Immaginare un pallone rotolare di nuovo su un campo di calcio era per Massimo Della Pergola un modo per continuare a vedere un futuro.
Nato a Trieste nel 1912 da una famiglia di religione ebraica, fu abbastanza bravo e fortunato da far coincidere la sua passione con il suo lavoro e da far sì che accadesse presto. La carriera di cronista sportivo lo portò fin da giovane a La Gazzetta dello Sport, un sogno che Massimo colse e coltivò, fino al 1938.
Il 18 settembre di quell’anno, dalla piazza Unità d’Italia della sua città, Benito Mussolini espose il contenuto delle leggi razziali approvate poche settimane dopo, che costarono a Della Pergola l’espulsione dall’albo dei giornalisti e l’interruzione prematura dell’esperienza alla “Rosea“.
In terra triestina Della Pergola rimase fino al 1943, appena in tempo per la nascita del figlio Sergio, avuto dalla moglie Adelina un anno prima. La minaccia nazifascista divenne poi incombente, costringendo l’intera famiglia alla fuga. Decisiva fu, nelle ultime settimane dello stesso anno, la mano amica di Gina Silvestri, partigiana fiorentina che sfidava il regime offrendo cibo, rifugio e aiutando a fuggire ebrei e ricercati. È qui, a Firenze, che i Della Pergola conobbero la donna che rese possibile l’espatrio clandestino verso la Svizzera.
Quando nel 2018 lo Yad Vashem, memoriale ufficiale israeliano volto a ricordare le vittime dell’Olocausto, ha conferito a Gina Silvestri, ormai scomparsa, il titolo di Giusta tra le nazioni, Sergio Della Pergola, figlio di Massimo e all’epoca dei fatti soltanto un bambino, ha ripercorso gli atti eroici della partigiana: «Nell’agosto del 1943, da Trieste i miei cercarono rifugio a Firenze. La gran parte della mia famiglia, sia paterna che materna, era già internata ad Auschwitz».
Nel campo profughi di Pont de La Merge a Massimo Della Pergola, adibito agli scavi necessari alla bonifica del fiume Rodano, fu assegnato il numero 21915. Il luogo che salvò il giornalista dalla morte, pur separandolo dalla famiglia, viene descritto in Storia della Sisal e del suo inventore, autobiografia di Della Pergola pubblicata nel 1997: «Le baracche di legno del campo non erano riscaldate. Dormivamo in letti a castello i cui materassi erano sacchi pieni di paglia e foglie secche. Per coprirci avevamo una semplice coperta. Su di me che dormivo nel letto inferiore cadeva una pioggia di polvere che mi irritava gli occhi. I cosiddetti servizi igienici erano in un baracchino nel vicino bosco. Uno spiazzo centrale serviva per le adunate. La doccia settimanale, situata in un locale a due chilometri dal campo, non bastava ad eliminare il bruciore degli occhi».
In quel paradiso-inferno, con i giorni un po’ tutti uguali tra loro, Della Pergola conobbe qualche giornalista straniero, che lo aggiornò sui concorsi sportivi già esistenti all’estero, ma soprattutto trascorse il suo tempo a immaginare. Nei suoi occhi c’era ancora il Torino dei neoacquisti Ezio Loik e Valentino Mazzola, che aveva vinto l’ultimo campionato di Serie A prima dell’interruzione bellica e che sarebbe diventato Grande nel dopoguerra. Della Pergola sapeva che per accompagnare un’Italia provata dal conflitto nel futuro sarebbe stato necessario ridare alla gente le gesta dei propri beniamini sportivi, ma lo sport stesso viveva momenti complicati, avendo perso strutture e necessitando fondi, oltre a una nuova organizzazione. Lo stesso giornalista descriverà le riflessioni di quei mesi trascorsi a Pont de La Merge in un’intervista contenuta nell’archivio de La Gazzetta dello Sport.
«Messa al sicuro la pelle, cominciai a pensare al dopoguerra. Mi chiesi che cosa mai si sarebbe potuto fare per riorganizzare lo sport italiano. Una banca dello sport? Una catena di alberghi per sportivi? Sapevo che in Inghilterra e in Svezia c’erano dei concorsi pronostici, mi informai. L’idea della schedina si fece strada. All’1 X 2 arrivai per gradi. Feci le prove: 1 2 3 mi sembrava bambinesco, A B C lo giudicai scolastico. Decisi. Una colonna, 12 partite: 1 per la vittoria della squadra di casa, X per il pareggio, 2 per il successo degli ospiti. Una parte dei proventi sarebbe andata al Coni e alla Federcalcio, una parte al ministero delle Finanze e una parte a me».
In Svizzera, nel 1944, Della Pergola trovò il modo di entrare nella redazione di Sport Ticinese, dove conobbe Geo Molo e Fabio Jegher, due amici che diedero fiducia a quello che il giornalista triestino chiamava, in codice, “Progetto P”, ovvero «il mio progetto con la P maiuscola». Una volta rientrato in Italia e riunito alla sua famiglia nel 1945, Della Pergola non riscontrò però lo stesso entusiasmo nell’allora direttore de La Gazzetta dello Sport Bruno Roghi, a cui espose l’idea embrionale della schedina. Risposta: «Fai il giornalista che è meglio», un consiglio che Massimo accolse solo parzialmente, visto il lavoro appena riottenuto alla “Rosea“, stavolta come caporedattore responsabile del calcio.
Insieme a Jegher e Molo, Della Pergola fondò a Milano la Sport Italia Società a Responsabilità Limitata, che tutti noi conosceremo come SISAL. L’idea a cui il giornalista pensava ormai da anni prese definitivamente forma il 5 maggio del 1946, quando si era aperto da poco il girone finale nazionale composto dalle migliori quattro squadre della Serie A Alta Italia e del campionato misto del del centro-sud: fu il primo tentativo di ripartenza nel calcio, che rinunciò al girone unico. Per promuovere il nuovo concorso a pronostici, che chiedeva di indovinare l’esito di 12 partite, anche di Serie B-C e Coppa Alta Italia, gli italiani furono invitati a tentare «la fortuna al prezzo di un Vermouth», cioè 30 lire. La prima gara di quell’elenco sbiadito stampato su cinque milioni di foglietti distribuiti in tutta Italia era Internazionale-Juventus, già sfida dal grande richiamo, certamente maggiore rispetto a quello di una schedina che raccolse appena 34mila giocate.
La SISAL decise furbescamente di distribuire i fogli avanzati presso i barbieri di tutta Italia, a cui facevano comodo per pulire i rasoi. In realtà, questo aiutò probabilmente a far sì che la schedina finisse sulla bocca di sempre più persone, incuriosite dal concorso che univa la passione calcistica al desiderio di cambiare vita, anche se in molti casi quest’ultimo da solo rappresentò una valida ragione per iniziare a giocare.
Se quel 5 maggio 1946 il primo 12 centrato da Emilio Biasotti valse 496.826 lire, a fronte di un incasso per la SISAL di nemmeno due milioni, nei mesi successivi sempre più italiani decisero di rinunciare a un Vermouth per sognare un montepremi continuamente al rialzo.
A chi giocava la schedina veniva suggerito di indicare, sul retro, nome, cognome, indirizzo e professione. Fortuna che Pietro Aleotti da Treviso ebbe l’accortezza di farlo, visto che dei 12 pronostici azzeccati nel 1947 lui neanche si era accorto. Qualche giorno dopo avere compilato quel foglio, scrivendo «artigiano del legno» per non specificare il fatto che costruisse bare, fu un telegramma del ministero a comunicargli la vincita, 64 milioni di lire.
I soldi in ballo cominciarono a essere tanti, troppi perché lo stato restasse indifferente: nel 1948 il Coni, considerato secondo La Gazzetta dello Sport «non a torto dai padri della nuova Italia come un rifugio di simpatizzanti del regime», ottenne la gestione diretta della schedina SISAL, che prese ufficialmente il nome – fin lì informale – di Totocalcio. A capo del Coni c’era dal 1946 Giulio Onesti, il cui compito iniziale era in realtà quello di smantellare l’istituzione che, di fatto, finirà col ricostruire e dirigere per decenni. Fu il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giulio Andreotti a elaborare il decreto legislativo che favorì la nazionalizzazione dell’idea di Della Pergola e che avrebbe consentito allo sport di sostentarsi senza i finanziamenti dello stato. Con il Totocalcio il prezzo della schedina passò a 50 lire, per finanziare la trasferta olimpica di Londra ’48, mentre pochi anni dopo le partite divennero 13, dando vita a un’espressione che sarebbe entrata nel gergo popolare italiano.
In mano a Massimo Della Pergola rimase poco più di un pugno di mosche: nonostante le cause intentate, nessuno gli riconobbe un indennizzo per l’invenzione che avrebbe fatto le fortune dello sport e stato italiano. La schedina fu strappata alla SISAL, che dapprima grazie al Totip, basato sulle corse ippiche, e poi con altri concorsi, riuscì a mantenersi in vita, ma il giornalista triestino cedette ai soci Jegher e Molo la propria quota nel 1955, scegliendo di dedicarsi unicamente al giornalismo sportivo senza avere «mai giocato una schedina».
Seppur senza il riconoscimento che avrebbe meritato, Massimo Della Pergola, scomparso nel 2006, raggiunse l’obiettivo che si era posto nel momento più difficile. «Aveva la consapevolezza che, grazie alla sua idea veramente unica, lo sport italiano si era rimesso in piedi dopo il disastro della guerra» racconterà il figlio Sergio, probabilmente tutto ciò a cui il padre aspirava in quei mesi di lavori forzati a Pont de La Merge. Quando immaginava un futuro, non solo per lui ma per un intero Paese.