Nel 1969 l’antropologo norvegese Fredrik Barth, sulla base di una vasta documentazione etnografica, mette definitivamente in crisi la concezione classica di “gruppo etnico”. Afferma infatti che è praticamente impossibile individuare, in una qualunque parte del mondo, dei blocchi di culture statiche e ben definite per lingua, tradizioni, credenze e territorio; sono piuttosto i confini che ogni gruppo traccia per distinguere un Noi dagli Altri, a determinare le attribuzioni di identità. Questi confini sono mobili, determinati da necessità di contesto, che portano a scegliere solo un limitato numero di tratti culturali, tralasciandone altri. Questa scelta viene rinegoziata nel tempo, i tratti culturali distintivi si attivano a seconda del contesto e può darsi che ciò che in un momento storico non viene ritenuto rilevante, diventi un domani fondamentale per tracciare una linea, per distinguere un Altro da un Noi in quella che era la medesima comunità. L’ideologia dello Stato nazione di matrice ottocentesca, ma che sopravvive tutt’oggi nelle spinte nazionaliste che animano i diversi paesi europei, pensa lo Stato come una comunità unita da una stessa razza, cultura, lingua e religione e mira a creare omogeneità e identità, rimuovendo le differenze.

La Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia univa in un sistema federale sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un unico partito. La costruzione dell’etno-federalismo comunista (opposto alla nazione etnica) prese avvio con l’adozione della prima Costituzione jugoslava del 31 gennaio 1946, che si fondava su due pilastri fondamentali: il comunismo e la nazione. Le guerre seguite alla disgregazione dell’ex-Jugoslavia, tra il 1991 e il 2008, sono state definite guerre etniche, causate dall’odio razziale. Usare la carta dell’etnicità fa arretrare ad arcaiche ragioni tribali di fronte alle quali nessuno sa mai bene come schierarsi, oltre a farci percepire tutto il vantaggio illuminista di appartenere a un mondo che ha sconfitto la barbarie, che vive di diritto e di diplomazia, e che, nella fulgida strada del progresso, si è lasciato il linguaggio del sangue alle spalle. La retorica dell’etnicità è una strategia usata dai media e dalla comunicazione politica per farci credere che in nessun modo la guerra dei Balcani era una guerra europea, per considerare una guerra che si stava combattendo a poche centinaia di chilometri dai nostri confini come qualcosa che non ci riguardava. Mentre noi facevamo il bagno a Riccione dall’altro lato del mare Adriatico si bombardava senza sosta.

Distribuzione etnica Repubblica Federale Jugoslava. 1989 – Treccani.it

Paolo Rumiz, scrittore e giornalista italiano, era inviato in Bosnia e in Croazia durante il conflitto. A guerra ancora in corso scrive Maschere per un massacro, un crudo reportage sugli inganni e sulle mistificazioni di quello che definisce «un massacro costruito in laboratorio e sdoganato ai fessi come conflitto di civiltà, scontro tribale o generica barbarie». Un imbroglio imbastito da alcuni politici che hanno cominciato a manovrare paure e odi antichi, per garantirsi il potere dopo la caduta del comunismo. Tito muore nel 1980, tutto il decennio successivo è all’insegna di una gravissima crisi economica. La distribuzione produttiva della Repubblica Federale di Jugoslavia era profondamente sbilanciata: la produzione industriale era concentrata a Nord, in Slovenia e Croazia, che sempre meno volentieri sopportavano di dovere sostenere il più arretrato Sud del paese; la Serbia, territorio più esteso e popoloso, aveva un ruolo agricolo, amministrativo e militare. Quando l’economia non funziona, anche la politica arranca e lascia spazio a populismi e nazionalismi. Approfittando del momento di instabilità, la Germania fece chiaramente capire a Slovenia e Croazia che eventuali richieste di indipendenza da parte loro sarebbero state riconosciute. I nazionalisti trovarono sponda nelle promesse della Germania, che mirava ad accogliere la Slovenia e la Croazia nella propria area di influenza economica, ghiotta occasione per il Nord industrializzato, ma che minacciava di lasciare il Sud nella povertà e nell’arretratezza. Già da metà degli anni Ottanta si mettono in moto le macchine propagandistiche. Milošević inneggia alla risurrezione della Grande Serbia, nel frattempo accumula soldi e beni immobili, consolida il suo potere controllando giornali, radio e televisione; mette a punto la più efficace strategia di espropriazione: la guerra. Con la guerra si ruba meglio perché rubare al nemico è un atto patriottico.

Slobodan Milošević © Getty Images

«L’odio esplode solo se c’è qualcuno che decide di servirsene» scrive Rumiz. Strumento principe di questa operazione volta a legittimare le spinte indipendentiste e a dar maggior credito politico ai movimenti nazionalisti, è stato il radicale processo di revisione storica. Ciascuna nazione si prodigò per ricostruire un passato mitico e rintracciare il proprio momento di massima estensione territoriale. La storia delle nazioni fu completamente riscritta, in un moto tutt’altro che spontaneo. Fu un’operazione confezionata a tavolino e calata dall’alto, con protagonisti alcuni intellettuali che si inventarono vati di nuove nazioni: i poeti sloveni cominciarono a vantare radici norvegesi, mentre gli accademici serbi cantavano la santità del proprio popolo, un popolo celeste, avanguardia della cristianità contro i turchi.

Il 24 settembre 1986 l’Accademia delle scienze di Belgrado arrivò a strutturare un memorandum che fornirà le basi teoriche al nazionalismo serbo, lamentando la posizione marginale a cui il popolo serbo era stato costretto nella Federazione jugoslava. Si rivendicava una continuità con il popolo che circa sei secoli prima era stato baluardo contro la penetrazione dell’Impero Ottomano, tornava il ricordo ossessivo della leggendaria battaglia della Piana dei Merli del 1348, per la quale i serbi contemporanei sarebbero dovuti essere risarciti, cacciando gli albanesi dal Kosovo; i croati affermavano la continuità del loro regno, nonostante gli otto secoli di dominazione austro-ungarica; alcuni storici sostenevano che il popolo croato avesse origini iraniane e non slave; i bosniaci musulmani andarono a scovare i bogomili, presunti antenati né ortodossi, né cattolici; i macedoni, che si erano costituiti come nazione solo nel XX secolo, invocarono il ricordo del Regno di Macedonia e di Alessandro Magno, risalenti al IV secolo a.C. Questa reinvenzione della memoria serviva a creare nuovi miti collettivi che si sostituissero all’immagine della Jugoslavia come nazione multiculturale, che gonfiasse un antagonismo tra popoli, utile – come scrive Rumiz – «a costruire la guerra nella mente della gente».

La mostra del MoMa sull’architettura jugoslava © MoMA – Toward a Concrete Utopia

«Perché chiamarla ex Jugoslavia? Nessun dice ex Impero asburgico, ex Impero romano, ex molti altri paesi. Perché? Se non per dare per scontata, ininfluente e quasi legittima la sua scomparsa che invece è stata inattesa, dolorosa e sanguinosa?». Così riflette Dunja Badnjevic autrice di Come le rane nell’acqua, memoir, flusso analogico di ricordi che intrecciano due mondi perduti: il Partito Comunista Italiano e la Federazione jugoslava di Tito. Dunja Badnjevic vive in Italia da più di cinquant’anni, ha tradotto i più grandi classici della letteratura jugoslava, ha militato attivamente nel PCI, è stata spesso interprete per il partito durante incontri internazionali. Le sue origini familiari sono uno scacco esemplare a qualsivoglia logica etnica: nasce nel 1945 a Belgrado, in Serbia. Non può però dirsi propriamente serba: all’epoca la nazionalità giuridica era quella del padre, originario dell’Erzegovina. In Bosnia Erzegovina, a quel tempo, erano ufficialmente censiti serbi e croati, di religione ortodossa, cattolica e musulmana; a Sarajevo, inoltre, c’era una storica comunità di ebrei sefarditi. La famiglia del padre era croata di religione musulmana, islamizzata durante l’occupazione ottomana per non perdere le terre. Il padre era ateo, comunista e partigiano; la madre, comunista e partigiana a sua volta, era cattolica, nata a Zagabria ma di famiglia italiana. Così l’autrice non può che dirsi jugoslava unico termine capace di definire il melting pot etnico comune a tutte le famiglie balcaniche. Jugoslava, cioè, secondo il lessico della razza, etnicamente impura. Quando la nazionalità diventò un segno di separazione e distinzione nette – racconta Badnjevic – al padre fu detto che poteva dichiararsi come voleva, purché non di nazionalità jugoslava. Per protesta, il padre si dichiarò vietnamita.

© MoMA – Toward a Concrete Utopia

Tra le pagine di un’intimità a volte nostalgica irrompono domande inquiete che sembrano tracciare un pensiero sommerso. Come era stato possibile che una realtà così fortemente multietnica venisse livellata, devastata e sradicata senza che nessuno se ne accorgesse? La gente si è abituata, come ipnotizzata, «ci hanno messo nell’acqua fredda, come le rane» che non si accorgono che l’acqua piano piano si riscalda e arriva a ebollizione. Le fa eco Paolo Rumiz: «ciò che trasforma in carne da cannone è precisamente lo stesso imbonimento che ci fa comprare questo o quel detersivo o votare questo o quel partito». Ma perché in seguito al crollo del Muro di Berlino il delicato equilibrio jugoslavo è stato deliberatamente distrutto? E perché contestualmente muore per asfissia il PCI, il più grande partito comunista d’Occidente? Sembra esserci un filo rosso tra queste domande. La Jugoslavia di Tito era nata da un movimento partigiano di massa, sovranazionale, aveva un rapporto particolare e indipendente con l’Occidente e con l’Est, era protagonista nel Movimento dei paesi non allineati; la Jugoslavia avrebbe potuto rappresentare un fattore aggregante per gli orfani del socialismo reale. Il 1989, la caduta del muro di Berlino, non aprì una stagione democratica nei Balcani, fu anzi l’inizio della fine. Alle prime elezioni libere del 1990 i socialisti jugoslavi persero potere in tutte le Repubbliche, per lasciare la scena politica ai leader che esprimevano posizioni iper-nazionaliste. L’ Europa, che ancora non esisteva come Unione, si dimostrò da subito curiosamente favorevole al riconoscimento dei principi etnici. Perché sembrava così necessario inventare delle nazioni e perché non, ad esempio, immaginare una Jugoslavia federale all’interno della nascente Comunità europea? La comunità internazionale avrebbe potuto giocare le proprie carte in modi diversi. Forse c’era qualcosa da salvare, forse esisteva nella soluzione federale una potenzialità positiva. Forse. Tuttavia, la scelta esplicita di Germania e USA fu quella di alimentare le istanze separatiste, si è scelta la via più conosciuta, rassicurante e remunerativa, promuovendo di fatto la guerra civile.

Bombardamenti della NATO a Belgrado 1999 © Getty Images

Tra marzo e giugno del 1999 Belgrado fu bombardata in modo “umanitario” e “intelligente” dalla NATO, con lo scopo di “garantire la pace nel Continente”. Milošević restò al potere ancora qualche mese, fu incarcerato il 5 ottobre 1999, dopo una sconfitta alle elezioni politiche e dopo una cruenta manifestazione popolare davanti al parlamento. «In realtà eravamo stati solo un banco di prova per quello che sarebbe arrivato dopo, la cavia per le guerre successive, condotte in nome della democrazia» scrive Dunja Badnjevic vent’anni dopo, col senno di poi.

Un membro della delegazione russa visita Belgrado 1999 © EPA-EFE

Il grande scrittore serbo Danilo Kis definiva il nazionalismo una follia, «una paranoia collettiva e individuale. Come paranoia collettiva è conseguenza dell’invidia, della paura e soprattutto della perdita della coscienza individuale. Per il nazionalista è facile: lui conosce o crede di conoscere i valori essenziali per lui e quindi per la nazione, vale a dire i valori etici e politici della nazione a cui appartiene mentre agli altri non si interessa, gli altri non lo interessano, gli altri (le altre nazioni, le altre tribù) sono l’inferno». Lo Stato-nazione è un mito irrealizzabile, un’ideologia fondata su un sogno di purezza e di conseguente eliminazione del diverso. Non è l’unico modello politico possibile. E’ un dispositivo ideologico con un fortissimo potere di attrazione che ben si presta a mascherare motivazioni economiche, interessi politici, sotto abilmente orchestrate rivendicazioni identitarie. Nella prefazione del libro Sarajevo, mon amour di Jovan Divjak, nel 2018 Paolo Rumiz scrive: «se avessimo chiamato i Balcani Balkanistan, magari avremmo capito un po’ di più e percepito che il pericolo eravamo noi. Avremmo visto che quella non era l’ultima barbarie del Novecento, ma la prima guerra del ventunesimo secolo. Esprimeva già tutto il potenziale delle tempeste a venire. L’impotenza dell’Europa. La debolezza dell’ONU. La solitudine dell’America poliziotto del mondo. L’inutilità delle guerre stellari. L’effetto delle bombe intelligenti, incendiario per i terrorismi globali, inutile contro i clan criminali padroni del terreno, addirittura eccitante per popoli che non temono la morte e detengono capitali di orgoglio e sopportazione impensabili per il popolo dei consumi. C’era già tutto».