La prima teorizzazione del moderno concetto di rentier state è avvenuta negli anni Settanta con riferimento ai casi di Iran e Libia e ai processi di nazionalizzazione delle risorse e delle materie prime occorsi in questi paesi al termine dell’epoca coloniale.
Una definizione più accurata, basata sulle teorie classiche di Adam Smith, viene poi introdotta da Hazem Beblawi e Giacomo Luciani, che nel 1987 pubblicano un libro il cui titolo è proprio The Rentier State.
Rentier sono dunque quei paesi che ottengono gran parte, se non la quasi totalità, del proprio reddito nazionale tramite la vendita delle proprie risorse all’estero e a clienti esterni.
La definizione viene applicata a paesi particolarmente ricchi di materie prime, e nella maggior parte dei casi di risorse energetiche (petrolio e gas). L’elenco dei rentier states include in primis le 6 monarchie del Golfo facenti parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Kuwait, Oman e Qatar), alcuni stati del Nord Africa (Algeria e Libia su tutti), Iran, Iraq e altri paesi non facenti parte dell’area MENA come Venezuela e Nigeria.
I teorici individuano una serie di caratteristiche che definisco i RS e i loro sistemi economici: la predominanza della rendita, che deriva in grandissima parte da fonti esterne; il coinvolgimento di solo una piccola parte della popolazione, cioè di una ristretta élite, nel generare la rendita; il ruolo del governo centrale come principale esattore della rendita esterna.
I modelli economici su cui si basano i RS, dunque, creano un meccanismo per cui lo scopo dello Stato non è la produzione ma l’allocazione delle rendite generate dalla vendita all’estero delle risorse e delle materie prime presenti nel territorio. Le economie dei RS, che secondo i teorici sono caratterizzate generalmente da un tasso di crescita più basso rispetto a quelle dei paesi con una presenza minore di risorse, si basano in buona parte su processi di distribuzione delle entrate da un élite centrale verso gli altri settori della popolazione. Si viene così a creare una “piramide clientelare” e una gerarchia dei beneficiari.
Ciò che caratterizza questi sistemi, che si sviluppano e si consolidano in un contesto storico ben preciso di crescita della domanda di risorse energetiche in uno scenario post coloniale, è la particolarità del contratto sociale su cui essi si basano. I RS sono infatti fondamentalmente privi di entrate fiscali, e la fedeltà e acquiescenza dei cittadini verso le élite al potere si basa sulla fornitura di servizi essenziali e sulla garanzia di un welfare state con i proventi delle entrate generate dalla vendita delle risorse all’estero. Un sistema, dunque, che si basa sul principio della “no taxation, no representation”, in cui la legittimità del sovrano deriva dalla distribuzione delle ricchezze.
Questo genere di relazione tra Stato e cittadini porta con sé le condizioni per l’instaurazione di sistemi autoritari, in cui mancano in buona parte il rispetto di diritti civili e libertà individuali (libere elezioni e processi di selezione della classe politica) e si ha la presenza di un forte apparato repressivo. La presenza di ingenti rendite non pare potersi tradurre in un consolidamento democratico.
Da un punto di vista economico, dunque, i RS sono storicamente caratterizzati dalla predominanza della rendita e da una dipendenza pressoché totale dalla vendita all’estero delle proprie risorse. Già da parecchio tempo è emersa con chiarezza la necessità di avviare processi di diversificazione dei sistemi economici per liberare questi paesi dalla dipendenza dalla rendita esterna, in un contesto geopolitico instabile e di forte fluttuazione dei prezzi all’interno del quale i suddetti modelli non sembrano sostenibili.
Gli stati del Golfo, ricchi di gas e pretrolio, sono unanimemente considerati gli esempi di maggiore “successo” di rentier states. Se nel corso degli anni ’90 si prospettava un futuro in cui le risorse di petrolio si sarebbero esaurite in tempi non particolarmente lunghi e il problema della scarsità dei combustili fossili sembrava obbligare consumatori e produttori a scelte drastiche, al giorno d’oggi i motivi che spingono emiri e sceicchi a prendere in considerazione i processi di diversificazione economica sono di ben altra natura. E’ pur vero che, in particolare nei casi di Oman e Bahrein, i giacimenti non sono infiniti, ma per la maggior parte di questi paesi la principale preoccupazione è data dalla drastica riduzione del costo dei barili di petrolio sul mercato internazionale e dal contesto geopolitico di fortissima instabilità, in particolare modo facendo riferimento al caso specifico del Medio Oriente.
Mentre, infatti, nei primi anni Duemila il costo medio di un barile di petrolio era aumentato costantemente arrivando a superare i 100 $ a barile, prima della crisi sanitaria internazionale questo prezzo sembrava essersi stabilizzato intorno ai 50 $. Ad aggravare questo trend ha senza dubbio contribuito in tempi recenti la pandemia di Covid-19 che ha addirittura trascinato sotto 0 il prezzo di un barile per il Western Texas Intermediate (Wti), ma già negli anni scorsi la tendenza al ribasso era evidente, sull’onda della cosiddetta rivoluzione dello shale Oil avvenuta circa un decennio fa, che ha permesso agli Stati Uniti di avvicinarsi alla tanto agognata indipendenza energetica. La messa a punto da parte americana di nuove tecniche di estrazione del petrolio derivante dalle rocce di scisto ha comportato un notevole aumento della produzione a livello globale e determinato quindi un consistente ribasso nei prezzi, già in calo dopo la crisi economica del 2008.
Un’ulteriore caratteristica propria dei RS è la fortissima dipendenza da manodopera proveniente dall’estero. In particolare nel settore privato, infatti, il ricorso a lavoratori stranieri è altissimo, e si arriva al caso limite degli Emirati Arabi Uniti in cui il 95% dei lavoratori è straniero. Proprio la discrepanza tra settore privato e settore pubblico ha caratterizzato i paesi del Golfo per lungo tempo, e, tradizionalmente, la stragrande maggioranza dei lavoratori locali trova impiego nel settore pubblico. In tempi recenti, il settore privato ha giocato un ruolo fondamentale nel processo di diversificazione dell’economia, con un altissimo tasso di crescita dei settori diversi da quello degli idrocarburi. Esiste tuttavia un problema occupazionale, in particolare in riferimento all’Arabia Saudita, che è di gran lunga il paese più vasto della regione e che fa registrare un tasso di disoccupazione giovanile preoccupantemente alto. I governi stanno vagliando le opportunità di riformare il mercato del lavoro e limitare, almeno parzialmente, l’arrivo di manodopera straniera (che nel regno saudita si attesta intorno al 75% del totale).
Va sottolineato come proprio l’utilizzo di manodopera straniera costituisca un fattore di stabilità per l’intera regione, dove l’invio di rimesse dei lavoratori stranieri verso i propri paesi di origine (su tutti Giordania e Egitto) rappresenta la garanzia di un flusso di denaro per quei paesi che vengono categorizzati come semi-rentier state.
La diversificazione economica rappresenta oggi la sfida principale per questi stati. Tutte le monarchie del Golfo hanno avviato programmi di ampio respiro con obiettivi ambiziosi che dovrebbero portarli, nel prossimo decennio, ad una radicale ristrutturazione dell’intera impalcatura del settore economico e a ridurre fortemente la dipendenza dalla vendita degli idrocarburi, in un contesto globale di maggiore attenzione verso le tematiche ambientali e in cui è aumentata la richiesta di “energia pulita”. Si possono quindi elencare “Saudi Vision 2030”, “Bahrein 2030”, “UAE Vision 2030”, “Oman 2020”, “Qatar National Vision 2030”. Alcuni paesi sono meglio avviati di altri sulla strada della diversificazione. In questo senso il ruolo di apripista va senz’altro assegnato agli Emirati Arabi Uniti, che si caratterizzano come paese maggiormente emancipato dalla rendita petrolifera, con grandi investimenti nei settori del turismo e delle energie rinnovabili. Dubai e Abu Dhabi sono oggi hub infrastrutturali e aeroportuali di rilevanza mondiale, e la dipendenza del PIL degli Emirati dall’oro nero è scesa dal 90% degli anni ’70 a meno del 30% attuale.
Uno degli strumenti a disposizione degli Stati per avviare i processi di diversificazione economica è quello dei fondi sovrani, che negli scorsi anni hanno assunto un’importanza crescente. Si tratta fondamentalmente di enormi fondi di investimento posseduti direttamente dagli Stati sovrani che vengono utilizzati per investire sulla crescita economica e per diversificare la gamma di attività e settori di interesse, e, in casi estremi, possono funzionare come strumento di controllo politico sull’economia di altri paesi. Nel caso degli investimenti nel calcio, in particolare facendo riferimento al caso dell’Arabia Saudita, si è anche parlato di uso strategico del mondo dello sport per “ripulire” l’immagine internazionale del paese dopo il caso dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi.
Alla luce di queste considerazioni, appare quindi abbastanza intuitivo come, di fatto, perché si concretizzi la tanto voluta diversificazione economica, è requisito fondamentale che il livello di rendita petrolifera si mantenga su livelli elevati per un lungo periodo di tempo, permettendo l’accumulo di ingenti quantità di denaro che verranno poi dirottati in attività economiche alternative o investiti in nuovi progetti di ampio respiro.
Di particolare interesse in questo senso è proprio il caso dell’Arabia Saudita, di gran lunga il paese più grande della regione, che dispone di circa il 16% delle riserve petrolifere mondiali e che sembra il più duramente colpito dalla crisi attuale. L’Arabia Saudita è una monarchia storicamente ultra conservatrice in cui domina un Islam di tipo wahabita con una concezione di investitura dall’alto del sovrano, che è custode dei luoghi sacri di La Mecca e Medina. Si ha quindi un unione tra la famiglia sovrana degli Al Saud e il potere religioso, che da’ vita a una struttura opposta a quella teorizzata dalla Fratellanza Musulmana e dall’Islam politico. Nel paese esiste una minoranza sciita, in particolare nella parte orientale nel paese, in prossimità dei principali giacimenti petroliferi. Le periodiche sollevazioni della minoranza, che rischiano di minare la stabilità del paese, vengono tenute sotto controllo con la concessione di limitate libertà religiose attraverso un compromesso nella dottrina wahabita che a livello teorico si oppone totalmente allo sciismo.
Proprio l’Arabia Saudita, con la nomina del nuovo principe ereditario Mohammed bin Salman, che salendo al trono interromperà la tradizionale successione tra fratelli dei re sauditi, ha annunciato nel 2015 un ambizioso piano di diversificazione economica, Vision 2030, con l’obiettivo di ridimensionare considerevolmente la dipendenza del paese dal commercio di idrocarburi e dare un nuovo volto ad un paese che è tradizionalmente stato ostile a ogni forma di modernità e liberalismo. Il progetto saudita è particolarmente ambizioso e si basa su grandi investimenti nel settore turistico, organizzazione di eventi sportivi di portata globale, investimenti nelle energie rinnovabili, lotta alla corruzione e alla disoccupazione.
Per finanziare Vision 2030, che tra le altre cose prevederebbe la costruzione della futuristica città di Neom sulle sponde del Mar Rosso, il governo saudita ha annunciato a fine 2019 la capitalizzazione della compagnia petrolifera Saudi Aramco (con un’offerta pubblica iniziale da 1,7 trilioni di dollari) e la vendita sui mercati finanziari di una piccola percentuali delle azioni della stessa compagnia.
Con il calo dei prezzi del petrolio è venuta meno la possibilità della monarchia saudita di garantire alti livelli di welfare alla propria popolazione (sia l’Arabia Saudita che altri paesi della regione negli ultimi anni sono stati costretti a ridimensionare considerevolmente i livello di sussidi garantiti alla popolazione e sono state inserite forme di tassazione, come l’IVA), e, nonostante la piena volontà degli addetti ai lavori di mantenere un silenzio totale sull’argomento, ci si interroga anche sull’effettiva possibilità di mantenere alti livelli di estrazione di idrocarburi nei prossimi decenni. L’Arabia Saudita (che ha registrato circa 60.000 casi di Covid-19, con un tasso di moralità inferiore all’1%) ha di recente annunciato l’adozione di nuove misure di austerità per fronteggiare il crollo del costo del petrolio causato dalla pandemia, e l’effettiva fattibilità di Vision 2030 sembra oggi fortemente in discussione. E’ probabile che il programma, che è reso possibile unicamente dai proventi della rendita petrolifera, subirà sia un rallentamento che un ridimensionamento. La stabilità del paese non sembra in pericolo, ma è chiaro che il momento obbliga la monarchia a scelte difficile e invise a larghe fasce della popolazione (il Ministro della Finanze Mohammed Al Jadaan ha parlato dell’adozione di “dolorose” misure economiche). Il governo ha già annunciato l’aumento dell’IVA dal 5% al 15% e la sospensione dell’indennità per i lavoratori del settore pubblico, che era stata introdotta da poco proprio con lo scopo di mitigare l’imposta sul valore aggiunto.
L’attuale congiuntura economica internazionale sembra ridimensionare notevolmente le ambizioni del rampollo Mohamed Bin Salman e va tenuto conto del fatto che il break even saudita, cioè il punteggio di pareggio del bilancio, si ha ad un valore di circa 80 $ a barile, notevolmente superiore all’attuale prezzo di mercato (poco superiore ai 30 $ sia per il Wti che per il Brent, in continuo rialzo nelle ultime settimane).
Sul piano internazionale il paese ha storicamente stretti rapporti con gli Stati Uniti, dettati in particolar modo da comuni interessi economici e energetici, e ricopre il ruolo di “guida” dei paesi dell’OPEC, il cartello dei produttori di petrolio che controlla più di un terzo della produzione mondiale.
In tempi più recenti, il coinvolgimento della Russia aveva dato portato alla nascita del cosiddetto OPEC+, con lo scopo di aumentare l’influenza sui prezzi tramite il controllo di una porzione maggiore della produzione mondiale, alla luce dell’ingresso del mercato di nuovi paesi produttori (Canada e Brasile su tutti). A marzo, il rifiuto dei russi di tagliare la produzione nonostante il crollo della domanda per la crisi del Covid-19 (sotto pressione della Rosneff, la principale azienda petrolifera russa che è contraria alla partecipazione al cartello OPEC+) e la scomposta reazione saudita, con la decisione di aprire il massimo i rubinetti di petrolio che ha causato un ulteriore crollo dei prezzi, potrebbero portare a un notevole raffreddamento delle relazioni tra i due paesi, che si basavano anche sulla collaborazione a livello militare (con il comune sostegno ad Haftar in Libia). Poco prima di Pasqua, nell’ambito del G20 è stato raggiunto un accordo per il taglio della produzione, che coinvolge tutti i maggiori produttori a livello mondiale. La massiccia riduzione della produzione prevista dall’accordo segna di fatto una sconfitta diplomatica per la Russia, che, avendo un break even più basso di quello saudita, aveva puntato i piedi a Marzo sui tagli per poi ritrovarsi ad accettare condizioni ancora meno gradite. La situazione resta fluida, e proprio nelle ultime ore, in vista del vertice OPEC+ (su Zoom) di settimana prossima, sono circolate voci riguardanti una possibile proroga dei tagli, che a livello teorico dovrebbero essere attuati a partire dall’1 luglio.
Sul piano internazionale, allo scoppio delle primavere arabe nel 2011 aveva seguito un cambio di atteggiamento da parte saudita, con l’inaugurazione di una fase di maggiore assertività e la decisione di impegnarsi in vari conflitti al di fuori dei propri confini. In particolare, da anni i sauditi sono impegnati in Yemen, e visto l’attuale scenario di crisi economica e la necessità di tagliare le spese c’è da aspettarsi quanto meno un ridimensionamento nell’impegno saudita nel conflitto e un tentativo di trovare una via di uscita.
La congiuntura internazionale rischia inoltre di mettere in crisi la capacità saudita di proiezione economica, politica e militare In Medio Oriente. L’Arabia Saudita ha sempre ricoperto il ruolo di garante degli equilibri della regione. All’eterna rivalità con l’Iran si è affiancato il tentativo di mantenere lo status quo in Medio Oriente, tramite il supporto economico garantito alle monarchie di Marocco e Giordania per scongiurare lo scoppio di nuove primavere arabe o, in tempi recenti, il sostegno al Bahrein nell’opposizione alle sollevazioni della maggioranza sciita. Anche al tentativo di mantenere stabili gli equilibri nella regione si devono gli sforzi della monarchia saudita di stimolare una maggiore collaborazione tra le monarchie del Golfo, con la creazione del Consiglio di Cooperazione del Golfo che si riunisce periodicamente e all’interno del quale l’Arabia Saudita esercita un’indiscussa egemonia.
La vicenda del blocco economico verso il Qatar, accusato di appoggiare Fratellanza musulmana e Hamas e di intrattenere rapporti economici con l’Iran per il comune sfruttamento del principale bacino di gas nel Golfo persico, ha segnato una brusca battuta d’arresto nel processo di integrazione regionale, paralizzando di fatto l’azione del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Il Qatar ha annunciato l’uscita dall’OPEC comunicando la volontà di investire nel futuro prossimo sul mercato del gas. La crisi sembra essere parzialmente rientrata con la ripresa dell’attività del CCG con partecipazione del Qatar ma il blocco economico da parte di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Egitto (che avevano presentato un elenco di 13 richieste da soddisfare per la normalizzazione dei rapporti, tra cui la chiusura del canale televisivo Al Jazeera) rimane.
Più recentemente il presidente americano Trump, già in imbarazzo per la vicenda del giornalista Khashoggi di fine 2018, sembra aver messo parzialmente in discussione il proprio incondizionato supporto al governo saudita, e la decisione di ritirare dal paese i sistemi di difesa Patriot sembra un chiaro segnale nei confronti di re Salman, nonostante la conferma degli importanti legami strategici in un successivo colloquio telefonico. I rapporti tra i due paesi sembrano essere entrati una nuova fase per via della maggiore indipendenza energetica statunitense, che potrebbe dare luogo ad un paradigma diverso nella relazione con l’Arabia Saudita, fermo restando il suo di ruolo di pilastro regionale in funzione anti-iraniana. Il comportamento saudita nella recente crisi petrolifera e le “scaramucce” con la Russia per il taglio della produzione non sono certamente piaciuti a Donald Trump, e il presidente americano è arrivato a minacciare il ritiro dei propri soldati dal paese. Il crollo dei prezzi di aprile, infatti, rischiava di sferrare un duro colpo al mercato dello shale Oil americano, che si basa su complesse tecniche di estrazione e che non è in grado di reggere prezzi di mercato troppo bassi. Le estrazioni delle trivelle USA, intanto, sono letteralmente crollate.
In conclusione, la pandemia e la conseguente crisi petrolifera sembrano mettere in difficoltà l’Arabia Saudita le altre monarchie del Golfo, che si trovavano nel bel mezzo di un processo di transizione economica la cui riuscita viene messa, almeno per il momento, in seria discussione. L’ulteriore crollo dei prezzi del petrolio crea nuove difficoltà nella strategia di riconversione socio-economica dei rentier states, anche perché la ripresa post-crisi sarà graduale, a causa dell’inevitabile calo nei consumi e della presenza di riserve accumulate in questo periodo di sovrapproduzione. La strada per superare gli ostacoli nel processo di diversificazione economica passa senz’altro attraverso una maggiore integrazione regionale e un rafforzamento dei meccanismi di cooperazione tra “vicini”, in uno scenario in cui l’OPEC+ ha dato chiari segnali di mal funzionamento e le relazioni tra Arabia Saudita e USA hanno fatto registrare un momentaneo raffreddamento (in contro tendenza con quanto successo nei primi anni di presidenza Trump).
Inoltre, le monarchie del Golfo devono accentuare i propri sforzi per accantonare quanto prima i contratti sociali su cui si fondano le relazioni tra sovrani e popolazione, e la speranza è che così facendo si possa assistere ad un effettivo consolidamento democratico. Riforma del mercato del lavoro e social engineering saranno elementi chiave in questo senso.
Ancora oggi, le economie di questi paesi sono eccessivamente dipendenti da fattori esterni e da shock esogeni. Oltre al rafforzamento della cooperazione regionale, ci si aspetta che i paesi del Golfo abbiano la capacità di rafforzare le relazioni commerciali con i paesi asiatici e con nuovi partner commerciale in modo da attrarre investimenti diversificati che creino gli ammortizzatori per rispondere efficacemente agli shock geopolitici e finanziari.