Se vi capitasse di trovarvi affamati in zona Ticinese, a Milano, vi consiglierei di fare tappa all’osteria “Il Brutto Anatroccolo”.
In questo ristorante che odora di Milano antica sono al tavolo con Francesco Chieraschi, collaboratore di The Pitch e creatore dei brani che musicano la nostra newsletter settimanale, #Newsical: camicia “fantasia”, un fare schietto e un’aria un po’ malinconica. Scambiamo due chiacchiere. Franco ha una storia molto interessante, e come me, si occupa di musica: ha un profilo su BandCamp dove è possibile ascoltare dei suoi lavori.
Ho ascoltato i tuoi lavori su BandCamp, mi hanno colpito.
I tre album su BandCamp sono solo una parte del mio repertorio. Alcune tracce sono brani molto vecchi, mentre altri sono pezzi nuovi.
L’idea di condividere la mia musica è nata tre o quattro anni fa. Ho conosciuto un tizio che mi doveva presentare a un’etichetta. Per un anno mi ha tenuto in ballo poi non se n’é fatto nulla. Però mi è servito come pretesto per mettere giù qualcosa. Ho cominciato con SoundCloud, con lo pseudonimo Wallnofer, il cognome di mia madre; dava una una certa aria internazionale (ride). Poi ho caricato un po’ di video su youtube e infine sono approdato su BandCamp.
Fare un album oggi è difficile, lo è ancora di più trovare un’etichetta discografica.
Fare musica senza commissioni è complicato, almeno per me, perché devi stare sui social, capire come vanno queste cose. Le piattaforme di musica online offrono una grande opportunità di visibilità e trovi peraltro un sacco di spunti interessanti e buona musica.»
La musica fa da sempre parte della tua vita. Com’è nata la passione?
«Mia mamma mi aveva chiesto fin da piccolo se volevo imparare a suonare il pianoforte. E cosa fai dici di no alla mamma? Ai miei genitori piaceva molto ballare e in generale amavano molto la musica. Ho una formazione musicale molto strana. Da bambino oltre alla classica ascoltavo Xavier Cugat e Perez Prado. Poi c’è la componente legata alla musica popolare: i miei mi portavano nelle balere.
Avevano un bar, la Clinica, uno dei primi sui navigli; sorgeva proprio qui, dove adesso c’è il Brutto Anatroccolo. Mio padre ci mise il pianoforte e ogni giovedì e sabato veniva un suo amico a suonare e invitava gli amici a ballare. Poi c’era il jukebox, col 45 giri…bei ricordi!»
Tornando ai tuoi lavori, Amapa è l’album che più mi ha attirato, anche se Danze è un progetto interessante:
«Amapa è una dedica a mamma e papà, ed è una raccolte di cose intime, ricordi legati alla mia famiglia. Gli altri due album sono cose completamente diverse.
Danze, ad esempio, è stata la prima cosa che ho fatto da quando mi hanno regalato il computer. Mi è venuto fuori di getto. Ogni brano è considerato come una sinfonia in quattro movimenti. Ogni minuto mi fermo e cambio il mood del pezzo. Usando anche suoni elettronici offro una rivisitazione di quello che per me è la danza contemporanea.
In Amapa invece uso prevalentemente suoni acustici. Tutte le parti sono suonate da me con una tastiera».
Anche i titoli dei brani di Amapa mi incuriosiscono. Kombinat è quello che più attira la mia attenzione; non capisco se si debba leggere alla milanese o se non c’entri proprio nulla. Mi risponde ridendo:
«Il milanese c’entra na got. Kombinat erano dei complessi industriali dell’Unione Sovietica. Nel mio soggiorno a Berlino ovest mi era capitato più volte di imbattermi in questa scritta. Caduto il muro, nel periodo in cui ancora ci bazzicavo, mi era capitato per caso di ascoltare un brano di un violoncellista che faceva una rivisitazione dell’inno della DDR facendolo finire con delle note molto tristi; allora aveva più senso filosofico e sociologico. Ma in ricordo di questa esibizione che mi aveva colpito anch’io inserisco un finale malinconico in quella che è la mia personale rivisitazione dell’inno. E’ un pezzo che avevo composto nel periodo nel quale collaboravo con Margherita Antonelli.»
Hai lavorato con Margherita Antonelli?
Si, avevo composto parecchi brani per un suo spettacolo del 1996, “Le relazioni più o meno pericolose”. Ancora prima, tra il 1990 e il 1992 avevo lavorato sempre nell’ambito musicale con Lella Costa. Poi mi sono perso un po’… Ho ricominciato nel 2005 a dedicarmi a “Polveri sottili”, un progetto collettivo su brani di origine milanese, tanghi e valzer. Corrisponde al periodo in cui iniziavo a ballare il tango.
In ultimo, qualche anno fa, ho collaborato con un cornista dell’orchestra Verdi, col quale ho composto un quintetto di fiati in quattro movimenti.
Ascoltando tutto l’album salta all’orecchio che in più di un brano compare il valzer: EgonValse e Abbain, due titoli anche molto particolari.
«Il valzer è legato tantissimo ai miei ricordi d’infanzia, quando lo ascoltavo continuamente. Se ci pensi è una di quelle poche musiche che ha due versioni, quella ricchissima sfarzosa della Vienna Imperiale, ma è anche un ballo diffusissimo nella musica popolare. Seguendo le orme dei miei ho iniziato a ballare il tango: e lì insieme alla milonga c’è il valzer.
EgonValse nasce da una gita in Austria in bicicletta con la mia ragazza: dopo 300 km ci siamo concessi una sacker torta e siamo andati a vedere le opere di Egon Schiele.
Abain è un titolo in milanese: proprio perché io sono nato sugli abbaini, i sottotetti, i solai delle case di ringhiera riadattati ad appartamenti. Abitavo in Via Torricelli, sopra il bar dei miei genitori. E l’ultimo degli ultimi edifici in alto era il nostro. Adesso quegli stessi abbini costano cifre esorbitanti.»
Ascoltando i brani di tutto l’album traspare un senso di malinconia che si lega certamente al ricordo di papà e mamma che non ci sono più, ma anche alla concezione che Franco ha della musica e alle sue influenze artistiche.
«Il tema della malinconia fa parte del mio stile: è un sentimento che mi viene più facile esprimere sul pianoforte. Infatti, ipotizzando un improbabile concerto di “piano solo” che un giorno mi piacerebbe fare, mi sono accorto che non ho dei pezzi allegri! La musica russa mi piace tantissimo: ancora oggi gli autori russi sono tra i miei preferiti: Tchaikovski e Borodin in particolare. I miei autori di riferimento nella musica pop rock sono Robert Wyatt, Nick Drake e Tom Waits. Fare musica non è una cosa semplice. La difficoltà secondo me sta nel trovare e dare un senso anche esterno a quello che fai. In questo caso, parlando della famiglia, il senso della musica lo devi trovare tu, dentro di te, perché è solo tuo: io ho deciso di dare a tutto l’album un’impronta di questo tipo.»
Blumilla è forse la traccia con il tema che più mi affascina; comincia in maggiore ma pian piano cambia e nel finale i toni si fanno più cupi e tristi.
«Si Blumilla ha una sua storia un po’ vecchia. Il titolo, nella mia idea, è la contrazione del termine Blu in senso americano, cioè triste, e “milla” che è la camomilla. Prima ti accennavo al fatto che c’è stato un momento della mia vita in cui mi ero un po’ perso: era un periodo in cui bevevo tanto e dormire o più in generale trovare la serenità e la pace era un grosso problema. Questo brano risale proprio a quel periodo lì».
Di fronte all’osteria c’è l’Auditorium di Milano, gli faccio notare. Sembra messo lì apposta a far da cornice a questa bella chiacchierata musicale. Siamo ormai al caffè, e Franco ha un ultimo aneddoto da raccontarmi.
«Una volta è successa questa roba qui. Ero qui a mangiare, come spesso mi capita: è entrato questo bel signore con un Loden, un cappello anch’esso Loden con una bella piuma. Si vedeva che era straniero, si è accomodato e si è messo a parlare. Ho pensato: questo qui deve essere il pianista che suona stasera al concerto di Borodin. La cosa che mi ha colpito di più è che nessuno sapeva chi fosse questo qui, anche se era un pianista eccelso. Fosse entrato un rockettaro qualsiasi chiunque lo avrebbe riconosciuto. Allora vado lì e gli dico: “Buonasera lei deve essere un musicista che si esibirà stasera. Volevo farle i complimenti e dirle che a me piace tanto Borodin!”. Lui mi guarda, si ferma un attimo e mi fa: “BARADIN!”. Da allora non sbaglio più la pronuncia!»
Ci salutiamo cordialmente e Franco si allontana con la sua consueta aria malinconica; che poi, a pensarci bene, è solamente un modo di essere felici, senza darlo a vedere.