Nel suo libro “The Arab winter. A Tragedy”, Noah Feldman, noto professore di Harvard, analizza le dinamiche che sono alla base dello scoppio delle Primavere arabe nel 2011 e le conseguenze che queste hanno avuto sui paesi interessati. Il titolo, già di per sé, suggerisce una lettura totalmente fallimentare dei movimenti di protesta. Le ragioni del fallimento risalgono ad una molteplicità di fattori quali la debolezza della classe media e della società civile e il fallimento dell’Islam politico.
Adottando un punto di vista controrivoluzionario, l’autore prova a dimostrare come le proteste scoppiate nei vari paesi arabi – quasi dieci anni fa – abbiano nel medio termine portato a un peggioramento delle condizioni di vita. Nonostante la creazione per la prima volta nella storia di veri e propri movimenti di protesta con la partecipazione di ampie fasce della popolazione, il tentativo di determinare dal basso le sorti dei propri paesi sembra essersi concluso in tragedia. L’unica eccezione positiva, a detta dell’autore, è la Tunisia: uno dei paesi “meno complessi” della regione, perché fondamentalmente privo di risorse energetiche e perché al suo interno non esiste una solida minoranza etnica o religiosa.
Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām, “il popolo vuole la caduta del regime”. E’ questo lo slogan che ha unito tra di loro le principali piazze dei paesi arabi, dalla Tunisia al Bahrein, passando per la Libia, per la Siria e, appunto, per l’Egitto. Durante le proteste di Piazza Tahrir del 2011, proprio questo è stato lo slogan più utilizzato, scandito a gran voce dai manifestanti e comparso sotto forma di graffiti sui muri del Cairo.
Il primo paese ad assistere allo scoppio delle proteste fu proprio la Tunisia, nel dicembre del 2010. La popolazione insorse dopo la morte di un giovane che si era dato fuoco per protestare contro il sequestro del carretto che usava per vendere frutta e verdura.
L’inizio delle proteste, in Egitto, avvenne negli ultimi giorni di gennaio del 2011. I motivi alla base della nascita nel movimento furono, dapprima, riconducibili alla fame della popolazione: più che per pretendere maggiori libertà e maggiore democrazia, la popolazione scese in piazza per chiedere il pane.
Si ebbe un forte divario tra aree urbane e rurali, e furono soprattutto gli abitanti delle prime a gonfiare le file dei manifestanti. I giovani ebbero un ruolo centrale nelle proteste, e alla richiesta di maggiore assistenza economica e alimentare si accompagnò così in un secondo momento la domanda di libertà di stampa, libertà di espressione e giustizia.
Ciò che determinò l’iniziale successo delle proteste, e portò alla caduta del regime di Mubarak (che era giunto al potere nel 1981, trent’anni prima) fu la presa di posizione dell’esercito, che di fatto a partire da un certo momento garantì il proprio sostegno alla causa dei manifestanti determinando uno spostamento degli equilibri delle forze in campo in favore di questi ultimi.
E fu proprio l’esercito il protagonista indiscusso delle fasi successive alla caduta di Mubarak. Le prime libere elezioni dell’Egitto videro la vittoria del Partito Libertà e Giustizia, diretta espressione della Fratellanza Musulmana. Va però sottolineato come i principali gruppi giovanili, che si era consolidati e organizzati nel corso delle proteste anche grazie all’utilizzo dei social network, non riuscirono a organizzarsi come partito e a presentarsi alle urne, favorendo la vittoria elettorale dell’Jamaʿat al-Iḫwān al-muslimīn.
Al potere si instaurò la figura di Mohammed Morsi, personaggio dal carisma debole e che non si dimostrò in grado di affrontare le sfide economiche del paese. Uno degli errori della Fratellanza musulmana fu, senza dubbio, il tentativo di provare a tenere per sé l’intera posta in gioco e non provare, piuttosto, a cercare un accordo con le parti e i settori laici dello stato che avrebbero potuto legittimare l’arrivo al potere dell’Islam politico. L’adozione di una nuova costituzione fortemente sbilanciata su posizioni islamiste portò alla rottura con l’esercito, e, nell’estate del 2013, a nuove enormi manifestazioni e a un colpo di Stato con cui Morsi venne destituito e arrestato e la Fratellanza Musulmana messa nuovamente fuori legge.
La successiva salita al potere del generale Abdel Fattah al Sisi segna l’inizio di una nuova era, anche se, per certi versi, la figura di Al Sisi si pone in continuità nella storia dell’Egitto: tutti i presidenti egiziani, a partire da Nasser e passando per Sadat e Mubarak, infatti, sono esponenti dei quadri militari.
Fin dal suo arrivo al potere il nuovo presidente egiziano, dopo aver legittimato la propria posizione con una tornata elettorale nel 2014 (un plebiscito con affluenza bassissima), ha cercato di imprimere una svolta autoritaria all’ordinamento egiziano. Da un lato, dunque, si ha la crescente importanza assunta dall’esercito, i cui poteri sono stati ampliati attraverso un referendum che ha aumentato l’importanza delle corti militari a discapito di quelle civili. L’esercito egiziano rappresenta un importante attore economico nel paese, ha importanti interessi da difendere e costituisce senza dubbio un fattore di stabilità che favorisce la lunga durata dei regimi autoritari che si susseguono tra di loro nel paese. Dall’altro lato si ha la continua restrizione delle libertà civili, con migliaia di arresti arbitrari e un continuo logoramento della libertà di espressione e di protesta, oltre a un sempre maggiore controllo sulla stampa.
Dal punto di vista della politica estera, invece, il progetto di Al Sisi è quello di riportare l’Egitto ad un ruolo di maggiore centralità nella regione. L’obiettivo di ridare lustro all’Egitto come attore pivotale nella regione viene perseguito in vari modi e con una strategia complessa. Storicamente l’Egitto ha oscillato tra le aree di influenza del mondo bipolare della Guerra Fredda, passando dall’essere vicino all’area influenza sovietica sotto la presidenza di Nasser, con l’acquisto di armi da parte della Cecoslovacchia nonostante la contestuale partecipazione alla conferenza di Bandung dei paesi non allineati, al successivo spostamento nell’orbita statunitense con la firma degli accordi di Camp David del 1978, l’avvio delle relazioni diplomatiche con Israele e la “pace fredda” tra i due paesi.
In tempi più recenti, sotto la presidenza di Barack Obama si assistite ad un raffreddamento delle relazioni tra USA e Egitto, mentre con l’arrivo di Donald Trump alla casa Bianca le relazioni tra i due paesi sembrano aver ricevuto nuova linfa. Trump vede nell’Egitto un baluardo regionale nella lotta al terrorismo, e, nell’ottica del progressivo disimpegno americano, un possibile proxy della presenza americana in Medio Oriente.
A differenza dei suoi predecessori, tuttavia, ciò che sembra caratterizzare la politica estera del generale al Sisi è il mantenimento simultaneo di un aperto dialogo con un gran numero di attori. Una chiave di lettura di questa attitudine, che si pone in discontinuità rispetto al passato, è la volontà di fare in modo che le potenze esterne non siano in grado di condizionare in maniera decisiva le sorti dell’Egitto, che mira, quindi, a costruire e consolidare il proprio ruolo di media potenza autonoma nello scenario delle relazioni internazionali.
I rapporti tra Egitto e Russia, infatti, sono più che buoni, e senz’altro favoriti dal carattere autocratico del governo egiziano. Non è una novità che Vladimir Putin si trovi particolarmente a suo agio nel trattare e relazionarsi con leader forti, e le buone relazioni tra i due paesi sono state senza dubbio favorite dal momentaneo allentamento delle relazioni tra Egitto e USA durante la transizione post Mubarak. La volontà di al Sisi di presentarsi come sponsor regionale contro il terrorismo, l’ostilità verso la Fratellanza Musulmana e il comune sostegno a Khalifa Haftar in Libia non fanno che favorire i rapporti con la Russia, e va tenuto conto dell’importanza strategica che l’Egitto può rappresentare per i russi nell’ottica di un consolidamento della propria presenza nel Mediterraneo.
Negli ultimi anni si è anche assistito ad un consolidamento delle relazioni con la Cina, paese con cui la collaborazione è stata storicamente buona nell’ambito del blocco dei paesi non allineati. La Cina guarda con grande interesse al canale di Suez, che può essere uno snodo strategico per la nuova via della Seta. Da parte egiziana c’è il pieno interesse ad attrarre gli investimenti cinesi, ma permane un atteggiamento prudente e di parziale diffidenza verso un’eccessiva penetrazione cinese nell’economia del paese, nell’ottica del mantenimento della piena sovranità (in particolare su Suez) che viene considerata una priorità assoluta da al Sisi.
Un’ulteriore direttrice delle relazioni internazionali dell’Egitto è quella dei rapporti con le monarchie del Golfo. Con l’arrivo al potere di Al Sisi si ha una svolta ostile verso la Fratellanza Musulmana, e i conseguenti attriti con la Turchia, che della Fratellanza è il principale sponsor, rappresentano senza dubbio un punto di contatto con gli Stati del Golfo, Arabia Saudita in primis. Ugualmente, la comune ostilità all’Iran sciita rappresenta un ulteriore motivo di vicinanza. Vale anche qui, tuttavia, il discorso fatto in precedenza con riferimento agli Stati Uniti, e una delle priorità in politica estera dell’Egitto è proprio il tentativo di ridurre la dipendenza dalle monarchie del Golfo e la creazione di una politica estera autonoma. In questi termini, facendo riferimento allo scenario libico, l’ingresso sulla scena degli Emirati Arabi Uniti a sostegno di Khalifa Haftar ha costituito uno “smacco” per l’Egitto che, ancora una volta, si è trovato a rivestire il ruolo di junior partner nello scenario internazionale. Negli ultimi giorni il fronte libico è apparso particolarmente caldo: al Sisi, che ha sempre cercato di porsi come figura di mediazione e di favorire il negoziato, senza però far mancare il proprio incondizionato supporto ad Haftar, di recente è arrivato a minacciare un intervento militare in Libia, provocando una ferma reazione di condanna dell’Unione Europea. Da parte turca, il presidente Erdogan ha provato a smorzare i toni, ed è chiaro che un’escalation in Libia è una prospettiva che preoccupa molti.
Il tentativo egiziano di ricoprire un ruolo di maggiore importanza a livello regionale passa senza dubbio attraverso la valorizzazione del giacimento di Zohr. Nel 2019 l’Egitto ha dichiarato di aver raggiunto l’indipendenza energetica e si candida come nuovo hub della regione. La scoperta di nuovi giacimenti rappresenta una doppia opportunità per al Sisi. Se da un lato la vendita di grosse quantità di gas all’estero rappresenterebbe uno stimolo per un’economia che non naviga certo a gonfie vele e permetterebbe inoltre l’arrivo di grosse somme di valuta estera nel paese, dall’altro lato i nuovi giacimenti consentono all’Egitto di occupare una nuova posizione di forza nelle negoziazioni tra vicini e potrebbero dare un impulso al progetto dell’East Mediterranean Gas Forum. L’obiettivo di al Sisi sarebbe sia la creazione di un cartello del gas che possa arrivare a competere con l’OPEC, sia la creazione di una sistema di alleanze e collegamenti a livello regionale che possa potenzialmente tagliare fuori la Turchia dalla nuova partita del gas.
In quest’ottica, si segnala una stretta cooperazione con Israele, la cui vicinanza va letta sia nei termini di una collaborazione a livello energetico, sia nei termini di un comune interesse al contenimento del fondamentalismo islamico nel Sinai.
Infine, negli ultimi anni l’Egitto ha iniziato a riconsiderare la propria identità africana e a dare maggiore importanza alla presenza strategica nel continente. In questo senso, di particolare interesse sono i dialoghi, con periodiche tensioni, con Sudan e Etiopia per la costruzione di una diga sul Nilo, avviata nel 2011 con lo scopo di regolare l’utilizzo delle acque del fiume più lungo del mondo. La diga è in costruzione sul Nilo azzurro, fiume che all’altezza di Khartoum si unisce al Nilo bianco e va a formare il Nilo, che scorre verso nord e sfocia a sua volta nel mar Mediterraneo tra le città di Alessandria d’Egitto e Porto Said. Le tensioni, che riguardano tra le altre cose le tempistiche per la conclusione dei lavori, interessano in particolar modo l’Etiopia. La preoccupazione, da parte egiziana, è che l’Etiopia possa riempire il bacino della diga troppo velocemente e bloccare così l’afflusso di grosse quantità di acqua verso le città e i campi agricoli egiziani.
I progetti di Al Sisi in politica estera sono ambiziosi e si scontrano con quella che è la realtà interna del paese. Un paese, l’Egitto, che nei giorni scorsi si è trovato costretto per l’ennesima volta a chiedere aiuti al FMI. Il crollo del turismo e delle rimesse dall’estero hanno dato un duro colpo all’economia egiziana. Il sistema sanitario durante la crisi Covid è inoltre stato più volte sull’orlo del collasso. Salendo al potere al Sisi aveva promesso una pronta ripresa economica del paese, e la realtà sembra estremamente lontana da questa visione. La disoccupazione rimane altissima e il crollo del settore turistico sarà senza dubbio un ulteriore fattore negativo.
Come detto in precedenza, fin dal suo arrivo al potere Al Sisi ha impresso al paese una svolta autoritaria che ha portato a numerose violazioni dei diritti umani, arresti arbitrari e persecuzioni verso gli avversari politici (su tutti la Fratellanza musulmana). Ha fatto particolare scalpore la scomparsa, a fine 2015, del ricercatore italiano Giulio Regeni, trovato morto qualche mese dopo nel febbraio 2016. A distanza di anni non è ancora stata fatta luce sulle circostante della morte del giovane italiano. Sono invece più recenti i casi dell’incarcerazione di Patrick Zaki e del suicidio in Canada dell’attivista LGBTQ+ Sarah Hijazi, avvenuto proprio nei giorni scorsi.
Molti chiedono al governo italiano di interrompere le relazioni economiche e diplomatiche con l’Egitto fino a quando non sarà fatta emergere la verità riguardante il caso Regeni e non si avrà, in generale, un miglioramento nel rispetto dei diritti umani nel paese. E’ chiaro come da parte italiana l’interesse economico abbia prevalso sulle considerazioni di carattere umanitario, alla luce del ruolo cruciale svolto da ENI nella partita del gas del giacimento di Zohr. L’Italia è inoltre il maggior partner commerciale europeo dell’Egitto. Nel 2014, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi fu il primo leader occidentale ad accogliere al Sisi nella propria capitale, e l’Italia ha continuato a vendere all’Egitto armi e sistemi di sorveglianza nonostante l’aumento delle prove di abusi dei diritti umani. Va segnalato come, al ritiro della missione diplomatica dopo la morte di Regeni, abbia fatto seguito un immediato avvicinamento diplomatico tra al Sisi e la Francia, che ha subito cercato di scavalcare l’Italia nelle relazioni col paese nordafricano.
Nei giorni scorsi ha suscitato grandi polemiche la decisione del governo italiano di concludere la vendita di due fregate verso il governo egiziano. La decisione suscita scalpore anche alla luce del supporto egiziano a Khalifa Haftar, laddove l’Italia sostiene invece la fazione opposta nel conflitto libico, il governo di al Serraj, che gode del riconoscimento internazionale dell’ONU. Come è stato fatto notare in diverse occasioni, la vendita di armi verso uno stato impegnato in un conflitto armato e che si è macchiato di varie violazioni dei diritti umani costituisce una grave violazione di numerose leggi dell’ordinamento interno italiano. L’accordo di vendita ha fatto scattare una mobilitazione per chiedere al governo di fermare le forniture militari all’Egitto, ma sono in molti a chiedersi cosa ci sia dietro alla più grande commessa ottenuta dall’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale.
Se il comportamento del governo italiano è per certi versi deplorevole, non si può certo dire che l’Unione Europea abbia agito in maniera esemplare. Ad una condanna formale degli arresti e delle restrizioni delle libertà non ha fatto seguito una politica e un’azione comune europea. Senza dubbio, il cammino che porta verso una gestione più consona delle relazioni con l’Egitto passa proprio attraverso l’adozione di una posizione unitaria a livello comunitario e attraverso l’adozione di un approccio di condizionalità, che vincoli il mantenimento di relazioni economiche ad una maggiore tutela e rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali nel paese.