La seconda guerra mondiale è lo specchio ideale per riflettere su come, anche oggi, il nostro paese gestisca le situazioni di crisi in base alla definizione di chi è deputato a prendere le decisioni.
Dall’analisi delle relazioni di comando durante il conflitto si possono evidenzia tre aspetti interessanti: il primo legato alla suddivisione delle cariche e alla pianificazione degli obiettivi strategici; il secondo alla condivisione di quegli obiettivi tra i livelli decisionali; e il terzo legato all’esecuzione.
Procediamo con ordine. Il 10 giugno 1940 Mussolini era capo del governo e ministro delle tre Forze Armate (Esercito, Marina, Aeronautica), dal 2 aprile 1938 Primo Maresciallo dell’Impero, non potendo assumere la carica di Capo Supremo delle stesse (attribuita al re da Statuto), divenne “comandante delle forze armate operanti”. Seguendo il principio dell’unicità di comando, verrebbe da dire che era un’ottima situazione, ma invece questa configurazione aveva favorito la separazione delle forze armate. Infatti tanto accentramento non consentì la creazione di un organismo interforze in grado di coordinare le operazioni complesse, anzi accrebbe differenze ed autonomie creando tre comandi superiori denominati Superesercito, Supermarina, Superaereo. Questa divisione portò a lavorare a compartimenti stagni senza condividere informazioni e risorse: eppure durante le guerre degli anni Trenta vi erano stati episodi di coordinazione soprattutto tra l’arma aerea e l’esercito, che avrebbero dovuto spingere verso un modello di cooperazione e integrazione tra le forze armate.
Se a questo si aggiunge che le attività militari nelle colonie, fino all’ingresso in guerra, erano state gestite dal ministero delle Colonie (che aveva un misero ufficio militare), il quadro appare chiaro: in Italia vi era un capo che voleva avere tutto sotto controllo senza organi intermedi che rielaborassero in termini operativi la volontà politica per fornire alle unità sul terreno indicazioni utili.
Da ordinamento esisteva la figura del capo di stato maggiore generale che avrebbe dovuto coordinare le attività belliche, ma era solamente una carica formale, visto che non aveva uno staff adeguato per il compito che avrebbe dovuto svolgere. Questa organizzazione avrebbe dovuto pianificare. Fino al maggio 1940 i piani italiani erano sulla difensiva nei confronti degli unici stati considerati “nemici” per tutti gli anni Trenta: la Francia e la Jugoslavia, la guerra all’Inghilterra non era mai stata presa in considerazione seriamente.
Completa questo quadro il rapporto con le forze armate tedesche: trattandosi di operazioni di alleanza si sarebbe dovuto costituire un comando interalleato per la gestione delle operazioni, ma la cooperazione si concretizzò solamente con uno scambio di ufficiali di collegamento.
I tre comandi superiori operavano distaccati e senza conoscere le operazioni generali, pertanto poteva accaddere ad esempio che un convoglio navale in viaggio da Napoli verso la Libia fosse intercettato da forze avversarie e fatto oggetto di fuoco aereo, il comandante dell’unità navale avrebbe avuto bisogno del supporto aereo che sarebbe dovuto partire dagli aeroporti siciliani più vicini, ma la struttura gerarchizzata delle comunicazioni prevedeva che il comandante navale avrebbe dovuto comunicare con Supermarina che avrebbe informato Superaereo che avrebbe individuato una squadriglia area disponibile per andare in soccorso alla nave: in sostanza la nave poteva affondare tranquillamente. Questa situazione evidenzia ancora le tante difficoltà nell’organizzazione italiana (e non parlo del mondo militare). Gli ultimi mesi hanno evidenziato ancora di più questi aspetti ostici della burocrazia, che è uno strumento utile, ma non deve vivere per se stessa.
L’ultimo aspetto dell’esecuzione degli ordini si basa su due modelli che si possono definire command by intend (assegnare ai comandi subordinati compiti definiti in termini di obiettivi da raggiungere, lasciando libertà di scelta al comandante sul terreno) e command by order (le operazioni possibili erano solo quelle che potevano essere facilmente controllate dall’alto con continuità a seguito di una pianificazione dettagliata passo passo). Anche in questo caso è utile fare un esempio. In nord Africa le operazioni di guerra non furono solamente quelle condotte dalle truppe corazzate di Rommel, supportate dalle unità italiane contrapposte a quelle britanniche di Cunningham prima e Montgomery poi. Nel deserto i britannici schierarono una unità chiamata Long Range Desert Group, che inflisse più perdite delle truppe corazzate alleate! Questa unità operava nascosta e assaltava i punti logistici italiani tagliando le linee di rifornimento. Questa unità si muoveva nel deserto per giorni per poi comparire, distruggere e ripiegare: il comandante aveva l’obiettivo, a lui era deputato il modo di condurre l’azione. Modo di combattere che si può tradurre con l’anglicismo by intend .
Anche gli italiani, avevano costituito unità simili, le Compagnie auto-avio sahariane. Queste unità non ebbero la libertà d’azione britannica, erano costretti a riferire al comando sovra ordinato movimenti e posizioni, risultato: rimasero spesso inutilizzate i comandanti di unità non erano stati addestrati ad agire di iniziativa. Questo modello si può sintetizzare con l’anglicismo by order. In conclusione questa brevissima analisi sui modelli della catena di comando usata dall’Italia durante il secondo conflitto deve farci riflettere su come ancora oggi non riusciamo a concretizzare obiettivi strategici a lungo termine, che si tratti di riforme anche o di pianificazione degli obiettivi finali nazionali. Tutto ciò è aggravato dal peso dei personalismi e da divisioni a priori, ma questa è un’altra storia.