«E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore, / fra i morti abbandonati nelle piazze / sull’erba dura di ghiaccio, al lamento / d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero / della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo? / Alle fronde dei salici, per voto, /anche le nostre cetre erano appese, /
oscillavano lievi al triste vento».

Alle fronde dei salici di Salvatore Quasimodo

Corso Buenos Aires, un’arteria stradale lunga 1600 metri, collega Piazzale Loreto a Porta Venezia, nella zona nord-est di Milano. Da Parco Palestro, il planetario e Porta Venezia, Corso Buenos Aires porta a No-lo (North of Loreto) e alla circonvallazione esterna, da cui si ramificano le strade verso la provincia.

Il 29 aprile di 75 anni fa lungo corso Buenos Aires sciamava una moltitudine di persone, strette come in un corteo, corpo a corpo, ma – per la prima volta nel Ventennio – non per assistere a una sfilata militare o a un comizio ma per un passaparola che dalle prime luci dell’alba era volato di bocca in bocca. Il corpo del Duce era a piazzale Loreto, “Lui” è morto. Milano era in subbuglio da 4 giorni, non c’erano ancora indicazioni chiare su chi fosse al governo e i milanesi cercavano di liberarsi dal giogo in cui avevano passato gli ultimi anni.

I corpi appesi alla pensillina del benzinaio; da sinistra a destra: Bombacci, Gelormini, Mussolini, Petacci, Pavolini e Starace. La gonna della Petacci venne legata con una spilla. © IWM

Piazzale Loreto, crocevia della Storia

Piazzale Loreto è un naturale crocevia di comunicazione tra Milano e il suo hinterland, tra la metropoli e le sue fabbriche, tra la campagna e i movimenti che si andavano affermando. Il 23 giugno 1920, in pieno Biennio Rosso, ebbe luogo una manifestazione anarchica in piazzale Loreto. Il vicebrigadiere dei carabinieri Giuseppe Ugolini, circondato dalla folla, rifiuta di consegnare il fucile e spara contro gli aggressori, uccidendo il diciannovenne operaio socialista Alfredo Cappelli e l’ex guardia di finanza Francesco Bonini, e viene linciato dalla folla.

Con un motu proprio, il re Vittorio Emanuele III, lo insignì della medaglia d’oro alla memoria. Come in una premonizione da tragedia greca, anche un giovane Benito Mussolini dalle colonne del neonato Popolo d’Italia, celebra il militare e condanna:

La storia italiana non ha episodi così atroci come quello del piazzale Loreto. Nemmeno le tribù antropofaghe infieriscono sui morti. Bisogna dire che quei linciatori non rappresentano l’avvenire, ma i ritorni all’uomo ancestrale (che, forse, era moralmente più sano dell’uomo civilizzato).

[ “Coccodrilli”, Benito Mussolini, 26 giugno 1920, Il Popolo d’Italia ]

La prima pagina del Popolo d’Italia del 26 giugno 1920 in cui è contenuto l’editoriale “Coccodrilli” di Benito Mussolini ©Archivio Centrale dello Stato

Oltre alla coincidenza, è degno di nota il paragone, sia pure respingente, con le “tribù antropofaghe”. Mancano 15 anni alla Guerra d’Abissinia, ma nel futuro Duce del fascismo si evidenziano metafore civilizzatrici, vicine al “fardello dell’uomo bianco” di Kipling. Si denota quasi una certa visione lineare della storia che aborra “un ritorno all’uomo ancestrale” in opposizione all’uomo civilizzato. Una concezione prontamente smentita da una serie di eventi della storia italiana, che non pecca certo di atrocità: dalla congiura de’Pazzi a Bronte, Pontelandolfo e Casalduni in provincia di Benevento, nell’agosto 1861, i moti del Pane di Milano nel 1898, per venire a una storia più vicina cronologicamente e idealmente all’ardito Mussolini.

Piazzale Loreto è una storia di benaltrismo, che di fronte alla realtà sgradevole e prossima, preferisce evocare come termini di paragone popoli lontani nel tempo e nello spazio, piuttosto che esempi più vicini e immediati, nel 1920 come nel 1945.

Il 10 agosto 1944 è stato teatro di un avvenimento che ha portato a legare Piazzale Loreto alla lotta al fascismo. Il plotone di volontari delle Brigate Nere “Ettore Muti” aveva ucciso quindici prigionieri politici presi dal carcere San Vittore per rappresaglia di un presunto attentato gappista e li aveva poi lasciati nella calda estate meneghina per circa 24 ore. I milanesi non potevano dimenticare questo momento e per quanto non premeditato dal colonnello Valerio, la scelta di piazzale Loreto nella notte tra il 28 e il 29 aprile sembra quasi obbligata.

Nuovamente Piazzale Loreto diventa teatro di un avvenimento allo stesso tempo grottesco e incredibilmente catartico: durante la notte vengono scaricati dai partigiani i cadaveri di Benito Mussolini, Claretta e Maurizio del clan Petacci, rispettivamente l’amante e il fratello di lei e altri 15 fedelissimi al Duce. La scelta del numero non è stata probabilmente casuale per rivendicare l’eccidio dell’anno prima.

Ciclicamente quell’arteria chiave di Milano è stato protagonista di un comportamento rituale, potremmo anche dire di tipo sacrificale, codificato forse anche a livello inconscio nella cultura popolare che – in particolari occasioni e con il giusto stimolo – è in grado di rispolverare tradizioni che sembrano dimenticate, ma che al tempo stesso evoca la barbarie assoluta, ciò che è più distante da noi e dalla nostra cultura.

Piazzale Loreto anni ’40. Fonte wikimedia commons

Calpestare l’idolo per calpestare la propria idolatria

Dal mattino la folla si accalca per osservarli. Sono loro i ragazzi di piazzale Loreto: una popolazione che per vent’anni ha vissuto del mito del corpo del Duce, il duce aratore, pilota, marinaio, operaio, oratore è davanti ai loro occhi nient’altro che cadavere. La folla deve vedere per poter credere alla fine della propria idolatria: i gesti di rabbia e orrore che saranno descritti possono essere visti nel tentativo di calpestare l’idolo per cancellare la propria stessa cieca fiducia nel capo.

Per non oltraggiare maggiormente i corpi presi di mira dalla folla, i partigiani presenti in piazza decidono di appendere i cadaveri alla pensillina del benzinaio Esso, proprio all’inizio di corso Buenos Aires, dove possano essere osservati da tutti. In una coreografia medioevale cara anche alle tirannie, l’esposizione del cadavere del vinto serve per esorcizzarne il potere, ridurlo a bottino di guerra, prolungare un’esecuzione rapida eseguita nella sconosciuta Dongo. La popolazione milanese appende il duce a testa in giù per rovesciare un’auto-rappresentazione del fascismo e la sua stessa storia. Un po’ carnevale un po’ epifania, assistiamo così al ribaltarsi di vent’anni di ruoli nei rapporti di potere, la fine e l’inizio vengono esposti.

Al posto giusto nel momento giusto (?)

A testimoniare le azioni della folla partecipa collettivamente tutta la città e qualche testimonianza più o meno oggettiva è rimasta fino ai giorni nostri: gli americani che hanno filmato le scene della piazza, il fotoreportage che riporta la fucilazione di Achille Starace, l’ex segretario del Partito Nazionale Fascista. Ormai caduto in disgrazia, viene eseguito a pochi metri dal suo duce.

Folla a Piazzale Loreto, Fonte lombardiabeniculturali.it

Tra le persone comuni vi erano anche giornalisti e fotografi. Intorno alle immagini dei cadaveri appesi fiorì un commercio clandestino che venne poi “censurato” dal prefetto di Milano. Uno in particolare, all’epoca 34enne, rivendicherà per tutta la vita di “aver fatto in tempo a vedere Mussolini appeso alla corda, accanto alla Petacci”. A parlare è Indro Montanelli. Eppure diversi documenti ufficiali conservati presso l’Archivio Federale di Berna dimostrano come Montanelli, in quei giorni in Svizzera, non tornò a Milano fino al 22 maggio (NdR Broggini, Passaggio in Svizzera). In seguito alla chiusura della frontiera il 13 aprile sarebbe stato impossibile per Montanelli fare avanti e indietro solo per l’occasione come raccontato dal giornalista Marcello Staglieno.

Montanelli parlò di “ubriacatura di piazza”, Parri di “macelleria messicana”, Perini di “insurrezione disonorata”. Il popolo di liberazione. Questa necessità di rivendicare la testimonianza di quel giorno descrive bene come l’aspetto metaforico della propria presenza nella dissacrazione del corpo del Duce rappresentò uno spartiacque nella coscienza nazionale italiana, non avvezza ai regicidi.

Piazzale Loreto ovunque

I luoghi della Resistenza e della Liberazione sono presenti anche in altre grandi città o piccoli borghi. Un caso emblematico è Torino, che sulla falsa riga di Milano, ha il suo luogo di esposizione: Corso Vinzaglio, all’angolo di Via Cernaia, nei pressi della stazione di Porta Susa. In quel luogo, il 22 luglio 1944, furono impiccati quattro partigiani che nel settembre 1943 avevano animato uno dei primi nuclei ribelli del cuneese. Il corpo esposto per vendetta nel ’45 fu quello dell’ultimo federale di Torino Giuseppe Solaro. Venne condotto per le vie cittadine in una macabra processione, aperta dall’auto dei comandanti della brigata Garibaldi, cui era affidata l’esecuzione.

A differenza delle grandi città, nei piccoli borghi la folla non era anonima, la conoscenza reciproca attribuiva maggior drammaticità al riconoscimento del carnefice. Particolare rilievo riveste la vicenda Cumiana, sempre nel torinese del 3 aprile 1944.
La cittadina del pinerolese fu teatro di uno dei più efferati eccidi tedeschi in Piemonte, in cui 58 civili vennero fucilati dalle SS per rappresaglia di un attacco partigiano. Il 3 maggio 1945 l’ex podestà, Giuseppe Durando, venne catturato da una squadra SAP, fu portato nella piazza della cittadina ed esposto alla violenza popolare. Pur non essendo stato complice dell’azione delle SS, era fuggito, diventando agli occhi della popolazione il responsabile morale. La piazza diventò così il luogo della resa dei conti. In altri luoghi vi furono episodi di dileggio, mediante la pratica della tosatura delle ragazze accusate di complicità con il fascismo.

Alcuni ruoli simbolici del potere del fascismo vennero invece riconvertiti, per un loro utilizzo pratico o simbolico. Embletico è il caso della villa Camilluccia a Roma, l’alcova d’amore tra il Duce e Claretta Petacci, dove la pompadoura e il suo clan ricevevano nel salotto tutti coloro che volevano avvicinarsi al Duce: “Era andato così costituendosi attorno a lei un clan di intriganti, parassiti e avventurieri, come anche di personaggi già collocati ai vertici del regime, quegli “arrivati” […] Perchè essere nelle grazie di Claretta significava essere anche in quelle del Duce.” da Mussolini e i ladri di regime.
Il destino di Villa Camilluccia nel dopoguerra è di diventare un orfanotrofio dell’ONMI (opera nazionale maternità e infanzia) e successivamente essere abbattuta nel 1975. Ancora nella capitale non va dimenticata la caserma in via Tasso 145, attuale sede del Museo della Liberazione. La struttura, già sede diplomatica tedesca, durante l’occupazione divenne carcere e caserma delle SS.
Alcune stanze dell’edificio, al piano superiore, vennero murate e trasformate in celle che ospitarono più di duemila antifascisti romani fra il 1943 e il 1944. L’episodio più cruento è quello del 24 marzo 1944 quando molti prigionieri detenuti in via Tasso furono portati alle Fosse Ardeatine e fucilati. Le celle di detenzione sono ancora come furono lasciate dai tedeschi in fuga. Queste stanze sono oggi dedicate alla memoria di coloro che vi furono detenuti, e ricordano le più drammatiche e significative vicende nazionali e romane dell’occupazione. In occasione del 75° anniversario della Liberazione e data la situazione emergenziale in Italia è possibile visitare le stanze e le mostre allestite nel Museo della Liberazione qui.

La folla che si assembra ©Archivio Corriere della Sera

I ragazzi di Piazzale Loreto

Dopo il fascismo, il popolo italiano sceglie la sua forma statale, vota per la Repubblica, vede il nascere della Costituente, le donne possono votare, lo Stato si riappropria degli edifici cari al fascismo, delle sue piazze, strade, campi, mari e monti: l’Italia è libera.
Ma tornando a 75 anni fa, aldilà dei tentativi di screditare la portata nazionale e storica di quegli eventi o di valutarli sconnessi dal ventennio di oppressioni che ha portato a questa conclusione, in primis ripensiamo a quelle persone in Piazzale Loreto, che hanno festeggiato e si sono abbracciate, si sono scambiate cannocchiali e binocoli per osservare meglio i corpi, per assicurarsi che il fascismo fosse effettivamente finito.

Cosa resta oggi? La salma del Duce avrà una storia tormentata di cui lui stesso era consapevole, già in vita. In una lettera del 1932 al fratello Arnaldo, scrisse: “Sarei grandemente ingenuo se chiedessi di essere lasciato in pace dopo morto.”

L’ultima lettera di “Ben” a Claretta datata 18 aprile 1945 ©Archivio di Stato

Ironicamente, neppure il suo carteggio privato con l’amante Claretta incorse nell’ultima censura che il Duce desiderava: molte delle centinaia di lettere che Mussolini inviò alla Petacci avevano infatti redatto in rosso la parola Stracciare in alto. L’amante, convinta di portare le tracce di un messaggio superiore, non le distrusse mai e sono tuttora conservate nell’archivio di Stato.

Segno simbolico che alla censura, anche dei lasciti che vorremmo eliminare, non si può soccombere.