Nell’immaginario comune la Jugoslavia è un oggetto geografico posto ai margini del mondo occidentale e di quello orientale, un microcosmo conflittuale. L’accostamento al mondo slavo sembra dimenticare un fattore fondamentale nelle vicende storiche dei territori oltre Trieste: l’influenza ottomana. Vago è il sentore della presenza austriaca, forse legato alle vicende del luglio 1914, quando l’uccisione a Sarajevo dell’Arciduca Francesco Ferdinando gettò il mondo nel baratro della Grande Guerra. Per comprendere le drammatiche vicende della penisola Balcanica, soprattutto in quei territori che sono stati inglobati nella Jugoslavia (termine che letteralmente significa “terra slavi del sud“), occorre andare indietro di qualche secolo, precisamente alla metà del 1500, quando in Europa e nel Mediterraneo si stava affermando una nuova potenza: l’Impero Ottomano. 

Limes

Quando arrivarono nell’area balcanica i turchi ottomani si trovarono di fronte una società ricca e composita. Vi abitavano bizantini, serbi, bulgari, albanesi, veneziani e genovesi; tutti questi popoli erano in contrasto tra loro per motivi religiosi – ortodossi contro cristiani – e sociali. La penetrazione ottomana fu relativamente agevole, soprattutto grazie a violenti moti agrari che avevano minato le basi del potere costituito degli embrioni di stati che sarebbero divenuti province ottomane: Bulgaria, Grecia e Serbia. In questo periodo vi furono le prime conversioni all’Islam nella Bosnia nell’area attorno a Sarajevo. In Serbia i beni dei vecchi signori feudali vennero inglobate nei beni delle comunità religiose musulmane nei loro complessi di supporto detti kulliye. I proprietari terrieri albanesi, invece, si rifugiarono nei presidi veneziani abbandonandoli quando questi ultimi vennero occupati.

A metà del 1500 tutta l’area balcanica fino alle pianure ungheresi era dominata dalla Sublime Porta, che stava trasformando il Mediterraneo Orientale in un mare ottomano. A nulla valse la famosa battaglia navale di Lepanto del 7 ottobre 1571, considerata dal Sultano come la rasatura della barba, mentre egli aveva tagliato un braccio, Cipro, a Venezia. 

Anonimo – La battaglia di Lepanto – XVI sec. – Wikimedia

Le rapide conquiste erano il frutto di una eccellente organizzazione militare, supportata dall’abilità dei cavalieri dell’esercito ottomano, sostenuti economicamente dal sistema del Timar, una concessione terriera del Sultano, a cui il timariota doveva rispondere fornendo il supporto militare quando richiesto. Il Timar non divenne mai un sistema feudale in quanto i concessionari di tale privilegio non si sedentarizzavano nei loro possedimenti ma venivano spesso spostati.

L’area balcanica e  la parte meridionale dell’Italia divvenero terreno di caccia delle truppe scelte del Sultano: i giannizzeri,  che annualmente si recavano nei villaggi, soprattutto  cristiani, per la raccolta dei fanciulli (devşirme). Questi fanciulli, dopo un periodo di formazione in Anatolia diventavano funzionari del Sultano fino ad arrivare ai massimi livelli della gerarchia ottomana.

wikivoyage.org.

Nei Balcani la presenza turca musulmana riempì il vuoto lasciato dalla civiltà bizantina, le popolazioni delle ampie zone pianeggianti si convertitono all’Islam, mentre al di là dei monti rimase la confessione ortodossa. 

A inizio XVII secolo l’area balcanica era territorio ottomano fino quasi alle porte di Vienna. La parte occidentale era a maggioranza greco-ortodossa, non mancavano cattolici, soprattutto nell’area della Dalmazia, mentre l’area della Serbia verso  Rumelia era a maggioranza musulmana. Al contrario di quanto accadeva nei grandi stati nazionali europei, dove si cercava di ottenere una omogeneità religiosa – a metà del XVII secolo si concluse la Guerra dei Trent’Anni, l’ultima guerra di religione europea – nei territori ottomani non vi furono conversioni forzate. Le conversioni avvennero in maniera spontanea e per diverse ragioni: economiche in quanto i sudditi musulmani non dovevano corrispondere al Sultano la cizye, morali legate ai continui conflitti all’interno del cristianesimo.

Tra la fine del XVII e lo scoppio della Prima guerra mondiale l’area balcanica divenne terreno di scontro tra impero asburgico, impero russo e impero ottomano. La Pace di Carlowitz (1699) chiuse il primo  conflitto austro-ottomano, al termine del quale Vienna inglobava Ungheria e Croazia e altri territori a danno di Istanbul. Il 21 luglio 1718 la Pace di Passarowitz chiuse il secondo conflitto, l’Austria ottenne il Banato, la Valacchia occidentale, la Serbia settentrionale con la città di Belgrado e parte della Bosnia. 
La parte del litorale dalmata al termine di questi conflitti rimase in mano alla repubblica di Venezia.

Il declino dell’Impero ottomano – Luzappy

Nel corso del XIX secolo il declino dell’Impero ottomano nei Balcani fu accentuato dall’interesse di altre potenze europee, Gran Bretagna in testa. Dopo l’indipendenza della Grecia (1821), scoppiò in Serbia una insurrezione contro i giannizzeri della guarnigione di Belgrado, ottenendo così una concessione di autonomia.  

Il secolo dei nazionalismi influenzò anche l’area balcanica, Grecia, Serbia e Bulgaria iniziarono a rivendicare porzioni di territorio sempre più ampi, tali aspirazioni furono limitate dall’azione politica britannica. Uno dei pomi della discordia era rappresentato dalla piccola Macedonia, ancora parte del territorio ottomano. Altra fonte di tensione fu l’Albania. Nel paese delle aquile l’attrito con Istanbul fu la riforma militare ottomana che comportò il disarmo delle popolazioni locali, utilizzati sempre come truppe irregolari nelle guerre del Sultano. 

Nel 1908 l’Austria annesse la Bosnia-Erzegovina, territorio occupato già dal 1878. L’occupazione della Bosnia, territorio a larga maggioranza musulmana suscitò l’ira di Istanbul, anche a Belgrado (regno di Serbia), dove si riteneva di poter annettere il territorio per questioni di affinità linguistiche. Inoltre la Serbia poteva contare sull’appoggio della Russia. Questi attriti fornirono le basi del conflitto scoppiato nel 1914.

Le perdite territoriali ottomane portarono ad espulsioni di massa ed emigrazioni. Molto frequente fu la fuga dai territori teatri delle operazioni e dai massacri che tali conflitti inflissero alle popolazioni musulmane. 

Balkan Postcard

Tra il 1912 e il 1913 si combatterono le cosiddette Guerre Balcaniche. Una coalizione tra greci, serbi e bulgari effettuò una offensiva nelle ultime porzioni di territorio balcanico in mano agli ottomani. Gli eserciti coalizzati occuparono il Kosovo (rivoltatosi contro l’impero per le questioni della riforma militare), l’esercito greco occupò Salonicco e l’isola di Creta: molti abitanti non greci preferirono emigrare a seguito dell’occupazione ellenica.

Il mancato accordo sul bottino di guerra a seguito della pace di Londra provocò lo scontro del 1913. La Bulgaria, che non voleva riconoscere l’annessione della maggior parte della Macedonia alla Serbia, il 29 giugno del 1913 attaccò i suoi ex alleati della Lega Balcanica.  Dello scoppio di questo nuovo conflitto nei Balcani subito approfittarono gli Ottomani, che il 20 luglio 1913 attaccarono la Bulgaria orientale riconquistando Adrianopoli. La seconda guerra balcanica vide la creazione dello stato di Albania. Si arriva così alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, scoppiata anche a causa delle mire espansionistiche del nazionalismo serbo

La fine degli Imperi centrali e di quello ottomano portò alla costituzione di un’entità autonoma nelle terre abitate da Slavi appartenenti alla corona asburgica: lo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi che dichiarò unilateralmente la propria indipendenza e la propria sovranità. Nessuna delle potenze europee decise di riconoscere la nuova nazione, per cui i fondatori dello Stato si rivolsero a Belgrado per prendere accordi per una possibile unione al regno di Serbia. L’unione fu sancita il 25 novembre 1918, qualche giorno dopo anche il Montenegro aderì all’unione. La corona del nuovo regno andò al Pietro I di serbia. 

L’unione tra lo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi e il Regno di Serbia non fu inteso come una fusione tra entità equivalenti, ma come un’annessione territoriale da parte della Serbia.

I deputati di etnia Croata si dichiararono da sempre all’opposizione e molto spesso boicottavano le sedute dell’Assemblea nazionale. La questione fu risolta il 6 gennaio 1929 quando Alessandro I, succeduto al padre Pietro instaurò una dittatura personale, tramontava definitivamente il sogno di “tre Popoli in un solo Stato” e “uno Stato con tre nomi”, che esaltavano le differenze tra le culture che formavano la nazione. Il 3 ottobre 1929, cambiò il nome ufficiale del Paese in Regno di Jugoslavia e intraprese una serie di riforme per cancellare ogni separazione.

Regno di Jugoslavia – Youtube

La nuova formula istituzionale aveva fuso il Partito radicale serbo il Partito democratico con alcuni membri del Partito democratico indipendente sloveno e di quello Rurale sloveno. I Croati non erano rappresentati e quindi non erano al governo.

Nonostante la forte politica repressiva, nel Paese esistevano diverse organizzazioni più o meno clandestine in lotta tra loro che combattevano contro l’esistenza stessa della Jugoslavia o a favore, per il separatismo o per l’unità, per i diritti dei lavoratori o per il freno alle rivendicazioni sociali. Tra chi lottava contro l’unità dello Stato c’erano gli Ustascia croati, tra chi appoggiava l’idea jugoslava c’era l’Organizzazione dei Nazionalisti Jugoslavi (ORJUNA) e la “Mano bianca” (Bela ruka).

La lotta indipendentista e il contrasto alle politiche autoritarie dello Stato, furono alla base del complotto che fece assassinare il re il 6 ottobre 1934. L’assassinio del sovrano non ebbe, però, alcun effetto per le rivendicazioni nazionaliste poiché l’unità del Paese non ne fu intaccata. 

Hitler incontra Ante Pavelic, il fondatore degli Ustascia che nel 1941 divenne il capo dello Stato indipendente di Croazia – Wikimedia

L’adesione jugoslava al Patto Tripartito provocò in tutto il Paese reazioni di condanna. Il 27 marzo 1941, il generale Dušan Simović fece un colpo di Stato supportato dagli Inglesi col quale fece arrestare il Primo Ministro: tale decisione politica provocò l’invasione tedesca della Jugoslavia. 

La resistenza jugoslava ai tedeschi ebbe all’inizio caratteristiche diversificate nei vari territori e la sua evoluzione non fu omogenea. Il Partito comunista jugoslavo, disciplinato e ben organizzato su tutto il territorio, cercò fin dall’inizio di assumere la guida del movimento. 

Il Partito Comunista Jugoslavo (KPJ) aveva costituito un comitato militare il 10 aprile 1941 mentre l’invasione dell’Asse era in corso, e il 15 aprile aveva diffuso un proclama alla popolazione sollecitando a combattere gli invasori per salvaguardare la libertà e l’indipendenza; ulteriori decisioni vennero prese dal comitato centrale comunista in una riunione tenutasi a Zagabria nel maggio 1941. Venne soprattutto concordato sulla necessità di ricercare la cooperazione. Il partito comunista Jugoslavo non dipendeva da Mosca.

Il maresciallo Tito e Moša Pijade nel 1942 – Wikimedia

Josip Broz Tito dimostrò subito le sue notevoli qualità di dirigente e di capo militare; abile politicamente e astuto, fu in grado di organizzare la guerriglia e di soppiantare progressivamente tutti gli altri capi della resistenza; circondato da luogotenenti disciplinati e fidati, seppe mantenere, grazie al suo carisma personale e alla sua autorevolezza, la guida supremo del movimento resistenziale comunista che indirizzò secondo le sue scelte politico-strategiche. Nella prima fase della resistenza il comando supremo delle formazioni comuniste si impegnò soprattutto in una intensa preparazione politica e organizzativa; il partito seppe promuovere una politica efficace che faceva appello all’unità di tutte le etnie jugoslave per la difesa nazionale contro il brutale occupante.

Un altro gruppo combattente era costituito dai cetnici serbi, fortemente monarchici e nazionalisti. Le due anime della resistenza jugoslava presto entrarono in conflitto e alla fine la spuntò la fazione di Tito che dopo il conflitto riorganizzò lo stato jugoslavo. Una riorganizzazione che per un trentacinquennio riuscì ad assopire le spinte nazionalistiche interne, promuovendo in ogni aspetto della vita pubblica – dalla politica allo sport, dalla simbologia alla nomenclatura – un sentimento “panslavo” e “jugoslavista” che per un attimo sembrò attecchire nella popolazione. Finché, alla morte del Maresciallo, mezzo secolo di storia decise di presentare il conto in un’unica rata, complici gli interessi dei diversi gruppi di potere nazionali solo apparentemente contrapposti ma in realtà accomunati dalla volontà di soffiare sul fuoco dell’odio.