I can’t Breathe
George Floyd
Se nelle ultime settimane non avete vissuto in Corea del Nord e avete una buona connessione internet, vi sarete sicuramente imbattuti nel video dell’omicidio di George Floyd, l’afroamericano di 46 anni rimasto ucciso per soffocamento durante un fermo della polizia a Minneapolis. Il video ha creato enorme clamore non solo negli U.S.A, ma in grandissima parte del mondo. Indignazione che si è portata inevitabilmente dietro un acceso confronto tra chi ha provato a contestualizzare e a comprendere le dinamiche culturali e storiche che hanno portato alle rivolte e chi ha sputato tutta la propria rabbia contro le migliaia di persone che sono scese in strada per protestare.
So the police can bother me
In qualsiasi modo la si voglia vedere, l’omicidio di George Floyd ha riacceso – finalmente – i riflettori sul fenomeno della police brutality.
Le forze dell’ordine statunitensi, tradizionalmente conosciute come un apparato con tendenze estremamente repressive, specialmente per una nazione democratica, hanno una storia macchiata da innumerevoli casi di violenza fisica e psicologica nei confronti dei cittadini americani. Buona parte di questa violenza si sfoga contro le comunità afroamericane e ispaniche del Paese (che rispetto ai bianchi sono 2,5 volte più a rischio), in linea con i trend culturali di una società ancora divisa dalla questione razziale.
Fuori dalle piazze la situazione è anche peggiore: Donald Trump dichiara terroristi i gruppi Antifa e promette il dispiegamento di forze militari per sedare la rivolta prendendosi anche un sonoro “Tieni la bocca chiusa” dal capo della polizia di Huston.
In questo clima di enormi tensioni sociali e politiche, di urla e proclami, gli artisti hanno lanciato un messaggio positivo e silenzioso: un giorno di blackout per commemorare la morte di George Floyd e sostenere quanti sono scesi in strada per protestare contro la violenza della polizia nei confronti della comunità afroamericana.
We gotta start makin’ changes
La musica Rap, soprattutto negli Stati Uniti, è stato il mezzo con il quale la comunità afroamericana si è sempre espressa e ha raccontato le storie e il disagio sociale delle comunità nere: i problemi di droga,la criminalità giovanile, il razzismo dilagante e il difficile rapporto con le forze dell’ordine.
It’s time to fight back that’s what Huey said
Quello che hanno fatto Martin Luther King con la politica, Malcolm X con la rivoluzione e Muhammad Alì con lo sport, Lesane Parish Crooks – alias Tupac Amaru Shakur («Serpente lucente riconoscente a Dio») – lo ha fatto con la musica. E’ nato a New York, il 16 giugno 1971, figlio delle Pantere Nere: la madre, Afeni Shakur, fa parte di un movimento che si batte per i diritti dei neri, il Black Panhter, fondato da Huey Newton – citato in Changes. Lo dà alla luce 40 giorni dopo il suo rilascio dal carcere, accusata di essere stata coinvolta in un attentato dinamitardo.
One less hungry mouth on the welfare
Trascorre l’infanzia nel Bronx e ad Harlem, all’età di 15 anni assieme alla madre e alla sorellastra Sekiwa si trasferisce a Baltimore e comincia a scrivere le prime liriche, firmandole con il nome di “M.C. New York”. Nel 1988, vanno a vivere a Marin City (Bay Area-California) ed è qui che Tupac comincia a fare vita di strada e a spacciare droga.
Nella Bay Area Tupac collabora con il rapper Ray Luv dando origine al gruppo “One nation mc’s”. In seguito avviene l’incontro con i Digital Underground con i quali collabora nel 1990.
La performance gli vale il contratto con la Interscope Records e il 12 novembre del 1991 debutta il suo primo album “2pacalypse now” contenente la hit “Brenda’s got a baby”. Poco prima dell’uscita dell’album, Tupac accusa due poliziotti di averlo aggredito brutalmente e così decide di fare causa per 10 milioni di dollari alla polizia di Oakland.
Il primo febbraio del 1993 esce il suo secondo album “Strictly for my N.I.G.G.A.Z.” e supera il milione di copie vendute. In pochi anni 2Pac sforna altri 3 album; la fama del rapper è planetaria. Ma una vita sulla strada, un carattere non semplice e parecchi nemici sono tra le cause che conducono ad un altro attentato, questa volta fatale, il 13 settembre 1996.
We ain’t ready, to see a black President
Nel 1998, nel pieno della discussa e poco democratica presidenza Clinton, dell’aumento della polizia sulle strade, del pugno duro contro la criminalità e della “Three-strikes law”, dove una persona arrestata per tre volte veniva mandata in prigione per il resto dei suoi giorni, viene pubblicato il Greatest Hits di 2Pac, nel quale risplende, tra gli altri, il singolo “Changes”, struggente Rap sulle note di “The Way It Is”, hit degli anni ottanta di Bruce Hornsby. Pezzo iconico e che resterà per sempre nella storia della musica rap mondiale, è un urlo disperato di rivalsa sociale e giustizia, di un cambiamento della società, possibile, a patto che avvenga in primo luogo in noi stessi.
Ovunque, dalle grandi metropoli alle piccole città, il grido “Black Lives Matter” veniva accompagnato dalle strofe di 2Pac e fa un certo effetto notare quanto questa canzone sia – a 22 anni dalla sua pubblicazione – un inno di protesta attualissimo. Siamo ancora qui a parlare di diritti negati, di abuso di potere, di razzismo e violenza nella Terra delle Opportunità che ogni giorno dimostra quanto questo slogan sia falso e ipocrita. E non è un sentimento ma un dato di fatto testimoniato dai numeri e dalla storia.
I’m tired of bein’ poor and even worse I’m black
Un brano capace di approfondire a fondo il problema del razzismo strutturale di un paese che vive un’enorme disuguaglianza di sistema.
Una ipocrisia così radicata che sembra quasi impossibile da estirpare, come ripete più volte 2 Pac: “non vedo cambiamenti, solo facce razziste”. Il mondo si è mobilitato oggi, i social hanno permesso che il video girasse ovunque e che tutti venissero travolti dalla violenza “In diretta” ma questo è un virus che dilaga in America da decenni e ritorna periodicamente senza che alcuno trovi il vaccino vero e non soltanto un temporaneo palliativo. E’ una questione molto più profonda, culturale, che non è possibile analizzare lucidamente senza conoscere la cultura degli Usa e degli afroamericani: a quasi 200 anni dall’abolizione della schiavitù, pur dopo lo storico momento di un Presidente di colore alla guida del Paese, bianchi e neri, sebbene con gli stessi diritti, non hanno la stessa vita.
Things will never be the same
La Legge sui Diritti Civili ha cambiato molte cose ma non è riuscita a cancellare l’ingiustizia economica e la discriminazione razziale e all’orizzonte non si vedono giorni migliori.
Simbolo dell’ orgoglio nero a metà anni ’90 e conteso tra poesia e thug-life, 2Pac con il brano Changes ha seguito le orme dei suoi predecessori che con il Gospel e il Jazz fecero da colonna sonora alla lotta per i diritti civili degli Afroamericani, ricordandoci ancora una volta che fuori dal nostro orticello c’è una comunità da sempre il lotta e in difesa dei propri diritti. Che spera di riprendere a respirare.