Se nel Mediterraneo orientale è la Turchia la potenza regionale più attiva ad occidente vi sono altre realtà altrettanto interessate a bilanciare gli equilibri regionali per rispondere alle sfide del bacino del Mediterraneo.
L’area del Mediterraneo occidentale vede l’attivismo politico del Marocco, spinto dalle politiche di apertura e riforme volute dal Re Mohammed VI, erede della più longeva dinastia islamica, la Alawide che reclama la discendenza diretta dal Profeta. Il regno nordafricano ha sempre rivendicato e affermato la propria autonomia sia dal Sultano di Istanbul e dal 1912 (Accordi di Fez) dai paesi europei che intendevano estendere la propria influenza nel paese.
L’attivismo del sovrano è garantito a livello costituzionale in quanto sono prerogative della casa reale la sicurezza interna, gli affari religiosi e la politica estera.
Salito al trono nel 1999, Mohammed fu educato dal padre, Hassan II (che occupò il Sahara Occidentale nel 1975 attraverso la marcia verde, causando anche l’allontanamento del Marocco dall’Organizzazione dell’Unione Africana) ed è riuscito ad attirarsi le simpatie occidentali e marocchine nella speranza di dare al Paese un avvenire florido. Sin dai primi anni di regno, Mohammed ha attuato delle politiche di riforma sia in campo politico che economico, promuovendo persino delle indagini su probabili abusi contro i diritti umani durante il regno paterno. Le aperture del sovrano hanno caratterizzato soprattutto i diritti civili, approvando delle misure volte a incrementare i diritti delle donne, anche se gran parte della comunità religiosa si è opposta. A seguito della cosiddetta “Primavera araba” ha fatto approvare una nuova costituzione che attribuisce maggiori poteri al primo ministro e al parlamento, mantenendo però il diritto di veto del sovrano.
Tra le sfide economiche, il re ha lanciato la lotta alla povertà attraverso la liberalizzazione dell’economia che ha attratto numerosi investimenti stranieri. Tale provvedimento, pur portando capitali a Rabat, non ha ancora del tutto abbassato il tasso di disoccupazione marocchino.
Pur mantenendosi nell’orbita statunitense, Rabat, a partire dal 2016, ha intensificato il rapporto con Pechino.
Collocato ai margini della Belt and Road Initiative cinese, il Marocco può rappresentare un partner importante perchè è collocato lungo la frontiera tra Africa, Mediterraneo e Atlantico diventando oltre che un consumatore, seppur ridotto – il Marocco ha circa 31 milioni di abitanti – un produttore di beni fatti dalla Cina in Marocco.
Tra le principali mosse del sovrano, la più lungimirante è senza dubbio il ritorno del Paese nell’Unione Africana nel 2017. Un cambio di rotta che avuto lo scopo principale di attirare le simpatie degli altri stati africani verso la causa marocchina nei confronti del Sahara Occidentale, area contesa con il fronte Polisario (popolazione locale che aspira all’indipendenza) dopo il ritiro spagnolo nel 1975. L’interesse per l’ex colonia spagnola è legato alla presenza di numerosi giacimenti di polifosfati nel sottosuolo. In questa lotta per accaparrarsi lo sfruttamento delle risorse del Sahara Occidentale può giocare un ruolo importante l’aiuto cinese, soprattutto nelle infrastrutture. Infatti, fin dal 1975 sono stati avviati numerosi progetti infrastrutturali e industriali sul territorio del Sahara occidentale e la capacità dei tecnici di Pechino può dare una marcia in più ai piani marocchini.
A contrastare l’attività marocchina vi è il gigante energetico algerino. La figura che ha influenzato l’ultimo decennio della politica algerina di contrasto al Marocco è Abdelaziz Bouteflika, il presidente che ha portato l’Algeria fuori dalla guerra civile proponendo una riconciliazione nazionale. Rispetto al vicino marocchino, Algeri, pur presentandosi come un colosso energetico, subisce la presenza di frange estremiste jihadiste che destabilizzano il fronte interno.
Dopo l’uscita di scena di Bouteflika, ad aprile dello scorso anno, l’Algeria sta cercando di diversificazione dell’economia, provando ad affiancare alla trazione dell’economia degli idrocarburi un modello agricolo e industriale.
Il nuovo parlamento, su spinta della presidenza della Repubblica, ha elaborato un piano di riforma per rispondere alle richieste di piazza e cercare di alleggerire l’influenza confessionale nel paese. Riforme che riguardano i diritti fondamentali e libertà pubbliche, come la penalizzazione della tortura e della tratta di esseri umani, la protezione delle donne dalla violenza, la libertà di assembramento e riunione, la creazione di un’organizzazione tramite dichiarazione semplice; il rafforzamento e la separazione dei poteri; la riforma giudiziaria; nonché della politica fiscale.
In Algeria la piazza ha avuto e continua ad avere un ruolo fondamentale. Dal febbraio 2019 si sono verificate nel Paese inedite manifestazioni di grande ampiezza, che hanno mantenuto una natura pacifica. Il movimento di piazza ha portato alla cancellazione delle elezioni presidenziali previste per il 18 aprile 2019 e alle dimissioni del Presidente Bouteflika.
Ciò che preoccupa la classe dirigente algerina è il quadro di forte instabilità a livello regionale, in particolare Libia e Sahel che si aggiungono alle crisi decennali nel Sahara Occidentale con il Marocco. Questa instabilità può condizionare sia la tenuta politica interna, ancora minata da cellule jihadiste, sia la ripresa dalla crisi degli idrocarburi. In questa sfida l’Algeria ha un importante partner.
Algeri dai tempi della guerra contro la Francia mantiene rapporti con Pechino, da quando la superpotenza asiatica finanziò e armò il Fronte di liberazione nazionale, tramite l’Egitto di Nasser e nel 1958 riconobbe il governo provvisorio della Repubblica d’Algeria. La Cina fu il primo paese ad aprire un’ambasciata nella neonata Repubblica algerina democratica e popolare. Questo rapporto fa dell’Algeria il naturale partner strategico nell’area della Cina, ma l’instabilità interna fa pendere le preferenze del dragone verso Rabat, l’eterno rivale pronto ad approfittare delle debolezze del gigante algerino. Algeri mira a recuperare terreno diplomatico cercando di approvare nella legge di riforma costituzionale un emendamento volto a impiegare le forze armate in operazioni di peace keeping e peace enforcing, sotto l’egida delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana e della Lega Araba oltre che nell’ambito di accordi bilaterali con singoli paesi.
Questa proposta mira ad attenuare le minacce di estensione del conflitto libico in territorio algerino. Da sempre legata ad un non interventismo l’Algeria si vede costretta ad intervenire diplomaticamente per cercare di evitare l’impegno di truppe straniere ai propri confini offrendosi come mediatore diplomatico tra le fazioni in lotta.
In queste circostanze, la Francia sta cercando di attrarre a sé l’ex colonia al fine di evitare che Algeri finisca nelle mani dell’altro importante attore internazionale nell’area: la Russia. Ma questo è un approfondimento che faremo in seguito, proseguiamo ora a presentare l’ultimo attore regionale, la Tunisia.
A quasi nove anni dalla “Rivoluzione dei Gelsomini” che ha portato alla caduta del regime di Ben Ali, la vita politica tunisina è ancora caratterizzata da instabilità interna.
La Tunisia ha sfruttato le proposte della rivoluzione per attuare riforme istituzionali importanti, come l’approvazione della nuova Costituzione e l’indizione delle elezioni legislative e presidenziali.
Un cambio epocale, ma che non è stato sufficiente al miglioramento delle condizioni economiche del Paese.
L’economia tunisina stenta a decollare, mentre i tentativi di riforme vengono neutralizzate dalla lottizzazione e da logiche clientelari, che alimentano i fenomeni di corruzione. Questa situazione presenta uno squilibrio tra le varie aree della Tunisia e l’incremento del turismo degli ultimi anni non ha migliorato le condizioni della cittadinanza, anzi sempre più tunisini lasciano il paese alimentando il fenomeno migratorio nelle acque mediterranee.
Infatti accanto al dossier libico i tre paesi si trovano a combattere con il traffico umano e la migrazione verso l’Europa. Questi tre paesi sono considerati diretti partner dei paesi europei nella gestione dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo, ma di fatto costituiscono realtà differenti tra di loro. Escludendo il caso libico, di zona di transito e di partenza, i tre paesi precedentemente analizzati hanno una funzione diversa nello sviluppo del fenomeno migratorio. La Tunisia è un paese di origine, mentre Marocco e Algeria si pongono come paesi di transito del flusso migratorio proveniente dalle aree sub sahariane.
Gran parte di questi movimenti umani sono causati da fattori permanenti che andrebbero considerati nelle politiche per fronteggiare quella che non è più una crisi, ma una situazione cronica. Se si tralasciano i flussi provenienti da zone sottoposte a protezione umanitaria come i rifugiati in fuga da conflitti locali – es. La guerra civile in Camerun tra fazioni francofone ed anglofone-i fattori principali che spingono le persone a lasciare i propri territori sono di natura socio-economica come la ricerca di miglioramento della propria condizione sociale, la mancanza di lavoro, le limitate prospettive di occupazione; di natura ambientale a causa degli effetti dei cambiamenti climatici. Solamente mettendo nell’agenda politica questi fattori si potrà gestire la sfida mediterranea dell’immigrazione.