«Era inevitabile» ha scritto Gabriel García Márquez in apertura di uno dei suoi romanzi più celebri, L’amore ai tempi del colera: «l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati». Inevitabile, ineluttabile come la stessa morte, il colera, le pandemie che ciclicamente si ripresentano al mondo con il loro carico di disgrazie, e le polemiche, che ancora inevitabilmente e in maniera sempre più convulsa accompagnano ogni fatto oggetto di notizia.
Quella dell’altro giorno racconta che ad oggi, tra Stati Uniti, Cina, Europa e India, sono in essere almeno 190 esperimenti di vaccino contro il Covid-19, tra cui 16 ormai abbondantemente avviati alla fase conclusiva, come quello dello Jenner Institute di Oxford. Una notizia che, a fronte delle centinaia di migliaia di morti, della recessione economica e delle limitazioni alla libertà, con cui gran parte del pianeta ha imparato a convivere a causa del coronavirus, dovrebbe quantomeno suscitare un motto di speranza, seppure ancora timido, in un futuro covid-free.
E invece, come era prevedibile, ed anzi inevitabile, l’annuncio di un nuovo antidoto ha soffiato sul solito – e mai sopito – braciere di polemiche e scetticismi che da diversi anni a questa parte interessa il tema dei vaccini, e che getta quesiti e ombre sulla loro stessa utilità e sui torbidi interessi delle case farmaceutiche riguardo alla loro commercializzazione. Scade infine sugli asseriti piani di controllo del pianeta da parte di Bill Gates, al quale – parafrasando Andreotti – guerre puniche a parte, è stato sino ad oggi attribuito di tutto.
Secondo una ricerca condotta dall’Università Cattolica, il 40% degli italiani valuterebbe la propria eventuale vaccinazione contro la sars-cov-2 come ”per niente probabile” oppure tra ”probabile e non probabile”; mentre un altro studio, questa volta della Johns Hopkins University, rivela come negli Stati Uniti un americano su tre non intenda sottoporsi alla vaccinazione contro il Covid-19. Sono percentuali che fanno emergere sostanzialmente due fenomeni: da una parte la profusa diffidenza nei riguardi della scienza e dall’altra l’avversione contro ogni atto d’imposizione da parte dello Stato.
Eppure quest’ultimo pare essersi riaffermato durante il periodo emergenziale quale unico referente e garante del diritto alla salute per l’opinione pubblica. Tale visione della sanità, pubblica, gratuita e universale, ha trovato rinforzo anche nel fallimento del “modello Lombardia”, divenuto – suo malgrado – l’emblema di una massiccia e inefficiente privatizzazione della sanità.
In questa cornice di ritrovata fiducia verso il Servizio Sanitario Nazionale, parrebbe quantomeno consequenziale ritenere che, al netto degli scetticismi più o meno fondati, la volontà degli italiani sia quella di rimettere nelle mani del Pubblico anche la predisposizione e la distribuzione di un eventuale vaccino anti-Covid19. Tuttavia, per rendere l’intento attuabile, e quindi il vaccino accessibile a tutti, è necessario scavalcare un ostacolo non indifferente: la normativa – nazionale e internazionale – in materia di proprietà intellettuale, con particolare riguardo alle invenzioni in campo farmaceutico.
Nel 1994 a Marrakech, l’Italia insieme ad altri 163 Paesi ha firmato il cosiddetto TRIPs, l’accordo che stabilisce i requisiti minimi in tema di protezione dei diritti di proprietà intellettuale. Il TRIPs definisce che cosa può essere oggetto di brevettazione, quali diritti sono ad esso correlati e quali le eccezioni autorizzate. Durante i negoziati è stato quindi stabilito che la durata minima di un brevetto, in ambito farmaceutico, è di vent’anni dalla data di deposito della domanda di brevettazione, cui ad oggi possono aggiungersi altri cinque anni, a titolo di protezione complementare. Una specifica richiamata anche dal Regolamento europeo del 2009 che permette di prolungare la durata di un brevetto per recuperare il tempo perso durante la procedura autorizzativa dell’immissione in commercio di un farmaco, che può richiedere anche diversi anni, andando quindi a ridurre drasticamente il tempo di effettivo sfruttamento dell’invenzione.
La funzione principale del brevetto è quella di garantire i diritti di esclusività su un prodotto all’inventore, attribuendogli – tra le altre – il potere di decidere dove commercializzarlo e a quale prezzo. Ma perché i diritti di proprietà intellettuale sono così fortemente tutelati in ambito farmacologico? Ebbene, secondo alcune statistiche, l’assenza di protezione brevettuale comporterebbe una riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo pari al 64% nel comparto farmaceutico, a fronte del solo 8% negli altri comparti. Il motivo principale di tanta differenza risiederebbe nell’esosità del “costo fisso”, ovvero nelle ingenti spese che il settore farmaceutico deve sostenere per la ricerca e gli impianti produttivi, nonché per le procedure di validazione e approvazione del farmaco; come contropartita dei costi così elevati, le aziende produttrici necessitano di essere confortate dalla certezza di profitti cospicui e distribuiti nel lungo periodo, per i quali valga dunque la pena di correre il rischio investendo sullo sviluppo e la produzione di un farmaco.
Non a caso il TRIPs venne ideato, nei primi anni ’90, in un momento in cui la ricerca farmacologica si era arenata, soprattutto a causa delle grandi differenze normative, tra uno Stato e l’altro, relativamente ai diritti di proprietà intellettuale. In buona sostanza, i Paesi occidentali erano già dotati di strumenti molto stringenti a tutela dei diritti di esclusività, mentre i Paesi in via di sviluppo e quelli del Terzo Mondo erano in gran parte sprovvisti di tali misure; il caso più eclatante è quello dell’India, che possedeva una fiorente industria di farmaci generici, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “farmacia del mondo”. Dal 1° gennaio del 2005 all’India è stato chiesto di istituire brevetti su tutti i prodotti farmaceutici, mentre fino a quel momento la sua legislazione nazionale prevedeva la brevettazione dei soli processi di elaborazione dei farmaci, e non invece dei prodotti finiti. Questo aveva permesso alla classe più povera di accedere a molti medicinali e, data la concorrenza dei farmaci generici (altrimenti definiti come “equivalenti”), aveva costretto i produttori di farmaci di marca ad abbassare drasticamente i propri prezzi sul mercato.
L’episodio dell’India non è passato inosservato ai media e all’opinione pubblica. Un editoriale del New York Times aveva apertamente insinuato che le regole imposte dal TRIPs avessero ben poco a che fare con il libero mercato e molto invece con le pressioni esercitate dalle grandi industrie farmaceutiche statunitensi ed europee al fine di ripristinare quanto prima il loro monopolio sul mercato e incrementare i propri profitti.
Mossi da questo scenario distopico e alla luce della pandemia da coronavirus, diverse personalità mondiali, alcune insignite del Premio Nobel, hanno da ultimo firmato l’appello di Oxfam con l’intento di «garantire un vaccino sicuro ed efficace, che venga prodotto rapidamente e reso disponibile in tutti i Paesi del mondo, gratuitamente. I governi più ricchi non possono lasciare il compito, imponente e morale, di salvare vite umane alle forze di mercato». A proposito di mercato, la Fondazione di Bill e Melinda Gates ha calcolato che per produrre e distribuire un vaccino efficace e sicuro per le persone più povere del mondo servirebbero orientativamente 25 miliardi di dollari, meno dei circa 30 miliardi di dollari che le dieci big dell’industria farmacologica hanno guadagnato in media in soli quattro mesi lo scorso anno, con profitti complessivi per 89 miliardi di dollari nel 2019.
L’obiettivo comune è pertanto quello di mettere da parte gli interessi economici – e più segnatamente quelli delle multinazionali del farmaco – per garantire a tutti, a prescindere dalle disponibilità economiche di ognuno, il diritto alla salute. Ciò che ancora non è dato sapere è invece il modo in cui le case farmaceutiche verranno indotte a rinunciare ai diritti di esclusiva su un vaccino così necessario, che, in quanto tale, potrebbe garantire introiti economici di portata irripetibile. Uno degli strumenti potenzialmente utilizzabili è quello della licenza obbligatoria, previsto dall’art. 31 del TRIPs e in parte recepito in Italia con l’art. 70 del Codice della Proprietà Industriale; in sintesi l’art. 31 stabilisce che, «ove sussistano le condizioni di assoluta emergenza, lo Stato può appropriarsi della titolarità di un bene oggetto di brevetto, anche senza il consenso del suo inventore». Si tratta di una sorta di espropriazione della titolarità del farmaco da parte dello Stato, che tuttavia sottostà a diverse condizioni. Lo stesso art. 31 precisa infatti, tra le altre, che l’uso del farmaco può essere consentito soltanto qualora lo Stato abbia precedentemente cercato invano di ottenere l’autorizzazione, da parte del titolare, secondo eque condizioni e modalità commerciali.
Un’altra opzione, forse più attuabile perché in grado di bilanciare meglio i diversi interessi in posta, potrebbe essere quella di forzare il produttore del vaccino a commercializzare lo stesso a un prezzo molto ridotto, dietro l’impegno – da parte dello Stato – di corrispondergli una parte del guadagno perso a causa del prezzo calmierato. Tuttavia, quest’ultima alternativa presenta due aspetti critici. Il primo riguarda la possibilità di attuarla nei Paesi in via di sviluppo, come ad esempio il Brasile martoriato dal coronavirus o, peggio, in quelli del Terzo Mondo, che certo non si possono permettere una spesa pubblica di tale portata. La seconda criticità, invece, riguarda la scelta del principio sotteso a questa alternativa, che è quello di equiparare, di porre sulla stessa bilancia, il diritto al profitto delle case farmaceutiche e quello alla salute del resto dell’umanità.
Pesa di più un chilo di piume o un chilo di ferro? Un chilo di diritti dei pochi o un chilo di diritti dei molti? La soluzione al quesito è: pesa di più la nostra coscienza, se non decidiamo quale piatto della bilancia riempire e in quale parte della storia sedere. Elementare, Watson!
Inevitabile, Gabo.