Lo scorso 23 febbraio il presidente della Somalia, Mohamed Abdullahi Mohamed, ha firmato una nuova legge elettorale che introduce il suffragio universale in tutto il paese. E’ un avvenimento di portata storica: dopo oltre cinquant’anni la popolazione somala potrà finalmente eleggere direttamente i membri del proprio parlamento. Dopo oltre due decenni di sanguinosa guerra civile e un altro decennio in cui gli scontri fra clan hanno reso impossibile trovare un equilibrio democratico, è una notizia che fa sperare in almeno un po’ di luce, nonostante un quadro politico che resta pericolosamente instabile.
Questa informazione è stata data in Italia da Post e da Nigrizia. Non è facile trovare notizie sulla Somalia nei media italiani, non solo in questi giorni, non solo per l’emergenza corona-virus. Eppure la Somalia è stata una colonia italiana. Già dalla seconda metà dell’Ottocento l’Italia cominciò a dimostrare interesse per i territori del Corno d’Africa, interesse che diventò presto dominazione coloniale; è all’Italia che, al termine della Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite affidarono il compito di traghettare la Somalia verso l’indipendenza, dieci anni di protettorato per insegnare la democrazia. Andò male: nel 1969 ci fu un colpo di stato e il dittatore Barre seppellì qualsiasi tentazione democratica, fino alla devastante guerra civile scoppiata nel 1991, che gettò il paese nel caos.
L’Italia non ha ancora riconosciuto il suo passato coloniale, non ricorda, ha rimosso. Non mancano archivi o storiografia a riguardo, tuttavia l’Italia sembra piuttosto restia, impermeabile ad affrontare l’eredità coloniale e soprattutto come le relazioni con le colonie si sono dispiegate nel tempo. Temi che, dalla seconda metà del Novecento, tutte le altre potenze europee hanno dovuto in modi e tempi diversi affrontare, e che collocherebbero l’Italia, risvegliata dai torpori della negazione storica, in una diversa prospettiva internazionale. Tradizionalmente terra di gente che emigra, l’Italia si è trovata negli ultimi decenni impreparata all’inversione di tendenza. A raddrizzare il tiro ci stanno pensando soprattutto scrittrici e scrittori immigrati, o di seconda generazione, che ci restituiscono uno sguardo dall’esterno sul nostro paese, sulle vicende coloniali italiane e sull’eredità sommersa che queste hanno lasciato nei paesi colonizzati e nella nostra mentalità.
I primi Somali arrivarono nel nostro paese negli anni Cinquanta, quando l’Italia operava in Somalia attraverso l’Amministrazione Fiduciaria per condurre il paese all’indipendenza, che avvenne nel 1960. Erano per lo più giovani appartenenti ai ceti più alti, che venivano in Italia per perfezionarsi negli studi e prepararsi a diventare la prima classe dirigente della Somalia indipendente. Era la prima volta che una popolazione africana veniva a vivere nel nostro paese. Dopo nove anni di democrazia, nel 1969 prese il potere il generale Mohammed Siad Barre, che instaurò un regime autoritario di ispirazione socialista. Barre si presentò all’inizio come un riformatore: decretò l’uguaglianza di tutti i cittadini, rese gratuita l’assistenza sanitaria e l’educazione scolare. Ma questi provvedimenti “modernizzatori” avevano come rovescio della medaglia una feroce e violenta repressione del dissenso, l’utilizzo di ogni mezzo contro chiunque mettesse in discussione la leadership, dalla tortura all’eliminazione fisica. Fu l’inizio della diaspora somala: molti oppositori politici furono costretti a lasciare il paese e videro nell’Italia la destinazione naturale. Terminata la fase del colonialismo storico con la fine della Seconda Guerra Mondiale, tra l’Italia e i territori del Corno d’Africa era rimasto un rapporto ambiguo. L ’Italia continuava ad avere grandi interessi economici e politici in Somalia e continuava ad esercitare una forte influenza culturale: l’italiano è stata lingua ufficiale fino al 1963 (lingua ufficiale dell’Università nazionale fino al 1991), fino al 1974 l’insegnamento nelle scuole è stato svolto in italiano, che è rimasta la lingua di riferimento per la classe dirigente del paese anche nei decenni a venire. Le generazioni che negli anni Settanta si trovarono costrette a migrare erano cresciute avendo l’Italia come riferimento linguistico e culturale.
Nel 1990 scoppiò la guerra civile e cominciò la grande fuga. Molti somali si rifugiarono nell’immediato in Kenya e in Etiopia. Altri cercarono di raggiungere l’Europa. Una volta eliminato Barre dalla scena politica, i vari gruppi di clan cominciarono a combattersi uno contro l’altro per spartirsi il potere. Vent’anni di dittatura, di soppressione del dissenso e del dibattito politico avevano impedito il formarsi di una classe dirigente. La Somalia sprofonda nel caos e nell’anarchia, uno stato fantasma con una popolazione dispersa ai quattro angoli del mondo, preda di lotte tra clan e mafie che cercano di trarre guadagno da ogni genere di traffico, da quello dei rifiuti tossici a quello degli organi. Sul finire degli anni Novanta il paese finisce nell’orbita del wahabismo, un islam radicale, fino a quel momento sconosciuto ai Somali, popolo a quasi totalità musulmana ma lontanissimo dal fondamentalismo. Nel caos, ha preso vita e continua a crescere Al Shabaab, uno dei gruppi terroristici più feroci al mondo, legato ad Al-Quaeda, tristemente conosciuto per le numerose stragi che di quando in quando macchiano le pagine dei nostri giornali e che negli ultimi anni sta dando filo da torcere all’esercito americano.
E’ tra il 1990 e il 1991 che cominciano i viaggi sui barconi verso Lampedusa. Diversamente dal passato però l’Italia non è più meta privilegiata, è considerata un paese di prima accoglienza in Europa, un punto di partenza verso mete migliori come il Canada, gli Stati Uniti, il Regno Unito o la Svezia. Dal 1990 è cominciato un flusso migratorio continuo e su larga scala che ancora non si è concluso, dato il perdurare dello stato di instabilità politico-istituzionale del paese. Mentre la migrazione degli anni Settanta era propria di famiglie nucleari, l’emergenza della guerra civile ha portato alla dispersione di intere famiglie per tutto il globo. Questa comunità senza patria, in bilico tra il ricordo della propria terra lontana, le difficoltà di un’integrazione dolorosa in una società che non riconosce nulla di ciò che loro sono e la coscienza che il proprio paese così come lo conoscevano non esiste più, prende voce tramite scrittori e scrittrici come Ubah Cristina Ali Farah.
Ubah Cristina Ali Farah è nata a Verona da madre italiana e padre somalo, ma cresciuta a Mogadiscio, dove ha studiato alla scuola italiana. Ha vissuto in Somalia fino al 1991 quando è stata costretta a fuggire con la famiglia a causa della guerra. Aveva diciotto anni e un figlio appena nato. Dopo due anni in Ungheria è tornata in Italia, prima a Verona poi a Roma. « Mi sono trovata di fronte a una società che non sapeva niente del mio passato, anche della mia conoscenza della lingua italiana, che per me invece era un fatto scontato. – racconta Ali Farah in un’intervista – Mio padre era arrivato in Italia negli anni Settanta, grazie a una delle borse di studio offerte dal governo italiano nelle sue ex colonie. » Con il suo secondo romanzo, Il comandante del fiume, Ali Farah racconta i figli della diaspora, il disagio e lo spaesamento delle seconde generazioni, non più somale ma non proprio ancora italiane. Ragazzi non proprio italiani né sul piano giuridico né tanto meno agli occhi degli altri. Questo libro è dedicato al figlio Harun, nato sotto le bombe a Mogadiscio, cresciuto in Italia.
Yabar è un ragazzino arrabbiato alla ricerca della verità. Vive a Roma con la madre, il padre se ne è andato e Yabar non sa il perché. Non si ricorda nemmeno più che faccia abbia, di lui gli resta una foto che tiene nel portafogli, un collage spaventoso in cui il padre ha un occhio più grande dell’altro, la bocca sul collo e la fronte troppo bassa. Yabar è stato bocciato per la seconda volta in terza liceo, ciò significa che dovrà cambiare scuola. Continua a rimuginare sul quella parola respinto scritta accanto al suo nome, gli sembra che lo descriva bene, che racconti in breve la sua storia. Il mondo di Yabar è tutto al femminile: sopra ogni cosa regna la madre, donna intelligente e risoluta; poi c’è Sissi, la sua migliore amica, una sorellina acquisita; e la mamma di Sissi, la pittoresca zia Rosa, che riversa la sua nostalgia per la Somalia in arredi zebrati, profumazioni legnose, busti e amuleti farlocchi che vengono dal mercato di Piazza Vittorio. Il padre è un’assenza e un’ossessione. La bussola di Yabar è un’antica leggenda somala che la madre gli racconta da quando è piccolino: la storia del Comandante del fiume. In Somalia non c’erano corsi d’acqua e non c’era da bere, gli abitanti affidarono quindi a due saggi l’incarico di creare un fiume. I saggi esaudirono la richiesta, ma nel fiume nuotavano anche i coccodrilli, creature crudeli che uccidevano e terrorizzavano la popolazione. Qualcuno doveva governarli per consentire l’accesso all’acqua, gli abitanti nominarono dunque un comandate del fiume che governasse tutte le creature del fiume, proteggendo le persone e il bestiame dai coccodrilli.
Quando parlano della guerra civile i ragazzi non usano mai l’espressione somala corrispondente, dagaalka sokeeye. E’ vergognoso persino pronunciarle quelle parole. Dicono invece burbur, che significa frantumazione. Per conoscere il bene e sopravvivere, si deve convivere con il male necessario – insegna la leggenda del comandante del fiume – Ma come si distingue il bene dal male in una guerra civile che ha dilaniato un’intera nazione e sparpagliato i propri cittadini ovunque nel mondo?
Yabar cerca di rimettere insieme i pezzi di sé. In un bell’articolo sul Sole24ore Cristina Ali Farah scrive che si può trovare rifugio e dimora ogni qualvolta si trovi qualcuno disposto ad ascoltarci. Perché solo allora smettiamo di essere degli estranei e stringiamo radici. Yabar scopre che le radici non hanno a che fare con il sangue e il suolo, con il territorio e le origini, ma sono il risultato di una scelta. Per dominare il male occorre una gran determinazione. Il padre di Yabar non c’è riuscito, ma forse lui ce la farà. Forse è lui, Yabar, il comandante del fiume.