Un nuovo modo di guardare
Per osservare un quadro, spesso bisogna fare un passo indietro, così da avere una visione d’insieme. Dettagli che da vicino sembravano privi di senso, acquistano un significato ben preciso. Per osservare il nostro pianeta, il passo indietro è leggermente più grande, pari ad almeno 200 km, ma ormai non è affatto impossibile.
Con più di 15 mila satelliti in atmosfera, siamo in grado di osservare praticamente tutto, e abbiamo una serie di servizi che diamo per scontati. GPS, Google Maps e simili, previsioni del tempo, connessioni ultra veloci, monitoraggio ambientale di zone inaccessibili e tanto altro. Spesso ci si immagina un satellite come un’enorme complesso elettronico, ma la scienza sta progredendo verso satelliti sempre più compatti: il Giappone già nel 2013 lanciò un satellite di soli 27 cm3, per monitorare i ghiacci artici.
Ad oggi il problema non sta più nel riuscire a mandare in orbita satelliti, ma anzi nel ripulire l’atmosfera di tutti i vecchi satelliti ormai non funzionanti, che continuano a orbitare intorno al pianeta.
Una delle prime cose a essere rivoluzionata per tutti noi è stata la cartografia, e con essa il modo di esplorare. Si è passati dalle cartine a un mondo digitalizzato, che in poco tempo è diventato tridimensionale. Con Google Earth® e simili, il mondo intero è ormai visibile in 3D, cosa che permette di preparare al meglio anche le spedizioni in luoghi remoti. Si può ripercorrere comodamente da casa la via normale dal campo base fino alla cima dell’Everest per esempio, e allo stesso modo gli alpinisti possono studiare nuove vie guardando direttamente i modelli 3D delle montagne.
Ghiacciai: dai satelliti alla crisi idrica
Oltre agli alpinisti, anche i glaciologi osservano le aree fredde del pianeta dall’orbita terrestre. Dai ghiacciai dipende tutta la rete idrica a valle. Le dighe, per poter rilasciare la quantità ottima di acqua a valle, devono prevedere l’afflusso idrico proveniente dai ghiacciai durante tutta la stagione. Se un ghiacciaio si sta ritirando troppo velocemente bisogna prevedere sistemi alternativi per l’approvvigionamento d’acqua, senza arrivare impreparati. La temperatura delle rocce in alta quota, formate anche da permafrost (terreno congelato – ne abbiamo già parlato qui), incide sul rischio idrogeologico del versante, e quindi su chi abita in aree a rischio.
Pensando più in grande, la fusione delle calotte artiche, antartiche e della Groenlandia incide sulle nuove rotte commerciali, sull’innalzamento dei mari e sulla modifica irreversibile di molti ecosistemi.
È quindi evidente che avere dati sullo stato dei ghiacciai è fondamentale per molti aspetti. Fino a pochi anni fa, l’unico modo per misurare la velocità e la superficie di un ghiacciaio era quello di andare di persona sul ghiacciaio e misurare a mano, anno dopo anno. Grazie ai satelliti, si possono avere immagini giornaliere o settimanali dei ghiacciai, con la risoluzione di qualche decina di metro. Con queste, si possono stimare velocità e superficie dei ghiacciai da remoto, e anche in maniera automatica. È grazie a questi dati che si ricavano previsioni a breve e lungo termine sullo stato del ghiacciaio e quindi della rete idrica a valle.
I ghiacciai alpini venivano monitorati anche prima dell’uso massivo di satelliti. Al contrario, per i ghiacciai più lontani ed estesi, come quelli della Groenlandia o antartici, i satelliti permettono misure finora quasi impossibili.
Acqua, terra, aria
Misure che richiederebbero anni di osservazioni sul campo, diventano possibili grazie alle osservazioni satellitari. Per studiare il Climate Change, e il generale il clima terrestre, servono enormi moli di dati.
Le acque oceaniche governano la formazione e il movimento delle masse d’aria e d’acqua, e molte specie vivono in particolari condizioni delle loro acque. La salinità delle acque ci può dire molto sulle circolazioni di queste masse, e sull’evolversi di fenomeni inter-annuali come El Niño. Mappare su tutti gli oceani la salinità delle acque richiederebbe anni e anni di lavoro sul campo, mentre i satelliti europei (ESA – SMOS mission) e quelli americani (SMAP e Aquarius missions) mappano la salinità degli oceani e mandano i dati ai server dei ricercatori.
Diversi dati sono acquisiti invece sulle terre emerse. La salute delle piante è misurata tramite l’indicatore NDVI (Normalized Difference Vegetation Index) calcolato sulle immagini satellitari. Si può così misurare nel dettaglio lo stress idrico della vegetazione, ovvero la necessità di acqua delle piante. In questo modo gli agricoltori possono ottimizzare l’irrigazione, consumando meno acqua ed energia. Non solo satelliti vengono usati per l’agricoltura, ma anche droni, sempre per controllare in automatico lo stress idrico. Quello per cui sono indispensabili i satelliti è invece il monitoraggio delle grandi foreste e dei biomi terrestri. Il polmone verde dell’Amazzonia è tenuto sotto stretta sorveglianza dai sensori che fluttuano sopra alle nostre teste, e dai ricercatori di GlobBiomass. Osservando la biomassa da così lontano, si vede un un secondo polmone verde, più distribuito sul territorio, nelle zone boreali.
Questa è la prova che anche piantare un solo albero a testa può servire a riequilibrare i livelli di ossigeno e anidride carbonica in atmosfera, perché l’insieme di tutti gli alberi può costituire un polmone verde per il pianeta. Lo stesso vale per un bosco sottratto alla deforestazione, o ad un prato salvato dalla cementificazione.