Il 2 dicembre 2023 cadrà il 200° anniversario di un celebre discorso pronunciato dal quinto successore di George Washington davanti al Congresso degli Stati Uniti. Un discorso di cui forse allora non si colse la portata epocale ma destinato ad avere tuttora ricadute di discreta importanza per tutte le terre emerse comprese tra l’Atlantico e il Pacifico. Ciò che John Quincy Adams mise per iscritto ma che in realtà uscì dalla bocca di James Monroe – che si prese quindi meriti e demeriti della “dottrina” – fu in sostanza l’affermazione della supremazia dei neonati Usa sull’intero continente che va dallo stretto di Bering alla Tierra del Fuego. “Non tollereremo – disse Monroe – da parte degli europei alcuna intromissione negli affari americani, fatta eccezione per le colonie ancora in mano alle potenze del Vecchio Continente”. Postilla della Dichiarazione d’Indipendenza o principio d’imperialismo?
I fatti che seguirono, dall’annessione di gran parte dei territori dell’allora Messico al decisivo impulso dato alla costruzione del canale di Panama, farebbero propendere per la seconda ipotesi. Ma è nel corso del Novecento che il controllo di Washington su tutto ciò che sta a sud del Rio Grande acquisirà i tratti che conosciamo, quelli che hanno portato a coniare l’espressione “giardino di casa“. Un giardino da falciare quando l’erba prende un colore che non piace e da concimare, seminare e recintare a piacimento, a proteggerlo da eventuali malintenzionati. Ci sono stati momenti in cui questo giardino è stato più a immagine e somiglianza del proprietario e momenti in cui lo è stato meno. Se gli anni ’70 – con il fiorire di giunte militari fiancheggiate quando non supportate dagli Usa – rientrano nel primo caso, negli anni a cavallo del millennio il giardino ha iniziato a essere preda di piante infestanti.
Le vittorie elettorali a stretto giro di Chávez in Venezuela, Lula in Brasile, Kirchner in Argentina, Bachelet in Cile, Morales in Bolivia e Correa in Ecuador hanno fatto vacillare per la prima volta il dominio a stelle e strisce sul subcontinente, complici anche gli impegni mediorientali dell’ingombrante superpotenza. Un progressivo disimpegno che ha fatto balenare per la prima volta a Putin l’idea di potersi incuneare in quello che fino ad allora era stato un inavvicinabile fortino. I buoni rapporti dello Zar con Chávez e Morales e il graduale allontanamento di Argentina e Brasile dalla sfera d’influenza americana (testimoniato dall’impulso dato in quegli anni a un’istituzione indipendente come il Mercosur) riportarono il livello lo scontro nel “giardino di casa” sopra ai margini di guardia per la prima volta dal tragico decennio dei golpe e dei desaparecidos. Una guerra fredda a tutti gli effetti.
Dopo aver più volte ribadito il sostegno al Venezuela di Maduro, di recente il capo del Cremlino ha rotto il silenzio anche sulla crisi boliviana: “La Russia – ha detto Putin – è disposta a cooperare con le autorità purché abbiano un mandato legittimo del popolo“. Non certo quello che si definisce un messaggio velato, tanto più se pronunciato davanti ai colleghi dei Brics e quindi anche a quel Jair Bolsonaro tutt’altro che scontento della piega che sta prendendo la situazione a Sucre, dove la senatrice Jeanine Áñez ha assunto l’interim della presidenza fino a nuove elezioni. Putin ha paragonato il paese andino alla Libia: “Nonostante in questo caso non ci sia stata un’ingerenza esterna diretta – ha concluso – il paese è sull’orlo del caos”. Sebbene il viceministro degli esteri russo Sergei Ryabkov si sia affrettato a precisare che il Cremlino non considera il cambio di potere alla stregua di un colpo di stato, la presa di posizione dello Zar non ha lasciato molti dubbi.
L’interesse di Mosca e Pechino per l’America Latina (e le sue risorse) è noto, complici le “distrazioni” di Washington e l’assenza totale di Bruxelles. I traffici commerciali tra la Cina e il subcontinente da quasi 400 milioni di abitanti sono aumentati del 2.200% negli ultimi vent’anni e solo nel 2019 sono valsi 200 miliardi di dollari. Xi Jinping pensa ora addirittura di includere il Sudamerica nel suo progetto commercial-imperiale della Nuova Via della Seta. Se a Pechino interessa soprattutto l’accesso alle materie prima, Mosca resta ancorata a una visione più strategica e geopolitica. Entrambi gli interessi mettono in pericolo l’egemonia statunitense e se 15-20 anni fa le sinistre del continente stringevano accordi con Cina e Russia come “contrappeso” alla dipendenza dagli Usa, le nuove destre – Bolsonaro in testa – intessono legami economici con le due superpotenze euro-asiatiche senza sbilanciarsi dal punto di vista politico, per evitare possibili tensioni con Washington.
A giudicare dai sentiti ringraziamenti per l’invio di mascherine e kit sanitari, le mosse cinesi per ora pagano di più: lodi sperticate alla generosità di Pechino non sono arrivate solo dal Venezuela (che già a metà marzo ha ricevuto 4 mila test da Pechino, subito dopo essersi visto rifiutare un prestito da 5 miliardi di dollari dall’Fmi) ma anche da Messico, Bolivia, Ecuador, Cile e Argentina. E se quella che è già stata definita “diplomazia della mascherina” sembra iniziare a dare i propri frutti, Russia e Usa in questo momento appaiono incapaci di fornire un’alternativa valida. Troppo legata a regimi ormai compromessi come quello di Caracas e Sucre l’immagine della prima, troppo poco presenti sul territorio i secondi. Con Trump che, al di là di qualche generico cenno di approvazione all’operato di Bolsonaro, non sembra davvero interessato a curare quel “giardino” così ben tenuto dai suoi predecessori.