Nel film Revolutionary road, ispirato dall’omonimo libro di Richard Yates, April (Kate Winslet) e Frank (Leonardo Di Caprio) sono una coppia devastata, in una smagliante America degli anni Cinquanta. April è madre e moglie, com’è giusto che sia, nuovamente incinta. Una famiglia nevrotica, quanto di più lontano dall’American dream. In un pranzo estremamente formale, di quelli a cui nessuno vorrebbe partecipare, il figlio dei vicini, mentalmente instabile, – “Non sta bene, non sta bene”, continua a ripetere la madre – vede il dolore e la violenza dietro quella coppietta apparentemente perfetta, vomita un fiume di parole tutte vere e conclude indicando il ventre di April: «Di una cosa sono contento. Sono contento di non essere quel bambino». Vittima del disamore, preannuncia lucidamente la tragedia che verrà.

Estratto dal film Revolutionary Road, di Sam Mendes, 2008

Lo scorso 10 giugno la giunta regionale dell’Umbria, guidata dalla presidente leghista Donatella Tesei, ha abrogato la delibera del 2018 che permetteva l’utilizzo della pillola abortiva RU486 in regime day hospital e con terapia domiciliare, introducendo l’obbligo di tre giorni di ricovero in ospedale. L’aborto farmacologico è normato dalla Legge 194, che prevede il ricovero ospedaliero, ma concede alle regioni la possibilità di organizzarsi in modo differente. La Lega sostiene che questa delibera protegga la salute della donna, ma da molte parti sembra un clamoroso passo indietro che rende il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) sempre più un percorso ad ostacoli. Il provvedimento risulta ancora più penalizzante considerando il particolare momento: l’emergenza Covid ha pesantemente complicato l’accesso all’IVG, tanto che la riflessione degli ultimi mesi andava proprio nella direzione opposta, cioè di facilitare la pratica dell’aborto farmacologico e incentivare la telemedicina, come accaduto in Francia e Gran Bretagna. Si riaccende il dibattito su una legge che continua a dividere.

Il Ministero della Salute ha depositato, lo scorso 9 giugno, la Relazione 2019 sull’Interruzione Volontaria di Gravidanza. Dal picco registrato nel 1982, il numero di aborti praticati in Italia è in costante diminuzione. Sulla riduzione ha inciso positivamente l’aumento dell’uso della contraccezione d’emergenza, come la pillola del giorno dopo e dei 5 giorni dopo. I dati quindi non sembrano supportare la paura che l’aborto legale venga utilizzato in massa come pratica contraccettiva. Emerge, inoltre, come un terzo delle IVG sia a carico delle donne straniere. L’aborto farmacologico risulta ancora poco praticato, solo il 20,8% delle IVG nel 2018. Dato di particolare interesse invece è l’aumento, lieve ma costante, degli obiettori di coscienza, in tutte le categorie sanitarie. Sono obiettori il 69% dei ginecologi, il 46,3% degli anestesisti e il 42,2% del personale non medico. Le percentuali più alte si confermano in Abruzzo, Molise, Basilicata e Sicilia. Nonostante il ministero della Salute definisca «più che adeguata» la copertura di centri che rendono possibile un IVG, realtà da sempre attente a queste problematiche, come il partito radicale, l’Associazione Luca Coscioni, l’Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto (AMICA), le reti Pro-Choice, lanciano un grido d’allarme: gli aborti clandestini in Italia continuano ad essere praticati, in numeri che possono oscillare tra i 12mila e i 13mila all’anno. Cifre fortemente sottostimate, dal momento che l’aborto clandestino è un reato, che quindi emerge solo nel caso in cui la donna abbia complicazioni che la costringano ad andare in pronto soccorso.

Adele Faccio ed Emma Bonino, attiviste del partito radicale ad una manifestazione Pro-Aborto. Il partito radicale negli anni ’70 utilizzò il metodo Karman per le interruzioni volontaria di donne anonime a Milano come azione forte per supportare l’autodeterminazione della donna. Il metodo Karman è una pratica abortiva che se eseguita igienicamente e con antibiotici ha pochissimi rischi, ad oggi autorizzata dall’OMS in quei paesi che non possano permettersi una IVG chirurgica.

La pratica clandestina coinvolge i soggetti meno protetti come le ragazze minorenni, per le quali è necessaria l’approvazione di tutti e due i genitori o in alternativa l’approvazione del giudice tutelare, attraverso una relazione dei servizi sociali; le donne da poco immigrate in Italia, che non hanno ancora familiarità con le procedure per accedere all’IVG, o quelle che vengono da paesi dove l’aborto non è legale, o che non hanno figure di riferimento in Italia che le possano orientare in questo percorso; donne sfruttate come prostitute; donne clandestine che non si rivolgono alle strutture mediche per paura di essere denunciate. Il problema è chiaramente non più sanitario ma sociale, un cerchio di marginalità e clandestinità che le istituzioni sembrano non voler vedere e che condanna le donne ad affidarsi alle proprie reti di comunità per risolvere il problema autonomamente. Non più solo sonde, ferri da calza e decotti di prezzemolo (tradizionali metodi abortivi, pericolosissimi e purtroppo tutt’oggi in uso): oggi la mammana si può limitare a fornire una pastiglia di Cytotec, farmaco usato contro l’ulcera gastrica, che contiene misoprostolo, sostanza capace di indurre il travaglio per espellere il feto. Acquistabile anche online senza ricetta.

Insomma, in Italia l’aborto è legale ma non sempre accessibile. Il taglio di risorse ai consultori, i cui servizi gratuiti sono stati drasticamente ridotti, ha ampliato le disuguaglianze nell’accesso alle cure, andando a colpire in particolare le giovani donne, i ceti meno abbienti, donne migranti e giovani coppie. In tempi recenti l’applicazione della legge 194 aveva seguito dei modelli virtuosi – ad esempio all’ospedale Mangiagalli di Milano, in cui la presenza di un ambulatorio dedicato alla 194 aveva creato dei gruppi di confronto tra donne che avevano eseguito una IVG. Questo sarebbe il ruolo dei consultori pubblici, che andrebbero implementati e non ostacolati (come troppo spesso accade) dalle politiche regionali. Di fronte alle carenze istituzionali, sono nati forum e pagine FacebookIVG, ho abortito e sto benissimo – per dare uno spazio alle donne dove condividere il proprio vissuto, ricevere ascolto o consigliarsi sugli ospedali a cui rivolgersi.
L’importanza di una rete a sostegno della donna è sempre stata al centro delle richieste femministe, a partire dai primi gruppi formatisi nelle università negli anni Settanta. In mancanza di testi di riferimento le donne si incontravano per discutere della loro femminilità e della salute riproduttiva femminile a partire da un libro, poi divenuto storico, “Noi e il nostro corpo”, edito in Italia per la prima volta nel 1974 da Feltrinelli.

Noi e il nostro corpo, scritto collettivamente dalla Boston Women’s Health Book Collective e pubblicato in Italia nel 1974 da Feltrinelli. Il primo libro rivolto alle donne in cui si affronta il tema della riproduzione e della contraccezione.

Ormai l’obiezione di coscienza non è limitata alle sole strutture cattoliche o a medici che esprimono un radicato credo religioso. Secondo l’articolo 9 della Legge 194 medici e personale sanitario possono astenersi soltanto da quelle attività strettamente e specificamente dirette a determinare l’interruzione di gravidanza. L’obiezione di coscienza non va applicata in caso di rischio di vita per la gestante, e dovrebbe – in teoria – garantire l’accesso all’aborto in ogni struttura pubblica. La realtà è un po’ più complicata: non esiste un tetto massimo di obiettori e, vista l’alta percentuale nazionale, (in alcune regioni i ginecologi obiettori sono la quasi totalità) si può parlare in molti casi di obiezione di struttura.

Abbiamo discusso il fenomeno dell’obiezione con due medici, che hanno diverse posizioni a riguardo. La ginecologa intervistata, contraria all’obiezione, sostiene che la «questione etica influenza in modo subliminale la questione di prestigio medico. Nessuno vuole occuparsi di 194, come se fosse disonorevole, un intervento non qualificante, dal punto di vista professionale sembra che non conti niente. In realtà – suggerisce – ha lo stesso valore scientifico di eseguire diagnosi ecografiche o stilare protocolli farmacologici. Ci si potrebbero far sopra dei lavori, ci si potrebbe confrontare con colleghi in altre parti del mondo ». Non si fa carriera facendo aborti. Ma non è solo questione di carriera: «Non dobbiamo dimenticare che fare la 194 interamente non è sopportabile a lungo», negli aborti terapeutici si ha a che fare con feti in sviluppo avanzato, che di fatto vanno eliminati. E’ una pratica molto pesante, sia dal punto di vista pratico che psicologico, «che lascia dei segni». Quei medici che non fanno obiezione e che mettono da parte la propria sensibilità, o la propria sofferenza, lo fanno per affermare il diritto della donna a scegliere cosa fare della propria vita e del proprio corpo.

Il medico obiettore che abbiamo intervistato la pensa diversamente: «parlando di diritti: la donna ha possibilità di scelta, ma c’è anche un diritto alla vita. Il diritto a vivere è incommensurabilmente superiore a tutto il resto. I due diritti cozzano, bisogna fare una scelta. Il diritto alla vita è alla base di qualsiasi diritto umano.» Per questo principio l’aborto è pensabile solo di fronte a un serio pericolo di vita per la donna, come nel caso di una gravidanza extra uterina. Alla domanda su come vedesse il fatto che il negare la prestazione medica a una donna che ha scelto di abortire possa implicare un ricorso a pratiche illegali, pericolose per la vita della donna stessa, dice: « Io, come persona dotata di coscienza, non partecipo a un male. Non si tratta solo di accettazione passiva del dettato della Chiesa ma « è una questione di etica e di morale, di ciò che è bene e ciò che è giusto, al di fuori dall’ideologia, si sta parlando di umanità».

Manifestazione a Perugia il 21/06/2020 contro la decisione della giunta dell’Umbria di abrogare l’aborto farmacologico in regime day hospital. © Pro-choice

Può sembrare strano che una personalità come Pier Paolo Pasolini, negli anni in cui infuriava in Italia il dibattito sulla legalizzazione, fosse assolutamente contrario all’aborto. Ancora più curioso è vedere Pasolini citato in siti ultra cattolici. Nel suo famoso articolo, pubblicato dal Corriere della Sera il 17 gennaio 1975 e in seguito raccolto negli Scritti corsari, Pasolini mette in relazione la legalizzazione dell’aborto con la società dei consumi, che è il suo vero bersaglio polemico:

L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli. Ma questa libertà del coito della “coppia” così com’è concepita dalla “maggioranza” – questa meravigliosa permissività nei suoi riguardi – da chi è stata tacitamente voluta, tacitamente promulgata e tacitamente fatta entrare, in modo ormai irreversibile, nelle abitudini? Dal potere dei consumi, dal nuovo fascismo. Esso si è impadronito delle esigenze di libertà, diciamo così, liberali e progressiste e, facendole sue, ha cambiato la loro natura. Oggi la libertà sessuale della maggioranza è in realtà una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore

Pochi anni più tardi, in seguito al referendum del 1981 per abrogare la legge del 1978 che legalizzava l’aborto, sempre sul Corriere della Sera, scrive Giovanni Testori, altro grande castigatore dell’edonismo dei consumi:

Quella del diritto alla vita è la verità prima e suprema, la verità di base che precede ogni umano atto e processo e che, anzi, tutti li ingloba e li rende possibili. Quale società del benessere o del consumismo può nascere dalle fondamenta di vite uccise, strozzate, spezzate, assassinate? Tutto questo ha il ghigno sinistro di chi chiama non vita, non benessere, ma maledizione e morte

La società dei consumi produce modelli di morte, è la tesi di Testori. Il mercato, la cosa, sono il centro di tutto, non l’uomo, non la vita. Pasolini e Testori riflettevano in anni di veloci cambiamenti sociali. Sensibili ai temi dell’umano, rilevavano come l’ormai imperante società dei consumi si stesse appropriando di ogni aspetto dell’individuo e del sociale. Le battaglie per i diritti degli anni Settanta sono state interpretate in questo senso, come libertà fasulle che miravano a sottomettere l’individuo all’unico imperativo del mercato. L’orizzonte oggi non è sostanzialmente cambiato, tuttavia questi temi, a quarant’anni di distanza, richiedono una diversa contestualizzazione.

La principale motivazione per l’obiezione di coscienza è affermare il diritto alla vita. Ma possiamo davvero dire che la nostra società, le nostre istituzioni si facciano carico di tutelare la vita? Possiamo dire che le politiche per le famiglia, per le ragazze madri, per le giovani coppie – e di seguito a cascata per la scuola, per i lavoratori, tutelino la vita?
La politica tutela la vita come bios, come semplice esistenza biologica, come nuda vita. L’antropologo francese Didier Fassin mostra come, negli ultimi decenni, la vita biologica abbia preso un assoluto sopravvento gerarchico su quella biografica, cioè sulla dimensione dell’uomo come soggetto politico. Il grande valore che la nostra società attribuisce alla vita in astratto, non corrisponde con come ci si rapporta alle vite umane come singole realtà concrete. Se sul piano morale non si può che riconoscere la tutela della vita sopra ogni cosa, a questo assunto dovrebbe corrispondere una cultura della vita, una politica della vita, una cura della vita. Qui casca l’asino. In una società dove le diseguaglianze sono sempre più profonde, di che tutela della vita possiamo parlare? Allo stato attuale, la tutela della vita ricade unicamente sul corpo della donna, biologizzato e ridotto a cosa.

Autodeterminazione della donna e tutela della vita non si contraddicono in assoluto. Si trovano ad essere in conflitto in una società che ProLife non lo è per niente, non perché ha legalizzato l’aborto ma perché non conosce la cura dell’essere umano. Il dibattito quindi si apre ben al di là del tema dell’aborto, riguarda come la nostra società, le nostre istituzioni si rapportano al soggetto, nella sua concretezza assolutamente singolare (che differisce dall’individuo, figura astratta della singolarità). Se i principi morali son quadrati e assoluti, le storie singolari mostrano la complessità sfumata del reale dove non c’è giusto o sbagliato, ma dolore e umanità che rendono impossibile un giudizio dall’alto. Guardando Revolutionary Road non riusciamo a dire dove stia la giustizia, quale vita sia giusto preservare. Come in ogni momento, insomma, qui sulla terra, tra noi mortali.