«Tanti muri, perché?». E le teste, allora, dove sbatterebbero?
Guido Ceronetti, Pensieri del tè
Parlare di street art è un campo minato. È una lama a doppio taglio che non permette vie d’uscita non solo per i cosiddetti street artist ma anche per curatori, galleristi e direttori di musei. Sorge innanzitutto il problema di definire il significato di street art, che è già di per sé un terreno accidentato: tutto quello che viene eseguito con una bomboletta su un muro è arte? Direi di no (anche se, per quanto mi riguarda, le scritte “lucifero culo” sui tram di Milano dovrebbero finire al MOMA come nota epigonale del postmodernismo).
La street art dovrebbe essere, secondo definizione, un tipo di arte spregiudicata, atta a veicolare un messaggio sociale o politico di rilevanza, eseguita per/da il popolo, lontana dalle dinamiche economico-finanziarie del mercato dell’arte. Uno strumento di denuncia che, come un funambolo, cammina su un filo teso tra l’artistico e il vandalico.
Un altro aspetto peculiare delle opere di street art è quella di non appartenere all’artista che le esegue, non solo da un punto di vista giuridico, ma anche deontologico. Se ci si pensa, il muro di un palazzo, di una strada, di un negozio, non sono di proprietà di chi ci disegna sopra. Il diritto di proprietà dell’opera decade mentre l’opera viene eseguita. In secondo luogo, anche da un punto di vista ideologico, l’arte di strada nasce come genius loci: un messaggio rivolto non al mondo, non alla collettività, ma ad una specifica comunità. Appartengono a quel condominio, a quel quartiere, a quel pezzo di mondo e alla sua storia.
Considerate queste premesse, com’è allora possibile che la street art sia musealizzata e venduta?
Banksy in questo è un vero maestro: si fa pagare tantissimo per combattere quelli che lo pagano. È il fantasista dei paraculi o, come direbbero in Bocconi, vuole cambiare il mercato dall’interno. Tra una piroetta e l’altra filosofeggia anche un po’ sullo stato dell’arte:
«L’arte che guardiamo è fatta da solo pochi eletti. Un piccolo gruppo crea, promuove, acquista, mostra e decide il successo dell’Arte. Solo poche centinaia di persone nel mondo hanno realmente voce in capitolo. Quando vai in una galleria d’arte sei semplicemente un turista che guarda la bacheca dei trofei di un ristretto numero di milionari»
È un bene che siano pochi, almeno possono stare tutti nella rubrica telefonica di Banksy.
Il difficile ruolo di mediazione di Banksy tra capitale e fantasia è iniziato con l’esplosione della street art nei primi anni 2000. A Partire dagli anni ‘10 questo tipo di arte è passata dall’essere considerata opera di vandali maleducati a un fenomeno artistico che guarda all’approccio seriale e serigrafico di Wharol e al metodo anni ‘80 e ‘90 di Haring, coniugando cultura pop e riferimenti più o meno dotti. Quest’arte viene ormai venduta a prezzi spropositati ed è entrata in pompa magna nei più grandi musei di arte contemporanea.
Una classifica stilata da ArtPrice, una delle maggiori piattaforme di quotazione d’arte, dimostra che su scala mondiale tra il luglio 2018 e il giugno 2019 gli artisti che hanno venduto più opere all’asta sono: Obey con 660 lotti, Kaws con 622, Banksy con 550 e Haring con 482. Sono tutti street artist. Questi dissidenti sono diventati i rolex del mondo dell’arte.
Del resto il mercato dell’arte e quello che è, non vale quindi la pena cacciar fuori la solita lacrimuccia crepuscolare. Quel che si vende si vende e, come disse bofonchiando il vecchio De Chirico, «Il pubblico non esiste» (tremolio di guanciotte) «Compra quello che qualcuno gli dice di comprare». Questo resterà sempre vero, ma mentre il fratello di Savinio pronunciava queste parole, le cose stavano già cambiando: il pubblico stava diventando il grande pubblico. Quell’élite borghese che coronava la propria elevazione sociale attraverso l’acquisizione di un’opera d’arte – «caro, quel Guttuso sarebbe bellissimo sopra il nostro sofà!» – è diventata una massa, una massa più povera e frenetica che posta, riposta, fotografa, filtra e ricomincia. Chi sono queste persone? Siamo noi. E se c’è una cosa che noi sappiamo di noi stessi è che noi non compriamo niente. Magari, in rarissimi casi, ci permettiamo qualche ninnolo seriale, un quadro di un amico, una pagina di un libro incorniciata, ma noi tutti, il pubblico, siamo fuori da quel tempio dorato dove l’élite (quella del sofà) sta lì a gingillarsi. Le generazioni digitali non si nutrono di oggetti, ma di icone. Icone spendibili e di rapido consumo.
Ed eccolo qui, il godimento che dà il paradosso! Quale arte è più materiale della street art? Se dovessimo comprare un muro dovremmo acquistare qualche tonnellata di malta, intonaco, foratini, magari anche i tubi del gas che scorrono come un apparato circolatorio all’interno del santo corpo della santissima vergine Maria con la sacrosanta pistoletta in mano. Questa granitica forma d’arte ha capito la nostra fame di icone e sta lì, bella sui muri, pronta per farsi fotografare, postare, e ripostare ad libitum. Mentre noi siamo preoccupati a scambiarci i fantasmi di queste icone impalpabili, che sono su un muro da qualche parte, nelle aste e nelle mostre rifilano a quelli dei sofà qualche serigrafia, qualche disegno, una maglietta, un quadro che si distrugge da solo o un pannello da concerto scarabocchiato dall’anonimo meno anonimo del secolo. Se il prezzo ci appare esorbitante è perché non ci rendiamo conto di stare lavorando tutti insieme per le case d’asta: un lavoro duro, che ci porta via giornate intere.
Il grande pubblico è lì che promuove e produce quelle icone. Lo fa per le case d’asta che hanno molto a cuore quel residuato bellico, quel pezzo di società che l’oggetto lo vuole, lo vuole attaccato, sopra al sofà.