Così Luigi Ghirri, in una sorta di Manifesto della nuova fotografia italiana, presenta nel 1984 il suo grande progetto, Viaggio in Italia. Un’impresa collettiva con 20 fotografi e un punto di svolta della fotografia italiana contemporanea. Ghirri parla di un intento nuovo, di nuovi interrogativi che lo porteranno a insieme ai suoi compagni de il Viaggio a rivedere il concetto di paesaggio in fotografia. Con il boom economico il nostro territorio aveva subito profonde trasformazioni, si avverte l’esigenza di trovare un’identità in questi luoghi, insieme a un senso di spaesamento e di nostalgia che aleggia nelle immagini.
Il progetto non è altro che un viaggio alla ri-scoperta del paesaggio nei suoi elementi primari. Oggetto della ricerca sono gli ambienti che caratterizzano le vite degli italiani, dalla provincia alla città, il Paese in tutta la sua bellezza e tutta la sua bruttezza, senza gerarchie predefinite. Non esiste un canone per stabilire cosa è bello e cosa no, cosa è importante fotografare e cosa invece è irrilevante. Una collina, un viale milanese, un capannone industriale. Queste fotografie non hanno subito colpito nel segno, sono apparentemente semplici. Ma la ricerca indaga proprio il banale, l’enigma del quotidiano, i luoghi che non ci saremmo mai aspettati essere protagonisti di una foto.
Subito dopo la pubblicazione di Viaggio in Italia, l’ente pubblico diventa un grande committente per i fotografi. Comuni, Province e Regioni assegnano molti lavori di questo tipo.
Oggi il MiBACT – Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo – che continua ad ispirarsi a Ghirri e le sue opere cardine, Atlante e Viaggio in Italia, ha indetto una open call rivolta ai giovani fotografi italiani. L’obiettivo è:
Dopo una lunga polemica sui social, a proposito della questione della visibilità sostituita al pagamento, il Ministero ha fatto una modifica al bando: ognuno dei fotografi selezionati riceverà un riconoscimento di 2000€. Bene, per valorizzare il territorio e mettere a fuoco la realtà durante il lockdown, pagare un compenso a chi avrà il compito di farlo è il minimo. I giovani fotografi – soprattutto se hanno 39 anni – hanno le stesse spese di tutti, investono molto nel proprio lavoro per poter girare con l’attrezzatura adatta e sono costantemente soggetti a questa retorica un po’ fine a se stessa della visibilità. La visibilità potrà pure aprirci canali, ma non ci restituisce i soldi e il tempo che abbiamo investito, né ci consente di pagare le bollette. Un progetto che abbia lo scopo di raccontare il nostro Paese, in uno dei momenti più delicati della sua storia, richiede l’esperienza di un autore, la capacità di muoversi liberamente all’interno di certi linguaggi (e territori) e di raccontare l’attualità attraverso il proprio strumento. Questo processo, anche per i migliori, richiede tempo e risorse.
Un altro punto è l’esigenza, non solo del MiBACT, di direzionare la ricerca verso i concetti di vuoto e sospensione. Queste sono parole chiave di percorsi tematici già scritti. Siamo rimasti tutti impressionati dai video della Wuhan deserta, con i suoi grattacieli silenziosi immersi delle nubi di disinfettante. Peccato che l’Italia non sia mai stata così. Code chilometriche davanti a supermercati, fruttivendoli, alimentari, negozi di detersivi, erboristerie, farmacie, postini, corrieri, riders, operai, volontari, panetterie, officine, ciclisti, ristoranti delivery e mercati coperti, runners, medici e infermieri. Eppure, si continua a cercare l’immagine del vuoto, si continua a cercare uno scenario post-apocalittico nelle città come nei film di fantascienza.
È inutile forzare la ricerca fotografica su qualcosa che semplicemente non è il simbolo dell’Italia ai tempi del Covid. La fotografia non ambisce a dare delle risposte, piuttosto pone questioni. Qual è la condizione psichica, familiare, sociale ed economica di tutti noi italiani? Come si traduce in immagine una riflessione di questo tipo? Cercare delle risposte in una piazza vuota potrebbe non portare da nessuna parte.