A cura di Costanza Danovi
Tutto il Paese chiuso in casa fino a data da destinarsi. Improvvisamente costretto, quasi senza preavviso, a guardare il mondo esclusivamente attraverso le spesse lastre di vetro delle proprie finestre.
Se c’era un pensiero confortante all’inizio di questa quarantena, era che in qualche modo fossimo tutti sulla stessa barca. Condividevamo frustrazione e senso di smarrimento. Il Covid-19 come “the great equaliser”, nelle parole di qualche celebrità d’oltremanica. Le repliche non hanno tardato ad arrivare: “I ragazzini poveri non hanno il pc, i genitori non possono ricaricare i giga, né uscire a far fotocopie – recita un tweet dei primi giorni di marzo – Nelle case popolari a sei in due stanze senza un balcone ci si abbrutisce. I detenuti come bestie. I disabili senza terapie. I senzatetto senza carità. La livella un cazzo”.
Col passare dei giorni, è diventato sempre più evidente che le cose non andassero allo stesso modo per tutti. Senza scomodare i soliti campi profughi, Africa subsahariana o striscia di Gaza e dintorni, tra i nostri connazionali cresce la disoccupazione, prosperano gli abusi domestici, si concretizza l’angoscia di non arrivare alla fine del mese. Se da un lato, quindi, è ormai chiaro che le misure adottate per limitare i contagi abbiano ripercussioni molto più devastanti sulle fasce deboli della società, nemmeno la stessa malattia sembra agire indiscriminatamente: nel Regno Unito, tra le vittime figurano massicciamente i “BAME” (Black, Asian and Minority Ethnic), benchè costituiscano solo il 14% dei cittadini; negli USA la più colpita è la comunità afroamericana, anche in stati dove rappresenta una percentuale minima della popolazione.
La crisi attuale porta in luce ancora una volta che se epidemie, terremoti, uragani possono essere ritenuti fenomeni “naturali” (ignorando, per il momento, le teorie complottistiche sul laboratorio militare di Wuhan ndr), non sempre sono imputabili a qualche entità astratta anche le conseguenze di questi disastri sulle vite delle persone.
Quando la natura ci spaventa recitava il titolo del tema che mi assegnarono alle elementari dopo il terribile tsunami del dicembre 2004. Oggi sappiamo che molte delle tragedie a cui abbiamo assistito in tv o di cui abbiamo letto sui giornali durante le vacanze natalizie di quell’anno sono invece imputabili alla vulnerabilità preesistente delle popolazioni costiere del Sud-Est asiatico. Quando l’Uragano Katrina colpì la città di New Orleans nel 2005, non solo causò un numero di morti superiore alla media perché la Louisiana, uno degli Stati più poveri d’America, era impreparata a riceverne la furia, ma sembrò accanirsi in particolar modo sulla comunità nera. Questo era il risultato di una serie di misure più o meno implicitamente discriminatorie. Il piano di evacuazione, per esempio, privilegiava i possessori di un automezzo, condizione che gli afroamericani di New Orleans erano due volte meno portati a soddisfare dei loro concittadini bianchi.
“Piove sempre sul bagnato” dicevano le nonne. In altre parole, a pagare le spese delle grandi catastrofi sono sempre “solo i poveri diavoli”, come annota Marx in relazione alla Grande Carestia che piegò l’Irlanda nel primo Ottocento. In tempi più recenti, questo pensiero è stato sviluppato dall’economista indiano Amartya Sen, premio Nobel nel 1998, prendendo in considerazione diverse carestie del secolo scorso, dalla Grande Crisi del Bengala del 1963, a quelle che colpirono l’Etiopia (1972-73) e il Bangladesh (1974). Dall’analisi di Sen, emerge che queste crisi furono conseguenza non tanto di una reale mancanza di cibo, ma piuttosto dell’iniqua distribuzione, e che, pertanto, appropriati interventi da parte delle autorità avrebbero potuto contrastare, o perlomeno limitare, il disastro. In nessun caso, infatti, la classe dirigente ne uscì particolarmente indebolita.
Ecco che allora capiamo che a pagare il prezzo più caro di questo prolungato confinamento domestico saranno quelli che già se la passavano piuttosto male, e che possiamo giustificare le apparenti anomalie nell’identikit dei malati di Covid-19 in USA e UK. Come ha dichiarato il sindaco di Londra Sadiq Khan, vero motore di questa disparità è il fattore socio-economico. Spesso costretti a lavori più umili, come il fattorino o il conducente di autobus, e quindi più esposti al rischio di contagio, o relegati in quartieri e stabili sovraffollati che non favoriscono il distanziamento sociale, i BAME inglesi e i neri d’America scontano decenni di precarietà economica con condizioni di salute più fragilii: un’aspettativa di vita inferiore, una maggiore incidenza di asma, diabete e patologie cardiache.
Un quadro chiaro delle disparità nel rischio di contagio per i lavoratori in Italia lo traccia, ad esempio, lo studio Covid19 in Italy di Algebris: partendo dall’indagine dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche su lavoratori a rischio contagio e misure di contenimento, emerge che strumenti di protezione come lo smartworking sono prerogativa di settori come i servizi professionali (finanza, banche, assicurazioni…) e la pubblica amministrazione, mentre molti dei comparti dove realizzare il distanziamento sociale è difficile o addirittura impossibile sono anche quelli dove sono più concentrati i lavoratori a basso reddito. Altro che la livella.
C’è una buona notizia, tuttavia. Intervistato dal Financial Times qualche settimana fa, Amartya Sen ha manifestato una certa dose di ottimismo nei confronti della crisi attuale se, come poi accadde nel Secondo Dopoguerra con l’istituzione dello stato sociale, sapremo cogliere in questi giorni l’opportunità di costruire una società meno diseguale. Tra grosse campagne di raccolta fondi, brigate di cittadini volontari, ceste sospese e fondi di mutuo soccorso, manifestazioni di solidarietà transnazionali, tra la pioggia spunta un piccolo raggio di sole.