«In compagnia dei suoi libri, crollavano le mura della prigione» disse Nelson Mandela in occasione della morte di Chinua Achebe, il 22 marzo del 2013.
Padre indiscusso della letteratura africana, riferimento imprescindibile per chiunque sia venuto dopo di lui, Chinua Achebe ha cambiato il panorama della letteratura mondiale. Non solo ha ispirato gli sviluppi della letteratura africana, ma ha stravolto lo sguardo dell’Occidente sull’Africa e dell’Africa sull’Africa. Tradotto in più di cinquanta lingue, con la sua scrittura Achebe è stato capace di costruire un nuovo ordine di realtà, di dare una grammatica per pensare l’impensabile. Con il suo primo romanzo, Le cose crollano, scritto nel 1958, porta l’orizzonte tragico al di là della tradizione occidentale. Un esempio di grande letteratura che ci ricorda che con le parole si può cambiare il mondo.
Albert Chinualumogu Achebe nasce nel 1930 nella regione della Nigeria sud orientale chiamata Igboland, terra degli Igbo. I genitori si erano convertiti al protestantesimo, gli altri parenti invece continuavano a praticare la tradizionale religione Igbo. In famiglia parlava Igbo, all’età di otto anni cominciò a frequentare la scuola inglese e ad essere istruito secondo i principi del paese colonizzatore. Vinse una borsa di studio per frequentare un collegio inglese che raccoglieva i migliori allievi provenienti dalle varie regioni della colonia. Qui comincia a leggere i classici della letteratura coloniale che raccontavano l’Africa dal punto di vista dei colonizzatori. Achebe ricorda che, da ragazzo, non riusciva a vedere se stesso come africano, non si rispecchiava in quei neri raccontati come selvaggi, stupidi o malvagi. Li odiava. Gli veniva naturale schierarsi con i bianchi, che erano buoni, ragionevoli, responsabili, intelligenti e coraggiosi. Scoprì così l’enorme potere che hanno le storie e l’enorme potere che ha chi le racconta, che può costruire, tramite le parole, il mondo che più gli piace o che gli serve raccontare. E se chi legge ci crede, aderisce a quell’immagine, quel mondo esiste. «Cominciò a farsi strada in me l’idea che, nonostante un romanzo trattasse indubbiamente materiale di finzione, poteva allo stesso modo essere vero o falso. Non della stessa verità o falsità con cui giudichiamo una notizia, ma per altri aspetti, quali l’integrità o l’imparzialità di chi scrive, l’intenzione con cui qualcosa viene scritto». Diventa chiaro allora quale ruolo debba avere lo scrittore nell’Africa colonizzata dall’Europa: raddrizzare la rappresentazione mistificata che la letteratura europea aveva prodotto.
Quando scrive Le cose crollano Achebe ha 28 anni, è il 1958, la Nigeria ancora non esiste. Prima della dominazione coloniale, lo spazio che noi chiamiamo Nigeria era un territorio abitato da tribù anche molto diverse per lingua, cultura e tradizioni, senza un potere centrale. La Nigeria non esisteva come entità politica, solo come denominazione geografica, che indicava un vasto territorio attraversato dal fiume Niger. Venne poi una compagnia mercantile inglese, la Royal Niger Company, costituita nel 1885 all’indomani della Conferenza di Berlino, che soggiogò, con mandato della corona inglese, tutte le popolazioni indipendenti della zona meridionale del fiume Niger e costruì un’organizzazione centralizzata, dividendo l’intero territorio in 370 tribù. Dopo la Seconda guerra mondiale, in risposta alla crescita dei movimenti nazionalisti e alle richieste di indipendenza, l’amministrazione britannica cominciò a lasciare più autonomia e a governare il territorio attraverso tre federazioni separate, secondo un criterio di dominante etnica (Hausa a nord, Yoruba a ovest e Igbo a est) che nel 1960 confluiranno in un unico Stato indipendente. Quando Achebe comincia a scrivere è un momento di grande fermento politico: è la vigilia della stagione dell’indipendenza in tutto il continente africano. Achebe capisce che lo scrittore ha un ruolo fondamentale nella costruzione del mondo a venire, deve recuperare le fila di una storia spezzata, dare una grammatica culturale, legittimare il passato pre coloniale per poter immaginare un futuro. La colonizzazione era stata uno stravolgimento radicale, ma l’Africa non era nata con l’avvento dell’Europa. Gli africani dovevano riappropriarsi della propria storia, raccontarla a modo loro, liberi dal giogo delle rappresentazioni prodotte dagli europei. Achebe tuttavia, non rimuove l’influenza europea, per scrivere le sue opere sceglie l’inglese, pur contaminandolo in ogni modo possibile con formule e modi di dire della sua lingua nativa. Quella lingua che «la storia ci ha cacciato nella gola a forza» era all’epoca l’unica possibilità di essere compreso dal maggior numero di persone possibile, una lingua franca per un paese che contava sette lingue principali e più di cinquecento lingue minori. La necessità pratica e politica di scrivere in inglese è anche urgenza artistica, per dare espressione a quello scontro di civiltà costitutivo della costruzione identitaria dell’Africa postcoloniale, che sarà tema costante di tutta la scrittura di Achebe.
Quando Achebe propose il manoscritto di Le cose crollano all’editore londinese William Heinemann, fu accolto da stupore e costernazione. Nessuno sapeva cosa farne, la prima reazione fu «Chi mai potrebbe comprare un romanzo scritto da un africano? Non ci sono precedenti». Non era del tutto vero, altri romanzi erano stati scritti, ma nessuno di questa portata. Le cose crollano proponeva un gesto rivoluzionario: raccontare la vita di un villaggio africano, prima della colonizzazione europea, da una prospettiva africana.
Siamo a Umuofia, un immaginario villaggio da qualche parte nel basso Niger, alla fine dell’Ottocento, all’epoca dello Scramble for Africa, quando le grandi potenze europee si rincorrevano per accaparrarsi ogni possibile scampolo del continente africano. Ad Umuofia abitano genti Igbo, organizzate in un sistema non centralizzato di gruppi locali indipendenti, senza un capo, che prendono decisioni riuniti in assemblee. Dalla prima riga si presenta il titanico protagonista, Okonkwo, un uomo inquieto, arrabbiato, capriccioso, violento. Irato e offeso, come il nostro mitologico Achille, insegue la gloria, lotta rabbioso per nascondere l’ombra del fallimento di suo padre, uomo debole e ozioso; lotta contro il suo destino, su cui solo nell’ultima pagina vincerà, portandolo a compimento. Dietro la parabola di Okonkwo, che da guerriero forte, famoso e rispettato morirà come reietto, indegno di sepoltura, Achebe tratteggia la vita di questa comunità Igbo, ci dà un resoconto realistico, senza mistificare una realtà che, nonostante affascinanti immagini di straordinaria poesia, è tutto fuorché idilliaca: se il raccolto di Ignami va male, non c’è da mangiare; la mortalità infantile è altissima: solo se un bambino sopravvive oltre i sei anni si dice che è venuto per restare; ci sono usanze crudeli come sacrificare esseri umani che si pensano abitati da spiriti maligni o allontanare i gemelli o gli albini. Quando arrivarono i primi missionari coloro i quali avevano più sofferto per le leggi del villaggio furono i primi a convertirsi. Come accade per Nwoye, figlio maggiore di Okonkwo, disprezzato dal padre perché debole, che cova risentimento per la violenza paterna, e viene affascinato dalla «poesia di questa nuova religione era qualcosa che aveva sentito fino nel midollo. L’inno sui fratelli che stavano nelle tenebre e nella paura sembrava rispondere a domande indefinite e insistenti che ossessionavano la sua giovane anima. La mente acerba di Nwoye ne fu profondamente turbata».
L’arrivo dei bianchi viene assorbito dal villaggio con la resilienza delle strutture non rigide, capaci di assorbire la novità senza vedere in essa una minaccia. «Non è nostra abitudine combattere per i nostri dei» dice uno dei saggi «Gli dei portano avanti le loro battaglie da soli». Non c’era motivo per il clan di dare battaglia ai cristiani, che in poco tempo si insediarono e cominciarono a organizzarsi. Oltre alla chiesa l’uomo bianco avevano portato anche un governo e un tribunale, dove un commissario di distretto giudicava i casi «da perfetto ignorante», non conoscendo le consuetudini Igbo. Oltre alla sua «religione folle» l’uomo bianco aveva portato anche un emporio e i beni che gli Igbo producevano venivano pagati bene. Di fronte ai mutamenti veloci e radicali del suo clan «Okonkwo era molto abbattuto, e non solo per sé. Era triste per il clan, che vedeva crollare e dividersi, ed era triste per i bellicosi uomini di Umuofia, che così inspiegabilmente erano diventati molli come donne».
La voce del colonizzatore arriva solo nell’ultimo paragrafo del libro, il romanzo si chiude con il frastornante passaggio da una prospettiva africana a una prospettiva europea: il Commissario distrettuale riflette su come potrà descrivere questi eventi nel libro a cui sta lavorando, che sceglie compiaciuto di intitolare La pacificazione delle tribù del Basso Niger e che narrerà la gloriosa opera di civilizzazione, per portare felicità, pace e cultura nel mondo. La grandezza della tragedia di Okonkwo verrà ridotta a succulento aneddoto per intrattenere i lettori: «La storia di quest’uomo che aveva ucciso un messaggero e si era impiccato avrebbe reso una lettura interessante. Si potrebbe quasi scrivere un intero capitolo su quest’uomo. Forse non un intero capitolo ma un paragrafo ragionevole, in ogni caso». Questo distratto pensiero lascia il posto al silenzio, in cui tragicamente si perde la storia di Okonkwo.
È l’ultimo atto di un mondo che crolla. Okonkwo è un personaggio complesso, la cui crisi è costitutiva, precede l’arrivo dei missionari. Porta una frattura interiore originaria, che si squarcia di fronte a un fatto storico catastrofico come l’arrivo dei colonizzatori. Il disintegrarsi di Okonkwo è immagine della disintegrazione del suo villaggio, dello sfaldarsi di un mondo.
Non c’è nostalgia o romanticismo in questo racconto del mondo precoloniale. Non c’è giustificazione, non si cerca di scusare il male, né di guardare con nostalgia al bene. Tuttavia, la critica al colonialismo è radicale, come radicale è il rifiuto dell’idea che prima dell’arrivo degli europei l’Africa fosse un foglio bianco senza traccia di cultura; demolisce il pregiudizio che il sottosviluppo economico corrisponda a una mancanza di complessità intellettuale o che la complessità psicologica sia appalto privilegiato dell’Europa. Achebe va oltre gli stereotipi e il paternalismo, non viene mai meno alla sua responsabilità di scrittore che non scioglie mai l’ambiguità in risposte facili, che complica sempre il quadro. È meno semplice prendere posizione, questo può inquietare la nostra buona coscienza che preferisce vedere chiaramente chi è il buono e chi è il cattivo, ma innalza la sua scrittura verso i cieli della grande letteratura.
Un poeta, uno scrittore, può essere universale e al tempo stesso impegnato nel suo luogo e nel suo tempo? Le cose crollano ci racconta di un piccolo villaggio Igbo, ci porta in un territorio non familiare, eppure leggendolo Umuofia diventa il centro del mondo, le vicende umane dei personaggi si agganciano a noi. Portandoci in quel mondo lontano, Achebe espande la coscienza del nostro. La scrittura di Achebe si dichiara politica, impegnata, pensata come missione sociale e culturale, riesce a essere totalmente dentro il suo tempo e contemporaneamente ne trascende i confini, tocca un cuore di umanità universale, regala quel profondo senso di segreta rivelazione che abbiamo scoperto con Dante, Shakespeare o Euripide.
Every empire, however, tells itself and the world that it is unlike all other empires, that its mission is not to plunder and control but to educate and liberate.
Edward Said
La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, da ragazzina, leggeva solo romanzi inglesi, ambientati in Inghilterra. Pensava che nei libri non ci fosse spazio per la gente africana. Chinua Achebe è stato un punto di svolta per lei, e per tutti gli scrittori che hanno raccolto la sua eredità. Un’altra scrittrice, Muthoni Garland, dice che qualsiasi casa africana in cui ci sono libri ha una copia dei romanzi di Achebe. Le espressioni usate dai suoi personaggi, i proverbi citati, sono diventati di uso comune come le parabole del Vangelo, scrive un altro grande erede di Achebe, Binyavanga Wainaina. Al di là del fenomeno storico del colonialismo, la potenza della scrittura di Achebe continua a parlare, a interrogare, a commuovere. Ancora oggi e anche qui da noi nell’avanzato occidente, dove gli effetti disumanizzanti della cultura dell’arroganza sono ancora all’opera. Achebe ci spinge a interrogarci su come, quando e perché nasce una certa narrazione, su di chi sia la storia che stiamo raccontando o che ci viene raccontata. Il pericolo di un’unica storia, ultimo libro di Chimamanda Ngozi Adichie, raccoglie e prosegue la riflessione di Achebe. Le storie non sono innocue, si strutturano su rappresentazioni del mondo che sono legittimate da un potere. È impossibile parlare di storie senza parlare del potere. La parola Igbo che usa Chimamanda Ngozi per parlare delle strutture di potere è nkali, che si può tradurre come “essere più grande di un altro”. Come i nostri mondi politici ed economici, anche le storie sono definite da nkali. Come sono raccontate, chi le racconta, quando vengono raccontate, quante se ne raccontano, tutto questo dipende dal potere. Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di renderla la storia finale di quella persona. Il poeta palestinese Mourid Barghouti scrive che se si vuole espropriare un popolo, il modo più semplice di farlo è di raccontare la loro storia. Tutto dipende da che storia scegliamo di raccontare: se iniziassimo la storia dell’America con le vicende dei nativi americani e non con l’arrivo dei britannici avremmo una storia totalmente diversa. «Quando ci rendiamo conto che non c’è mai una storia unica riguardo a nessun posto – conclude Chimamanda Ngozi – riconquistiamo una sorta di paradiso».