A cura di Simone Setzi e Giacomo Somazzi
Prologo
Film cult delle generazioni nate e cresciute negli anni ’90, La Haine (Kassovitz, 1995) racconta un giorno nella vita di tre amici che abitano nelle banlieue di Parigi: Hubert, Saïd e Vinz. La vicenda si apre con delle violente proteste contro la polizia a causa del pestaggio di un ragazzo, ridotto in fin di vita. Vinz, impulsivo e testardo, trova una pistola perduta da un agente durante gli scontri e promette vendetta se il giovane dovesse morire. Saïd e Hubert cercano di farlo ragionare, mentre vagano per una Parigi senza speranza. La loro condizione non permette alcuna velleità di rivalsa: è il ciclo dei vinti, di chi ha voce ma non ha il permesso di gridare. Ai tre è destinato un crudele epilogo. In questa breve analisi si cercheranno di definire le tematiche e le caratteristiche principali del film, attraverso lo studio di una singola inquadratura. Il piano sequenza preso in considerazione vede il DJ di origine marocchina Cut Killer suonare la celebre Nique la Police (Fanculo la Polizia) dalla finestra. La macchina da presa è magicamente sospesa davanti a lui prima di iniziare a muoversi tra i palazzi, per poi librarsi verso il cielo. Il mistero su come la scena sia stata girata è tornato recentemente ad essere motivo di discussione in un’intervista di Antonio Distefano a Fabri Fibra e Marracash, rimanendo però irrisolto. (https://www.youtube.com/watch?v=HKbJSp-gF0E&feature=youtu.be&t=1067)
Analisi_B&N
Il primo elemento che si nota è il bianco e nero (d’ora in poi B&N). Nonostante il film sia stato impressionato su pellicola a colori per volontà dei produttori, che desideravano una versione più commestibile per la TV, il regista era determinato a proiettarlo in B&N e convinse tutti grazie al successo riscosso al festival di Cannes. E’ stata dunque una scelta consapevole, fortemente voluta da Kassovitz. In primo luogo, come lui stesso afferma, ha voluto stabilire una continuità tra il reportage di guerra e le sommosse nelle periferie. Non è un caso infatti che il film si apra con materiale d’archivio. Secondariamente per ragioni di location: le riprese si sono tenute nei sobborghi di una città vera e propria (Chanteloup-les-Vignes) e non sarebbe potuto esserci un controllo totale sui colori che entravano nell’inquadratura. Il B&N esprime al meglio la miseria della periferia, intesa non solo come paesaggio inospitale, ma come spazio di faticosa sopravvivenza. Un luogo marginale, trascurato dalle istituzioni, senza alcuna opportunità di cambiamento: è il punto di vista dei protagonisti, come di tutti gli abitanti del quartiere, di fronte ai quali vi è solo una quotidianità pallida e incolore. Se da un lato però la scelta restituisce una sensazione di disagio, dall’altro stilizza il film, lo allontana dal realismo, trascina lo spettatore al di fuori dello schermo rendendo visibile l’artificio e lo costringe a ripensare il rapporto con ciò che viene mostrato. Lo scarto tra rappresentazione e fruizione, che alcuni film cercano di annullare, sembra volto a provocare il pubblico, a chiedergli se le cose non possano o debbano cambiare. Le banlieue de La Haine rappresentano le periferie del mondo, come i ragazzi e le violenze che subiscono, endemiche e costitutive del sistema in cui vivono.
Analisi_Movimento
La seconda caratteristica dell’inquadratura è il movimento. Vista l’unicità di questa ripresa e il fatto che non si trovino documenti che ne spieghino la realizzazione, abbiamo deciso di rivolgerci direttamente all’ideatore del sistema che ha permesso al regista di volare sopra i blocchi abitativi: Emmanuel Prévinaire, inventore belga del sistema Flying-Cam (1988), antenato dei moderni droni. Si tratta di un elicottero in miniatura con posizionata una macchina da presa, capace di percorrere spazi stretti e angusti anche a grande velocità. Per La Haine è stata usata la Flying-Cam II, secondo modello della linea e unico in grado di ottenere il risultato desiderato grazie all’allora inedita possibilità di eseguire sia un tilt di 90° verso l’alto sia di 90° verso il basso tramite controllo remoto. Ciononostante, a causa del peso eccessivo, non era possibile montare sulla Flying-Cam una regolare macchina da presa da 35mm, con cui era stato girato il resto del film. Si optò dunque per una macchina più piccola e leggera: la Bolex EBM Super 16, equipaggiata solo con una lente a focale fissa Kern Paillard e un magazzino interno che poteva ospitare un massimo di 30 metri di pellicola. Inoltre sulla lente vi era montato un motore per regolare da remoto il diaframma, nell’eventualità di un drastico cambio della luce. La Flying-Cam aveva una piccola videocamera con trasmettitore per consentire all’operatore di ripresa di comporre correttamente l’inquadratura, la Bolex, con un radiocomando per avviare la registrazione. Il fuoco della lente era impostato sull’iperfocale, configurazione che permette di mantenere nitidi i soggetti partendo da una distanza minima fino all’infinito, così da non doversi preoccupare di correggere il fuoco a seconda degli spostamenti della macchina da presa.
Il piano sequenza comincia davanti alla finestra del DJ e in pochi secondi si muove verso il parco mentre esegue un tilt verso il basso. In questo momento la macchina da presa è quasi perpendicolare al terreno. Poi, arrivata di fronte a delle auto parcheggiate, esegue un tilt verso l’alto e ritrae gli edifici che fanno da quinta. Quando le ultime figure escono dall’inquadratura rimangono solo le architetture, mentre la macchina da presa continua a prendere quota. Alla fine del movimento si scorgono i tetti e il resto del quartiere, che si estende fin dove l’occhio può vedere. Si assiste dunque a uno spostamento dal basso verso l’alto, in cui i personaggi sono filmati da una prospettiva zenitale, schiacciati al suolo. Sono ripresi in ombra o in silhouette, in modo da annullare qualsiasi caratteristica: divengono simboli di una situazione universale, destinati a rimanere per sempre nel quartiere in cui nascono, tra pareti di calcestruzzo armato. Soltanto la camera riesce a staccarsi dal suolo, e con lei la musica, l’arte, espressioni libere di una cultura non legittimata. Non è permesso ai corpi fisici e alla volontà individuale di ambire a un’ascesa, ma solo di immaginarla o sognarla. A tal proposito, è interessante notare come l’apparente impossibilità tecnica del volo della macchina da presa rispecchi l’impossibilità reale di una trasformazione. Nel film l’artificio è attuabile, ma porta lo spettatore a domandarsi come sia stato realizzato e di riflesso a domandarsi se sia veramente possibile fuggire da una banlieue.
Analisi_Slow-motion
Il terzo punto riguarda l’uso dello slow-motion. Questo effetto si ottiene aumentando il numero di fotogrammi impressionati per secondo, in modo che una volta riprodotti alla velocità del resto del film l’inquadratura risulti rallentata (se per esempio un film fosse girato a 25fps, 1 secondo corrisponderebbe a 25 fotogrammi, quindi aumentando a 50fps si otterrebbero 2 secondi invece che uno solo, col conseguente risultato di rallentare l’azione). Tutto il piano sequenza è girato in slow-motion a 50fps, il massimo consentito dalla Bolex EBM Super 16. Dato che il magazzino della Bolex era di soli 30 metri, il tempo a disposizione per la ripresa prima che si esaurisse la pellicola era di circa 1 minuto e 20 secondi, un ulteriore ostacolo alla realizzazione. Infatti, non solo il pilota doveva manovrare la Flying-Cam II non potendo vedere in tempo reale quello che registrava la macchina da presa, ma doveva anche fare in modo che il movimento fosse completato in meno di 1 minuto e 20 secondi. L’abilità della la troupe ha permesso che l’inquadratura sia stata realizzata in soli 25 secondi e con un’esecuzione molto precisa, nonostante il vento che soffiava tra gli edifici. L’uso dello slow-motion accentua il carattere allegorico della vicenda. I personaggi, resi bidimensionali dall’angolo di ripresa e dalla luce, sono ulteriormente stilizzati dalla dilatazione temporale dei loro movimenti: non sono rappresentanti in maniera realistica, ma sono icone, bloccate nell’eterno perpetuarsi della vicenda.
Epilogo
La Haine nasce da un fatto di cronaca, l’omicidio di Makomé M’Bowolé un ragazzo di diciassette anni arrestato per furto di sigarette e ucciso mentre era sotto la custodia della polizia, con un colpo di pistola alla testa il 6 aprile 1993. L’omicida, l’ispettore Pascal Compain, fu condannato a otto anni di reclusione. Dopo questo episodio, l’ultimo di una lunga serie, seguirono tre giorni di proteste e scontri. Stando alle parole del regista Mathieu Kassovitz, a commento della repressione del 2005 nelle banlieue parigine ad opera dell’allora ministro dell’interno Nicolas Sarkozy, “[…] se oggi le periferie stanno esplodendo ancora una volta, non è dovuto al fatto che intere generazioni di ‘immigrati’ sono stufe delle condizioni di vita con cui devono combattere ogni giorno. Queste auto che bruciano sono [una diretta conseguenza della] mancanza di rispetto che il ministro dell’interno ha mostrato verso la loro comunità. A Sarkozy non piace questa comunità. Vuole liberarsi di questi ‘teppisti’ con gli idranti […] La risposta è nelle strade. Tolleranza zero funziona in entrambi i sensi. È intollerabile che un politico possa permettersi di far esplodere una situazione resa instabile da anni di ignoranza e ingiustizia, e minacciare apertamente un’intera parte della popolazione francese. Agendo come un guerrafondaio, ha aperto una voragine che spero lo inghiotta. L’odio ha richiamato odio per secoli e ancora Sarkozy pensa che la repressione sia l’unico modo per prevenire una rivolta. La storia ci ha mostrato che la mancanza di apertura tra comunità diverse genera odio e scontri. Grida e rabbia sono gli unici mezzi per molte comunità per farsi sentire […]”. Le riflessioni e il film risultano quanto mai attuali. Dopotutto sembra che si stia continuando a cadere: “Jusqu’ici tout va bien […]”.