Premessa storica (di Giacomo Somazzi)
L’industria cinematografica italiana, prima della seconda guerra mondiale, era appena uscita con fatica da una crisi durata un decennio, dal 1919 al 1929. Grazie alla costruzione di nuove infrastrutture, come la Cines prima e Cinecittà dopo, ai capitali dello stato e a una nuova leva di registi, fu possibile risollevare parzialmente la produzione nazionale e avviarsi verso un periodo di crescita. Registi come Alessandro Blasetti e Mario Camerini, entrambi attivi dal 1929 fino al dopoguerra, firmarono la regia di film dall’enorme successo, come Sole (Blasetti, 1929) e Rotaie (Camerini, 1929), e non solo perché imbevuti di propaganda, ma anche per la maggiore attenzione che ponevano sull’uomo comune e sui problemi della popolazione. A partire dagli anni ’30, accanto alle pellicole di regime, si iniziano ad affiancare anche commedie leggere ambientate in località esotiche e con protagonisti giovani, ricchi e belli: i cosiddetti film dei telefoni bianchi. Definiti così per l’abbondante presenza, appunto, di telefoni bianchi, simbolo di ricchezza, si inscrivono in una corrente escapistica volta a far dimenticare le difficoltà della vita di tutti i giorni.
Dopo un decennio dominato dai telefoni bianchi, nel 1942 Blasetti gira Quattro passi tra le nuvole, che sancisce l’inizio della collaborazione con Cesare Zavattini, lo sceneggiatore più attivo e influente di quegli anni nonché il padre ideologico del Neorealismo. Quest’ultimo film porta Blasetti vicino a quella generazione di registi che mettono al centro della loro opera persone comuni e una ricerca stilistica che si ispira al verismo di Verga. Ossessione (Visconti, 1943) ne è un esempio paradigmatico, tanto da essere poi individuato convenzionalmente come il primo film neorealista. In quel periodo inizia a lavorare anche Rossellini che, dopo documentari e film di guerra, realizza nel 1945 uno dei suoi film più conosciuti Roma città aperta. Anche De Sica è attivo in quegli anni con film come Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948).
Gli anni Cinquanta si aprono sulla scia del successo ottenuto da questi film, sia in patria che all’estero, e vedono un aumento esponenziale delle produzioni dell’industria cinematografica italiana. Sono anni d’oro, in cui lavorano sia registi più attempati come Blasetti e Camerini sia registi affermati come De Sica, Visconti e Rossellini che esordienti come Fellini e Antonioni. Basterà citare solo qualche film per rendersi conto dell’importanza di questo decennio per la storia del cinema italiano: Cronoca di un amore (Antonioni, 1950), Il cammino della speranza (Germi, 1950), Bellissima (Visconti, 1951), Umberto D. (De Sica, 1952), Europa ’51 (Rossellini, 1952), La spiaggia (Lattuada, 1954), La strada lunga un anno (De Santis, 1958) e La dolce vita (Fellini, 1960), vero e proprio spartiacque che apre a una nuova fase, gli anni ’60.
Questa è una situazione panoramica del nostro cinema che precede, accompagna, segue il periodo concitato del confitto bellico; ora andremo ad analizzare, più nello specifico, due film girati a posteriori che di quello sfacelo che fu il nostro Paese dopo l’8 Settembre fanno la ragione di vita. Due film di grande successo girati – non va dimenticato – negli anni anni Sessanta e non durante la guerra o in un periodo ravvicinato ad essa (il caso esemplare di Roma città aperta di Rossellini).
“Il federale” (di Luigi Luca Borrelli)
Il federale esce nel 1961, quando Dc e Pci si contendono l’Italia e, in fondo, la guerra come l’esperienza del ventennio cominciano piano piano a diventare un ricordo. Il paese è nel frattempo cambiato, uscendo dal clima culturale, politico ed economico che si dimena nel Neorealismo. Ora è in procinto di fare un boom che cambierà profondamente il suo assetto. Questo gioiello di Salce sembra inserirsi nel contesto della commedia all’italiana, eppure l’amarezza di fondo per raccontare quel periodo – l’Italia divisa, invasa dagli americani – fa del film un oggetto di culto un po’ misterioso, difficile da definirsi: anzitutto, è una delle prime prove realmente impegnate e impegnative di Tognazzi, particolare non trascurabile. In secondo luogo, la definizione macchiettistica che vorrebbe dare del suo fascista, che mira a diventare Federale, è in realtà meno banale di come appare, anche se posta in una chiave di dicotomia bene-male con quella del professore universitario antifascista, imbranato come tutti gli intellettuali, ma capace di clemenza finale verso il suo aguzzino il quale, sotto sotto, è solo uno stupidotto italiano innamoratosi dell’immagine che la sua mente ha innalzato a ideale di ciò che è il Ventennio, ma non un uomo egoista. Una delle commedie di maggior successo del decennio e anche una tra le meglio riuscite per la sensibilità e il tatto che ha nel raccontare con vivacità, ironia, sfrontatezza e ritmo un periodo difficile per la storia d’Italia. Passa attraverso un iter narrativo lineare, che ne racconta però di tutti i colori: il “futuribile federale” deve consegnare a Roma un professore universitario dissidente, noto per il suo intellettuale antifascismo militante.
“Tutti a casa” (di Francesco Fiero)
8 settembre 1943. Dalla radio arriva il messaggio alla nazione del maresciallo Pietro Badoglio: è stato stipulato un armistizio con gli anglo-americani, firmato in segreto pochi giorni prima a Cassibile, vicino Siracusa. Sembra la fine della guerra. Ma è soltanto l’inizio di una nuova e sanguinosa fase.
L’Italia, di fatto, piomba nel caos. Con lei, anche l’esercito sbanda: le truppe si danno alla fuga e pensano soltanto a una cosa: tornare a casa. Film tra i più iconici di Luigi Comencini, in virtuoso equilibrio tra film di guerra e commedia, Tutti a casa racconta proprio lo sbando dei convulsi giorni dopo l’8 settembre. Un caos che passa attraverso la figura del sottotenente Alberto Innocenzi (Alberto Sordi) che, durante un’esercitazione in una caserma veneta, si ritrova improvvisamente davanti i tedeschi che aprono il fuoco, senza capire cosa stia succedendo. I superiori non sanno bene che istruzioni dargli, le truppe scappano. Man mano che il tempo prosegue le fila si assottigliano, finché non rimane con lui soltanto il soldato Ceccarelli. Il pensiero, ancora una volta, è solo uno: tornare a casa.
Uscito nel 1960, Tutti a casa tratta una materia complicata, il racconto di una guerra finita che in realtà non si era affatto conclusa: «Badoglio quando disse “La guerra continua” era finita, e adesso che ha detto che è finita, la guerra continua». «Ma in che senso continua?» chiede Sordi, in fuga dalla responsabilità e da una presa di coscienza, dopo anni di servizio senza mettere in discussione le sue azioni.
Quella che si apre l’8 settembre è una fase fatta di guerre intestine, tra la Repubblica di Salò al Nord, l’occupazione dei tedeschi a Roma e la resistenza. Il viaggio di Sordi è il viaggio dell’Italia e degli italiani, la confusione e la difficoltà di prendere una posizione. È la fatica di sopravvivere, la fame nelle città distrutte dalla guerra – come nella scena del saccheggio di un camion pieno di farina destinato al mercato nero. E, quando finalmente si torna a casa, rimane ben poco di ciò che si ricordava.
Se l’Italia era entrata in guerra il 10 giugno 1940, ora, una parte di quell’Italia entra in guerra una seconda volta: così, a Napoli, Alberto Innocenzi smette di scappare e, dopo aver provato a salvare Ceccarelli, capisce che è tempo di combattere i tedeschi. Era il 27 settembre 1943, era l’inizio delle quattro giornate di Napoli, l’insurrezione con cui civili e militari schierati col regno del Sud liberarono una città fatta di macerie dall’occupazione. La guerra era finita, ma ne era cominciata un’altra.