Sentivamo che avremmo giocato per l’intero nostro Popolo, gli ungheresi emigrati in Australia nutrivano una profonda ostilità verso i sovietici per tutto ciò che avevano fatto al nostro paese a partire dal 1945 e l’atmosfera era effettivamente surriscaldata.
Ervin Zàdor
Troppo spesso la narrazione sportiva si ferma al campo da gioco o alla pista, quando in realtà lo sport è un fenomeno culturale fortemente radicato nella società. E infatti, ci sono momenti nella storia durante i quali gli eventi sportivi smettono di essere semplice competizione agonistica. Diventano conseguenze, o esemplificazioni, di eventi politici o sociali, assumendo una connessione indissolubile con i libri di storia. È il caso della sfida tra Ungheria e URSS alle Olimpiadi di Melbourne 1956. Il teatro è il Crystal Palace, la piscina che ospita il torneo di pallanuoto. Ad affrontarsi in acqua ci sono il popolo che ha cercato invano di conquistare la propria libertà e l’invasore che, quella libertà, gliel’ha privata.
La nazionale ungherese è in quel momento la dominatrice assoluta del gioco, essendosi laureata campione olimpica a Los Angeles 1932, a Berlino 1936 e ad Helsinki 1952, abdicando solo momentaneamente a favore dell’Italia a Londra 1948.
I giochi finlandesi sono anche i primi ai quali partecipa l’Unione Sovietica, che nel torneo di pallanuoto riceve una sonora sconfitta per 5-3 dai magiari. La differenza tra le due squadre è notevole, come ricorda il giocatore russo Viktor Ageyev: «All’epoca erano i nostri idoli, ci erano nettamente superiori ed io mi chiedevo come avremmo potuto batterli». Quindi, per tentare di ridurre il gap, la Federazione sovietica impone che i propri atleti assistano e partecipino agli allenamenti ungheresi. Una pratica possibile solamente grazie alla all’egemonia politica che l’URSS esercitava sul paese. Già, perché durante la Seconda Guerra Mondiale l’Ungheria era entrata nel conflitto bellico al fianco delle potenze dell’Asse e la liberazione dell’Armata Rossa nel 1944 l’aveva fatta diventare parte della sfera di influenza sovietica, per trasformarsi poi rapidamente in una dittatura comunista sotto la guida di Mátyás Rákoski e del Partito dei Lavoratori Ungherese. L’ingerenza russa – come è facile immaginare – era mal gradita dalla squadra magiara, che comprensibilmente non voleva aiutare una diretta rivale per le medaglie olimpiche. «I sovietici prendevano nota di qualunque cosa noi facessimo, ripetendola perfettamente il giorno successivo: non facevano altro che copiarci», ricorda con tono sarcastico Istvan Hevesi.
Durante il percorso di avvicinamento ai Giochi del 1956 le due rappresentative hanno l’occasione, per ben due volte, di affrontarsi in amichevole. Il primo dei due incontri si gioca a Mosca, viene vinto dai padroni di casa probabilmente grazie ad alcuni favori arbitrali e si conclude con una gigantesca rissa negli spogliatoi. Durante il secondo, svoltosi questa volta in Ungheria, gli spettatori prima si voltano, dando la schiena all’ingresso della squadra sovietica, e poi sommergono di fischi l’inno nazionale della potenza egemone. Ce ne sarebbe già abbastanza per una partita dal clima teso, ma deve succedere ancora qualcosa perché la sfida si trasformi da rivalità sportiva a qualcosa in più.
Questa storia non avrebbe come palcoscenico la rassegna a cinque cerchi, se il 1956 non fosse l’anno in cui i Giochi Olimpici si svolgono per la prima volta nell’emisfero australe. E quindi, anziché nel classico periodo estivo, si svolgono dal 22 novembre al 7 dicembre. Così, un mese prima della cerimonia di apertura della competizione olimpica, la squadra ungherese si trova in ritiro sulle colline nella periferia a nord di Budapest.
Contemporaneamente, tra le strade della Capitale, si sta svolgendo una pacifica manifestazione a sostegno degli studenti della città polacca di Poznań, che erano stati brutalmente repressi dal regime. Si tratta di una conseguenza della nuova aria che si respira nel blocco sovietico, a seguito della denuncia del culto della personalità di Stalin e delle sue violazioni della legalità socialista, perpetuate dal nuovo capo politico Nikita Chruščëv. Ma nonostante il vento di rinnovamento che si respira grazie alla destalinizzazione, il partito comunista centrale non può tollerare il processo di liberalizzazione messo in moto dal nuovo Primo Ministro ungherese Imre Nagy. Così, le autorità sovietiche lo destituiscono, riproponendo il suo precedessore Mátyás Rákoski, appartenente alla vecchia guarda stalinista. L’avvicendamento politico provoca la forte e decisa reazione del movimento studentesco, che si concretizza nella manifestazione del 23 ottobre, alla quale si uniscono ben presto operai, lavoratori e membri dell’esercito. L’enorme folla decide di attraversare il Danubio da Pest e dirigersi verso il Parlamento, distruggendo anche l’enorme statua di Stalin presente in città. La protesta si trasforma in un’insurrezione popolare e quando l’AHV – la polizia di sicurezza ungherese – spara sui manifestanti, i civili imbracciano le armi, dando il via ad un vero e proprio tentativo di rivoluzione.
La selezione olimpica di pallanuoto, allenata da Béla Rajki, dalla sede del ritiro percepisce chiaramente il clima rivoluzionario che si respira a Budapest: può sentire distintamente il rumore degli spari e vedere il fumo che si alza sopra la città. Anche il capitano, Dezso Gyarmati, si unisce alle proteste lasciando momentaneamente il campo di allenamento. L’insurrezione è ormai inarrestabile: il regime di Rákoski cade e Imre Nagy viene reintegrato a furor di popolo alla guida della nazione magiara. Il nuovo (per la seconda volta) Primo Ministro conduce trattative febbrili con l’Unione Sovietica per trovare una via d’uscita pacifica da quella che si è ormai trasformata in una guerra civile a tutti gli effetti. È il 28 ottobre quando Nagy annuncia che i negoziati sono andati a buon fine e che prevedono il “cessate fuoco”, il ritiro delle truppe sovietiche e lo scioglimento dell’AHV e del partito socialista ungherese.
Visto il clima che si respira in Ungheria, ma anche per paura di eventuali repressioni sovietiche, la delegazione olimpica viene velocemente mandata a Praga per terminare la preparazione. Ma, paradossalmente, la squadra di pallanuoto non ha nemmeno una piscina in cui allenarsi. Dalla Cecoslovacchia partono poi per un tortuoso viaggio via terra di tre settimane. Direzione: Australia. È un periodo di quasi un mese durante il quale i magiari perdono ogni tipo di contatto con quello che sta accadendo a Budapest. Quando arrivano a Darwin – città nel nord dell’Australia e tappa di avvicinamento a Melbourne – sono convinti che la rivoluzione abbia avuto successo e che ai Giochi rappresenteranno una nazione libera. Sbarcati in Oceania, però, scoprono dalla stampa locale l’amara e dura verità: il loro Paese è stata invaso dall’Armata Rossa, la rivoluzione è stata soffocata nel sangue e si contano almeno 3 mila morti.
Già, perché nel frattempo è scoppiata anche la Guerra del Sinai per la conquista del Canale di Suez. Una storia differente e parallela, che però influenza notevolmente la riuscita della rivoluzione magiara. L’Egitto, con l’appoggio sovietico, ha nazionalizzato il canale, provocando la reazione di Francia, Gran Bretagna e Israele che procedono all’occupazione militare della zona. A quel punto l’URSS, per non dimostrare debolezza a favore degli imperialisti, ma anche per il timore di uno sgretolamento del sistema, decide per l’invasione militare e la repressione dei moti rivoluzionari ungheresi. Così, il 4 novembre, alle porte di Budapest ci sono 200 mila uomini e 4 mila carri armati, accompagnati dalle incursioni aeree e dai bombardamenti dell’aviazione. Lo scontro è assolutamente impari. L’Armata Rossa riesce a penetrare nelle aree nevralgiche della città e il 10 novembre i magiari sono costretti ad arrendersi.
Giunti a Melbourne, gli atleti decidono di contribuire a loro modo ai sentimenti indipendentisti del proprio paese, ammainando la bandiera ungherese con lo stemma comunista che si trova davanti all’ingresso del villaggio olimpico e issandone una con il simbolo della rivoluzione. È in questo clima rovente che si arriva al 6 dicembre: nella piscina del Crystal Palace si trovano ad affrontarsi l’oppressa Ungheria e gli oppressori dell’URSS.
Il torneo di pallanuoto prevede un girone all’italiana per l’assegnazione della medaglia, al quale accedono le prime due classificate dei tre gironi eliminatori. I magiari, che prima dell’inizio del torneo olimpico non scendono in acqua da oltre un mese, decidono di modificare il proprio gioco difensivo introducendo la marcatura a zona: una tattica rivoluzionaria che consisteva nell’invitare gli avversari al tiro dalla lunga distanza e permetteva un notevole risparmio di energia. Non solo la novità tattica, ma anche il livello tecnico dei giocatori ungheresi, nettamente superiore a quello delle altre squadre, fa sì che alla penultima giornata – quella della sfida contro i sovietici – siano i favoriti per la medaglia d’oro.
Ormai, però, il lato sportivo ha assunto un’importanza decisamente secondaria. Ai magiari la possibilità di conquistare l’oro olimpico interessa ben poco, piuttosto, sono assetati di vendetta per i fatti accaduti in patria.
Sono le ore 15:25 del 6 dicembre 1956 e, dopo una viglia costellata di dichiarazioni forti e minacciose, finalmente si gioca. Sugli spalti del palazzetto sono presenti circa 5500 persone, molti dei quali immigrati magiari. L’allenatore ungherese Béla Rajki ha cercato di tenere a freno i suoi ragazzi, perché sa perfettamente che quella non è una partita come le altre. Gli atleti, però, sono prima di tutto uomini e certe pulsioni sono difficili da contenere. Ed infatti, la piscina si trasforma immediatamente in un ring. I giocatori sovietici vengono insultati e provocati in lingua russa fin dai primi istanti. Una strategia non difficile da attuare per i magiari, che avevano studiato la lingua a scuola essendo cresciuti sotto lo strapotere politico e culturale dell’URSS. «Voi, sporchi bastardi, siete venuti a bombardare il nostro paese», attaccano gli ungheresi. «Traditori», rispondo gli avversari. Il piano funziona, visto che a meno di un minuto dall’inizio dell’incontro un giocatore sovietico viene già espulso. Saranno cinque – altri due sovietici e due magiari – alla fine del primo tempo, con l’arbitro svedese Sam Zuckerman che, nonostante il pugno di ferro, perde ben presto il controllo del match.
Gli ungheresi dominano tecnicamente la partita. Chiudono la prima frazione di gioco in vantaggio di due reti, grazie ad un rigore trasformato dal capitano Gyarmati – quello che aveva lasciato il ritiro di Budapest per partecipare alle proteste – e ad un gol della punta di diamante della squadra, il ventunenne Ervin Zàdor, che sarà poi il protagonista della scena storica di quest’incontro. Il secondo tempo procede sulla falsa riga del primo, con Karpati e Bolvari che fissano il risultato sul 4-0. Ma è a 2′ minuti dalla fine che accade il fatto che consegnerà per sempre questa partita ai libri di storia. Il giovane Zàdor viene spostato in marcatura su Valentin Prokopov, il giocatore di maggior talento della formazione sovietica, al quale immediatamente non manca di ricordare che non è «altro che un perdente, che la gara sta finendo e tu non fai altro che cercare scuse», rincarando poi la dose con insulti rivolti alla sua famiglia. Il sovietico prima replica definendo «fascisti» tutti gli ungheresi e poi colpisce con un pugno il magiaro al sopracciglio destro.
Zàdor sta uscendo dall’acqua per farsi medicare, quando il suo capitano, quella vecchia volpe di Gyarmati, gli consiglia di uscire dal lato opposto, quello sotto la tribuna. Un suggerimento che si rivela vincente. Infatti, mentre Zàdor nuota da un lato all’altro, l’acqua si colora di rosso e quando il giovane magiaro esce dalla piscina con il viso ed il torace completamente ricoperti di sangue, scatena la reazione dei presenti nel palazzetto. Il Crystal Palace, che fino a quel momento ribolliva come un vulcano pronto ad esplodere, alla vista del sangue si trasforma in uno squalo pronto ad azzannare la sua preda. Gli spettatori si riversano giù dagli spalti a bordo vasca, riempiendo di insulti e sputi i giocatori sovietici, che sono costretti ad uscire dall’acqua scortati dalla polizia australiana per evitare il linciaggio. L’arbitro non può far altro che fischiare la fine anticipata del match: la vendetta ungherese è servita.
In un clima di Guerra Fredda, la foto di Zàdor ricoperto di sangue fa il giro del globo e i giornali di tutto il mondo, il giorno dopo, titolano a caratteri cubitali: «BLOOD IN THE POOL MATCH!». L’Ungheria, nell’ultima partita del girone, batte anche la Jugoslavia, conquistando il meritatissimo oro olimpico. Alla premiazione Zàdor, con 13 punti di sutura sul volto, piange lacrime sincere e promette che non metterà mai più piede nel suo paese. Chiederà asilo negli Stati Uniti e vivrà a San Francisco, dove farà l’allenatore di nuoto e dove scoprirà un giovane talento che avrebbe scritto la storia olimpica. Si chiama Mark Spitz, ma questa è tutta un’altra storia…