“Ecco, ci risiamo”. Un pensiero sconfortante si fa largo tra le file di seggiolini di un San Siro a due anelli, forse molto più preparato alla delusione che a una festa attesa da nove anni. Maurizio Turone, un anno prima di quel gol fantasma alla Juventus, ha appena riportato in vantaggio la Roma di Nils Liedholm, animata da un 25enne Bruno Conti che, dopo anni di “precariato”, era finalmente rientrato dall’ennesimo prestito al Genoa, stavolta per restare. Dopo il primo tempo, in radio la voce di Enrico Ameri per “Tutto il calcio minuto per minuto” aveva definito non tutti gli uomini dell’Inter «all’altezza della situazione», rassicurando però i tifosi all’ascolto: la squadra «finora ha dato l’impressione di poter rimediare, sia pure con qualche fatica». Il gol di Turone era giunto dopo il pareggio momentaneo di Lele Oriali e la zampata di Pruzzo, che aveva aperto le marcature. Ai padroni di casa bastava però un solo punto per scacciare i cattivi pensieri e sigillare il 12esimo scudetto davanti al proprio pubblico.
I milanesi, a maggior ragione se interisti, erano stati abituati ad aspettarsi il peggio. Tifoso fin da ragazzo, ancor prima di perdere il padre a vent’anni mentre mangiava una fetta di panettone – il dolore più grande, persino maggiore di quello di dover lasciare la sua Inter a Pellegrini nel 1984 – Ivanoe Fraizzoli aveva acquistato l’Inter da Angelo Moratti nel 1968, dopo esserne diventato dirigente nel 1960 e esserne diventato socio addirittura del 1931, a 15 anni. Per vedere contraccambiato lo stesso amore che dedica alla causa nerazzurra non sarà però sufficiente lo scudetto del 1971, canto del cigno di coloro che resistono della Grande Inter.
Nelle stagioni successive la squadra non va oltre il quarto posto in Serie A e deve gestire un delicato cambio generazionale, simboleggiato dal passaggio di Mazzola ai quadri dirigenziali dopo 17 anni in campo, sempre con la “Beneamata”. Sono gli anni in cui Fraizzoli, con cuore e ingenuità quasi “morattiani”, tocca con mano i malumori della Milano interista, che gli rinfaccia «una totale insipienza negli acquisti», scriverà Gianni Brera, e che lo costringe a volte a uscire scortato persino dal suo stadio. Ampiamente prima di quel 1980 il presidente è convinto di averle provate quasi tutte per costruire una rosa con qualche velleità di successo, ma «chi ha i buoni giocatori se li tiene», quindi addio a De Sisti, Riva o Antognoni.
Ad appesantire il carico sulle spalle di Fraizzoli ci si era messo il Milan, vincitore della Serie A 1978-79 e del titolo della stella che cancellava la fatal Verona. Ma l’Inter, giurano i giornali, appare in crescita da quando sulla panchina si è seduto Eugenio Bersellini, accolto da un comprensibile scetticismo vista la retrocessione della sua Sampdoria. La mano del “sergente di ferro” però si vede, seppur su una squadra che Mazzola e il direttore sportivo Giancarlo Beltrami, dopo le spese sconsiderate e non fruttuose del presidente, decidono di rinforzare anche guardando alla Serie B. Da Brescia arrivano Evaristo Beccalossi, che il Torino giudica discontinuo, e Alessandro Altobelli, dall’Ascoli viene acquistato Giancarlo Pasinato. Nel cocktail-Bersellini finiscono tra gli altri anche i giovani Bini e Beppe Baresi, il più esperto Oriali e Roberto Mozzini, che il tricolore l’ha già vinto al Torino nel 1976.
Nel settembre 1979 l’Inter inizia una cavalcata che la vede cadere solo due volte in 27 giornate, impreziosita dalle manifestazioni di superiorità tecnica di Beccalossi, come nel caso dei due gol rifilati al Milan giocando su un prato fradicio. Le uniche sconfitte nerazzurre erano arrivate per mano della Juventus e, prima ancora, della Roma, la stessa che quel 27 aprile 1980 era a 45 minuti dal “colpo gobbo”, che avrebbe riaperto un campionato per molti già chiuso, dando speranza proprio ai bianconeri di riprendere l’Inter, già reduce da due pareggi.
Quel pomeriggio, la paura dell’ennesima beffa si sovrapponeva a quella di un’intera città «fredda, frenetica e senza pietà», come la definisce Vincenzo in un tormentone di Alberto Fortis dell’anno precedente. Milano era stanca, aveva voglia di guardare verso un futuro migliore ma era logorata dai continui episodi che ne avevano fatto una delle culle della violenza negli anni di piombo. Il primo aprile le Brigate Rosse avevano fatto irruzione nella sede milanese di Democrazia Cristiana, in via Mottarone, gambizzando quattro persone. Pochi mesi prima, nei primi giorni di gennaio, tre poliziotti erano stati uccisi nell’attentato di via Schievano, rivendicato dalla colonna milanese dedicata a Walter Alasia che era stata riorganizzata dopo l’arresto di otto brigatisti avvenuto a fine 1978 in via Monte Nevoso, zona Lambrate. A questi fatti si sommarono quelli dell’organizzazione Prima Linea, che il 19 marzo 1980 assassinò il magistrato e docente di criminologia Guido Galli in un’aula dell’Università Statale di Milano.
Nel frattempo, anche il mondo del calcio aveva subìto un forte scossone. Il 23 marzo del 1980 destano scalpore le immagini trasmesse da “90° minuto” che mostrano “l’Alfetta” della polizia ferma sulla pista dello Stadio Olimpico. Al termine delle partite, a Roma e non solo, scattano gli arresti che aprono il triste capitolo del calcioscommesse noto Totonero, che coinvolgerà presidenti e giocatori illustri e sancirà, con le sentenze del processo sportivo, la retrocessione in Serie B di Milan e Lazio.
Se una parte di Milano, quella che per la prima volta è orfana di Gianni Rivera, rivolge quei pensieri di fine aprile a ciò che sta per essere deciso dai tribunali, i tifosi “bauscia” seguono quanto accade sul campo, ma non con meno preoccupazione. Il secondo tempo di Inter-Roma scorre veloce scandito dalle frasi di Ameri, a cui i colleghi chiedono la linea interrompendolo con un eloquente «scusami tanto». A Torino la Juventus è avanti 3-0 sul Perugia e, se in 40 anni non è cambiato nulla, più di qualche interista a San Siro imbocca la via dell’uscita. Restano altre due giornate di campionato, ma la paura sale. Fino a quando è Ameri a richiedere la linea:
Quel destro rasoterra, per tutti ormai la “saetta”, aveva raddrizzato un secondo tempo «si può dire forse carico, pieno di incubi, ma ora è arrivata la rivelazione», mentre «anche il sole fa capolino sul cielo dello stadio».
Ospite insieme a tutta la squadra alla Domenica Sportiva, il presidente Fraizzoli appare più sollevato che gioioso, nonostante Ameri parli di un titolo «che mai come in questa stagione sembra meritato». Gli insulti di alcuni tifosi sono proseguiti anche a scudetto conquistato e il pensiero di Ivanoe, forse, è già rivolto a come dire addio prima che si posi la polvere sull’ultima impresa. Lo farà pochi anni dopo, reggendo in una mano la penna per firmare la cessione del club, nell’altra un fazzoletto.
Prima che Beppe Viola inizi a tempestare di domande i protagonisti del 12° tricolore, il programma si apre con un servizio che mostra il traffico milanese in tilt, con diverse strade del centro intasate dalle auto in festa, tra clacson e bandiere. Celebrazioni che dureranno per qualche ora prima di lasciare, dopo la notte, nuovamente spazio alla paura.
Quel 27 aprile pomeriggio, Renato Vallanzasca si trovava nel carcere di San Vittore. In un’intervista rilasciata nel 2006 all’Europeo dirà, nonostante un debole per la sponda rossonera «fin da piccolissimo», che «se proprio non deve vincere il Milan vorrei che fosse l’Inter». In quelle ore di caroselli, però, è improbabile che i suoi pensieri siano rivolti all’euforia dei cugini. Il 28 aprile scoccava infatti il termine ultimo per eseguire quel piano non particolarmente complesso, come lui stesso ha dichiarato, che era stato rimandato per lasciar passare un periodo in cui «di fatto, in carcere, erano un po’ in sbattimento». Intorno alle 13 di quel lunedì, durante l’ora d’aria, il Bel Renè – soprannome che non ha mai particolarmente apprezzato – dà vita a una clamorosa evasione.
Impugnata una pistola introdotta e consegnata da una guardia qualche giorno prima, Vallanzasca prende in ostaggio un brigadiere e si fa largo verso l’uscita del carcere, riuscendo a varcarne il portone che affaccia su piazza Gaetano Filangieri.
La fuga è però destinata a durare poco: mentre il bandito attende di essere raggiunto fuori da San Vittore dai suoi compagni di evasione, dei colpi di pistola attirano l’attenzione dei carabinieri. La corsa disperata si conclude a poche centinaia di metri dalle mura del penitenziario, dove un proiettile rimbalza contro il muro e raggiunge Vallanzasca all’altezza della nuca.
«È quel bastardo di Vallanzasca. Ora finirai per sempre di rompere i coglioni».
Udii distintamente il rumore del carrello dalla pistola quando si mette il colpo in canna. Era alle mie spalle. Merda, mi stava ammazzando e, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a muovermi Non avevo paura, ma ero furioso. Morire ci stava pure, ma non riuscire a portarmene appresso qualcuno, era proprio da pirla.
Poi sentii un ‘altra voce: «Fermi! Non vedete che è morto?»
Lo poteva scorgere da terra. Era un carabiniere. Lo sentii discutere con gli altri sbirri.
«Ha ammazzato più di un tuo collega e dei nostri. Perché non vuoi eliminarlo?»
Un carabiniere gli stava salvando la vita. Sì, devo la pelle ad un ragazzo in divisa.
[ Carlo Bonini & Renato Vallanzasca – Il fiore del male. Bandito a Milano – 2009 ]
Da Milano il Bel Renè viene portato a Novara, dove imperterrito dà vita all’ennesima rivolta carceraria durante la quale vengono uccisi alcuni collaboratori di giustizia. Una vicenda macabra che gli costa il carcere duro a Genova. Da cui trova nuovamente la via per la fuga, ancora una volta rocambolesca, il 18 luglio 1987, da un oblò del traghetto che avrebbe dovuto portarlo al carcere di Nuoro in Sardegna. La sua fuga che dura con alcuni soggiorni forzati da 15 anni – dal primo arresto del 1972 ai tempi della ligera, la mala milanese di Turatello – volge infine al capolinea.
L’8 agosto 1987, a un posto di blocco a Grado, dopo aver soggiornato alcuni giorni nella rinomata località turistica, viene arrestato mentre cerca di raggiungere Trieste. Si registra un ultimo tentativo di fuga nel 1995, il canto del cigno per il bandito che ha passato in carcere 48 dei suoi neanche 70 anni, anche se, stando ai quattro ergastoli cui è stato condannato, ne dovrebbe complessivamente scontare 295.
«Hai fatto 13, sono Renato Vallanzasca». Sarebbero queste le parole rivolte dal criminale al giovane militare che lo ferma per l’ultima volta, forse ignaro di essere sul punto di compiere l’arresto più importante della sua carriera. Erano passati oltre sette anni da quel 27 aprile, in cui l’Inter aveva appena fatto 12 e il Bel Renè pianificava una vita oltre le sbarre lunga chissà quanto.