Guarda che io sto aspettando Pierino Prati il calciatore, mica il cantante! Questo rimandalo da dove è venuto!
Nereo Rocco, il giorno del 1967 in cui gli presentarono Pierino “la Peste”
Prima Anastasi, poi nel giro di tre giorni Corso e Prati, il 2020 si è preso gli attaccanti anni Sessanta-Settanta di Juventus, Inter e Milan.
Un tridente quasi certamente impensabile per i dettami tattici dell’epoca, non certo per le fantasie di una generazione, quella a cavallo tra il boom economico e le contestazioni dell’autunno caldo, che li ha appesi in cameretta, ascoltati in radio ed emulati in strada.
Sono gli anni delle Luci a San Siro dell’interista Vecchioni, di Canzonissima della juventina Carrà e di Vincenzina e la fabbrica del milanista Jannaci.
Petruzzu, Mariolino e Pierino – contrariamente a quanto pensano in molti era il suo nome vero, non un vezzeggiativo – sono state icone, diverse e complementari, tre poster di un periodo romantico e turbolento del nostro paese e del nostro pallone.
Si è spento a 71 anni Pietro Anastasi, un simbolo non soltanto della Juventus e del calcio italiano ma di un intero paese. Non se n’è andato soltanto un calciatore ma anche la stagione della storia italiana che il numero 9 ha rappresentato. Le otto stagioni alla Juventus di Pietruzzu ‘u turcu da Catania non rientrano soltanto nell’ambito calcistico, ma hanno segnato un fatto sociale e di costume. È stato l’emblema delle migliaia di operai meridionali emigrati nelle fabbriche del nord. Negli anni ’70 l’operaio terùn poteva per un attimo dimenticare la vita agra della catena di montaggio grazie alla Goeba, la Juventus dei piemontesi Catella, Boniperti e Agnelli ma anche del sardo Cuccureddu, del siciliano di sagnue Furino del pugliese Causio e di Pietruzzu al centro dell’attacco.
L’avventura in bianconero di Anastasi inizia quasi per caso, perché il direttore sportivo del Varese perde l’aereo per lasciare posto a una donna incinta, si ferma in Sicilia e lo vede in azione. Passa così dalla serie D con la Massimiana – la squadra dei Massimino, la dinastia dei patron del Catania – alla serie B in Lombardia. A Varese l’esplosione è fulminante, subito in B e l’anno dopo (il 1967) in A.
“Questo ragazzo sarà nostro”, disse Gianni Agnelli, dopo averlo visto travolgere la Juventus nel giorno del miracolo di Masnago, quando il neopromosso Varese stende 5 a 0 la Vecchia Signora, anche grazie a Petruzzu che mette a segno una tripletta contro la squadra del cuore: nel portafoglio aveva sempre una foto di lui raccattapalle a Catania con Charles.
A Torino diventa una leggenda, con gli occhi neri come il carbone, che gli avevano fatto trovare la donna della sua vita a Varese e con quella capacità di dare tutto per la maglia. In otto stagioni mette a segno oltre 130 reti, vince tre scudetti e riempie di orgoglio la sua gente: “Mi chiamano terrone? Bene. Sono fiero di esserlo”. Anastasi a Torino è un idolo al punto che un giorno i tifosi gli fanno una sorpresa, con uno striscione: «Anastasi, Pelé bianco». Peccato che lui il brasiliano non riesca a incrociarlo.
Per uno scherzo non del destino ma di un incauto massaggiatore che per gioco gli diede un buffetto nelle parti basse, Anastasi non poté partecipare al Mondiale di Messico ’70, quello della partita del secolo Italia-Germani 4-3 e terminato col secondo posto contro il Brasile del vero Pelè. In azzurro ha comunque lasciato il segno, siglando il primo gol della ripetizione della finale dell’Europeo casalingo del 1968. L’Italia è campione d’Europa anche grazie ad Anastasi, il numero 9 spalla ideale di Gigi Riva.
Col suo passo leggero, quasi pigro, ha abbandonato l’ospedale in cui era ricoverato da alcuni giorni, per raggiungere Sarti, Picchi, Facchetti, Peirò, Tagnin, Milani, Landini. Si allunga la lista dei giocatori di quella Grande Inter che ha caratterizzato gli anni Sessanta con i suoi successi in Italia, in Europa e in Sudamerica. Mario – per tutti “Mariolino” – Corso non è più tra noi, resteranno per sempre le sue punizioni impossibili, i suoi gol da urlo, i suoi lanci illuminanti.
Era la stella più luminosa del firmamento nerazzurro, il giocatore più dotato dello squadrone di campioni che era la grande Inter. Mario era il “mancino di Dio”. Lo disse Gyula Mándi, commissario tecnico della nazionale israeliana, dopo avere perso contro l’Italia: “Siamo stati bravi, ma ci ha battuti il piede sinistro di Dio”. Quel suo piede mancino riusciva a disegnare traiettorie magiche, le “foglie morte”. Sulle punizioni che planavano in porta lasciando di stucco i portieri e sui suggerimenti ai compagni, spesso geniali: un’ala d’attacco che preferiva l’assist alla conclusione personale.
Trequartista, prima che il termine esistesse, Corso fu definito da Gianni Brera con un gioco di parole “il participio passato del verbo correre”. Corso, da vero artista, era soggetto a improvvise “sparizioni” dal campo: si isolava sulla fascia e si estraniava dal gioco per diversi minuti. Salvo riaccendersi all’improvviso. E in quel momento ti creava la giocata decisiva. Edmondo Berselli di lui ha scritto: “Una sola figura si esime dalla regola: è l’uomo in più, il fantasista dal tocco magico, il primo violino che suona una melodia tutta sua mentre l’orchestra segue disciplinatamente lo spartito. È un individuo che lotta contro l’omologazione, un allevatore di lucciole”.
Era un giocatore atipico e con la Nazionale non ebbe molta fortuna, proprio perché non tutti erano disposti a correre per lui. Perciò niente Mondiali o Europei con la maglia azzurra: un vero insulto alla tecnica calcistica. È nell’immortale Inter di Helenio Herrera e di Moratti che si ritaglia un ruolo centrale: vince due Coppe Campioni, due Coppe Intercontinentali e tre scudetti ravvicinati, più quello del ‘71 che lo vede ancora tra i protagonisti, più due persi in modo rocambolesco (spareggio col Bologna e Mantova) insieme con la terza finale di Coppa Campioni “regalata” agli scozzesi del Celtic Glasgow. Sedici stagioni in nerazzurro e la chiusura di carriera nel Genoa. All’Inter è tornato anche come allenatore, per una stagione appena, nel 1985-1986. Ha allenato a Napoli per quattro stagioni, riuscendo a trasmettere ai Primavera la sua tecnica raffinata, ed è stato opinionista televisivo. Se n’è andato a 78 anni, ma per tutti Mariolino Corso rimarrà un mito del football romantico, un lampo accecante, la “foglia morta” che riempiva gli spalti di calore e colori.
A pochi giorni dalla scomparsa dell’interista Mario Corso, anche l’altra metà di Milano, la sponda rossonera del naviglio, viene privata di un eroe del passato: Pierino Prati. Molti lo chiamavano Pierino pensando fosse un vezzeggiativo, una reverenza nei suoi confronti, in realtà era proprio il suo nome. Prati nasce il 13 dicembre 1946 a Cinisello Balsamo, città dell’hinterland milanese che insieme ad altre, nel dopoguerra, era considerata semplicemente uno dei dormitori per i lavoratori che si recavano a Milano. All’età di 11 anni, spinto da un paio di amici che che già giocano nelle giovanili del Milan, prende la bicicletta e va a fare un provino al campetto di Cimiano, dove si allenano i giovani aspiranti campioni. Nils Liedholm, che a quei tempi si occupa del settore giovanile. lo fa esordire 3 giorni dopo a San Siro. Già, perché per molti anni, prima di una partita di Serie A, si esibivano i ragazzi delle giovanili. Segna 7 reti al debutto e da quel momento Liedholm sarà il suo padre calcistico, come dichiarerà anni dopo.
Tra il ’65 e il ’67 girovaga tra Milan, Salernitana e Savona, ma è nella stagione 1967/68 che avviene la svolta. Gioca la partita di ritorno del primo turno di Coppa delle Coppe, tra Milan e Levski Sofia, sbaglia 3 gol clamorosi e Nereo Rocco, furente, lo lascia in panchina per le otto partite successive. Ma quando il Paròn gli concede una seconda possibilità, Pierino non la fallisce. Nel corso di quella stagione diventa l’attaccante titolare del Milan, vince la classifica cannonieri, permettendo così ai rossoneri di vincere Scudetto e Coppa delle Coppe. Non solo, in quello stesso 1968 debutta in maglia azzurra, risultando decisivo nei quarti di finale dell’Europeo che l’Italia farà suo. Prende parte anche alla spedizione della Nazionale a Mexico 70, ma non calcherà mai il terreno di gioco. Racconterà più volte, tra il serio e il faceto, che prima della finale contro il Brasile chiese ripetutamente a Valcareggi di farlo giocare, in quanto aveva vinto tutte le finali che aveva giocato fino a quel momento con la maglia del Milan, sostenendo di essere un porta fortuna.
In quegli anni lui e Gianni Rivera formano il duo che i giornalisti battezzano “Il braccio e la mente”. Perché se “Gianni illumina, Pierino fulmina”. Più prosaicamente, per i tifosi è “Pierino la peste“. Al Milan resta fino al 1973, l’anno della “fatal Verona”, quando i rossoneri perdono il campionato all’ultima giornata, proprio a causa di una sconfitta contro gli scaligeri. Passa alla Roma e vi resta per 4 stagioni. Come dirà lui stesso, se il Milan è stata sua moglie, Roma sarà la sua amante. In rossonero colleziona 209 presenze 102 gol, vincendo uno Scudetto, 2 Coppe Italia, 2 Coppe delle Coppe, una Coppa Intercontinentale e una Coppa dei Campioni.
Soprattutto, la Coppa dei Campioni. Quella del 1969. La partita che lo ha reso celebre al mondo. Il Milan quel giorno affronta un fortissimo ma ancora acerbo Ajax, che tra le sue fila annovera un giovane Johan Cruijff. È la squadra che avrebbe cambiato il calcio negli anni ’70, ma in quel 1969 c’è troppo Milan per quei giovanotti di belle speranze. In quel di Madrid, i rossoneri schiantano i lancieri, battendoli per 4-1. E ben 3 dei 4 gol del Milan li sigla proprio Pierino Prati. Dirà alcuni anni dopo: «Quando colpii il palo, dopo pochi minuti dal fischio d’inizio, temevo potesse essere una serata storta». Prati, nella storia della Coppa dei Campioni-Champions League, diventa il terzo giocatore, nonché l’ultimo fino a oggi, a realizzare una tripletta nella finale del massimo trofeo continentale per club. Oltre a lui vi riuscirono due leggende assolute del calcio mondiale come Puskas e Di Stefano.