turismo di massa deturpa l’ambiente, impoverisce i luoghi. Piega i contesti locali al mercato dell’autenticità. L’incontro, che è alla base di ogni viaggio, è unico e singolare, ci chiama a rispondere in prima persona, è rischioso, non standardizzabile. Il mercato, invece, domanda prodotti. L’autenticità si vende come prodotto (in una logica paradossale ma efficace) e quindi si standardizza. Perdendosi.
La riduzione di un luogo a prodotto che sappia soddisfare i bisogni dell’immaginario contemporaneo è la causa di tutti i mali che possiamo ricondurre allo sviluppo turistico. D’altro lato il turismo crea un indotto notevole, vitale per molti luoghi. La discussione sulle prospettive dell’industria turistica, che sembra strozzare proprio laddove porta più benessere, non è nuova. L’emergenza Covid però la riporta sul piatto con straordinaria urgenza.
Nell’estate 2020, le vacanze in Italia sono state comunicate quasi come un gesto patriottico. In tempi brevissimi si è costruito un nome – Turismo di prossimità – un brand, per questa pratica turistica che ha reso affascinanti viaggi che fino a pochi mesi fa nessuno si sarebbe mai sognato di fare. Ma ben vengano le mode se portano cambiamenti importanti! Così com’è stato per il fenomeno dei viaggi a piedi, che negli ultimi anni sta conoscendo un piccolo boom. Solo una moda, per cui conta più il marchio che il senso, o indice che qualcosa sta davvero cambiando nella sensibilità e nei bisogni delle persone? Ce lo dirà il tempo. Per il momento la pratica del camminare, come gesto di resistenza e protesta contro uno stile di vita sempre più stretto per l’essere umano, continua a diffondersi. E c’è chi, al camminare, ha aggiunto un altro gesto di pratica resistente: raccogliere la plastica.
Paolo Monesi, referente dell’Associazione Plastic Free, percorre a piedi la “Via degli Dei“. Da Piazza Maggiore a Bologna a Piazza della Signoria a Firenze, centotrenta chilometri immersi nella natura dell’Appennino Tosco-Emiliano, per raccogliere la plastica gettata a terra. Un turismo non solo sostenibile, ma con un determinante impatto positivo sull’ambiente. Plastic Free è un’organizzazione di volontariato che ha l’obiettivo di informare e sensibilizzare sui temi della plastica con campagne di formazione e azioni mirate sul territorio. Da più di un anno organizza raccolte di plastica su spiagge, strade e parchi cittadini. La prima, pratica urgenza è eliminare la plastica già presente nell’ambiente, mentre sul lungo termine l’obiettivo è sul fronte dell’educazione e del dialogo con le generazioni future. Il 12 agosto di quest’anno è cominciato il primo trekking di camminata e raccolta che tiene insieme le due istanze: ripulire i sentieri e sensibilizzare le persone.
Quando sento Paolo al telefono si trova a Monte di Fo’, ha attraversato il passo della Futa e dall’Emilia Romagna è passato in Toscana. Il cammino, dice, è piuttosto impegnativo, ma sta andando molto bene. I camminatori – che sulla Via degli Dei sono detti viandanti – sono più del solito quest’anno, si stima intorno ai ventimila. Effetto del covid che ha disincentivato i viaggi all’estero. Anche gli appassionati di cammini, che magari avevano programmato di fare il Cammino di Santiago che ogni anno attira centinaia di migliaia di camminatori da tutto il mondo, hanno preferito ripiegare sui sentieri nostrani. La Via degli Dei non era preparata ad accogliere questi numeri: nelle settimane di agosto alberghi e agriturismi sono pieni, si fatica a trovare posto in tenda ed è capitato che alcuni viandanti abbiano dovuto dormire nei campi sportivi perché non si sapeva come gestire questo flusso fuori controllo. Pochi giorni fa è stato lanciato un appello con la richiesta di non partire se non dopo essersi assicurati una prenotazione nelle strutture.
Nei giorni d’agosto in cui tutta l’Italia si muove, anche il turismo più sostenibile sembra poco sostenibile. Ma Paolo è ottimista: « Il turismo legato ai cammini è un vantaggio per tutto il territorio». A differenza delle monocolture turistiche (dove già il parallelo agricolo la dice lunga) non c’è uno sfruttamento intensivo e si crea un’ equa distribuzione del reddito in zone altrimenti depresse e marginali. «La ricchezza è ridistribuita in piccoli centri, nelle piccole attività: riapre qualche forno, qualche bottega artigiana. Questa è sostenibilità. I cammini storici non tengono conto dei luoghi turistici ma della natura, dei passaggi tra i boschi e le montagne. Fanno quindi breccia in quei territori dove ci sono problemi economici, di spopolamento. Grazie alla Via degli Dei da sette, otto anni riaprono attività che erano chiuse da venti. Qui c’era molto turismo negli anni Settanta ma poi è finita, erano rimaste solo le seconde case per la villeggiatura, turismo che non crea ricchezza né incentiva i servizi.»
E’ stato in previsione dell’afflusso anomalo di turisti che Plastic Free ha scelto la Via degli Dei come primo esperimento di camminata/raccolta: ci si chiedeva se sarebbe peggiorata la situazione dei rifiuti lasciati nell’ambiente. Ma i boschi hanno riservato una bella sorpresa: a parte qualche fazzoletto o bottigliette all’ombra di qualche bell’albero, l’impatto dell’onda anomala di viandanti non è stato invasivo. La situazione cambia drasticamente quando si percorrono tratti dove passano le auto: qui lattine, bottigliette, pacchetti di sigarette infestano i cigli della strada. Il lancio dal finestrino della macchina, malsana abitudine mai passata di moda, supera di gran lunga il problema che possono creare i camminatori dei boschi.
Ma al di là della quantità di plastica raccolta, lo scopo di Paolo è parlare del progetto con più persone possibile, a cominciare da chi frequenta la montagna. Per chi ama la natura sembrerebbe naturale il bisogno (e non il dovere!) di prendersi cura dei luoghi che attraversa non solo evitando di inquinare ma anche rimediando, per quel che è possibile, all’inquinamento prodotto da altri. Prenderci cura di ciò che ci fa stare bene sembra una necessaria banalità, stupisce vedere che purtroppo non funzioniamo così. Esiste un’abitudine culturale a non percepire una diretta implicazione, una responsabilità, che ci chiama sempre in prima persona a occuparci delle persone che ci circondano e del mondo in cui abitiamo. «Ormai non si può dire che ci sia indifferenza verso i temi ambientali. Certe immagini, i numeri, sono sotto gli occhi di tutti. Le persone non sono più indifferenti ma da qui ad attivarsi la strada è lunga. Quello che stiamo cercando di fare è di sensibilizzare a questo nuovo pensiero, in una direzione positiva: non ti rovini la vacanza se raccogli una sportina di plastica in spiaggia vicino al tuo ombrellone, non ti rovini il trekking se porti via una pinza e togli un po’ di rifiuti.»
Le istituzioni collaborano mettendosi a disposizione per lo smaltimento finale dei rifiuti, fornendo guanti e sacchetti quando necessario; si stanno costruendo reti virtuose per far crescere questo progetto. L’idea di Plastic Free è che questi trekking di cammino/raccolta possano diventare appuntamenti fissi in diversi territori. In alcuni stati, come in Svezia e in USA, esistono delle competizioni sportive basate sulla corsa e la raccolta rifiuti, dove al risultato finale concorre sia il posizionamento dell’atleta che la quantità di plastica raccolta. Di nuovo, l’ottica è quella di sensibilizzare e di spingere all’azione. Cambiare le abitudini, spostarci dall’idea lamentosa che la responsabilità sia sempre di qualcun altro. La sfida di questo tempo sarà capire se davvero vogliamo darci una seconda possibilità, anche in un settore così cruciale per l’economia italiana come il turismo. Siamo disposti a reinventarci? A riscoprire davvero la lentezza, l’incontro umano, l’esperienza unica e singolare con il luogo, la cura per l’ambiente? O non sapremo resistere alla tentazione di far diventare anche questo un marchio, un prodotto da piazzare sul mercato?
La traversata di Paolo è una boccata di speranza.