Quanto a lungo dunque, Catilina, continuerai ad approfittarti della nostra pazienza?
La congiura di Catilina, XX, 9 – Sallustio

«Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici». Festa Mobile è il titolo che Hemingway ha dato al romanzo autobiografico che racconta il suo lungo soggiorno europeo negli anni Venti. Il libro tornato è tornato alla ribalta nel 2015, dopo gli attentati al Bataclan, nella sua traduzione francese Paris est une fête – una reazione editoriale identica a quanto accaduto con il Trattato sulla tolleranza di Voltaire dopo gli attentati a Charlie Hebdo.

«Pur essendo una notizia attesa, lascia lo stesso una grande tristezza» ha affermato la sindaca di Pamplona. Questi sono sempre gli Anni Venti ma del XXI secolo, ed è la Spagna ai tempi del Coronavirus che deve far slittare le sue fiestas. La Feria de Abril a Siviglia, Las Fallas a Valencia e la corsa coi tori per le strade di Pamplona dei Sanfermines sono state annullate. L’ultima sospensione completa delle tre principali celebrazioni di interesse turistico internazionale è accaduta nel 1938, in piena Guerra Civile.

Una sola celebrazione resiste, anche se mobile nel calendario: quella del patrono della Catalogna, Sant Jordi, che anno dopo anno si è mischiata col Giorno del Libro e della Rosa. Ma che rimane una giornata identitaria per i catalani.

Libreria Catalònia il giorno di Sant Jordi del 1932 – Gabriel Casas

Il legame di Sant Jordi con i libri e la cultura nasce all’inizio del ‘900: le associazioni di editori cittadine scelsero il 23 aprile perché in questa data morirono Shakespeare (1564) e Cervantes (1616). Nel 1929, durante l’Expo di Barcellona, ai librai venne l’idea di allestire banchi all’aperto per promuovere le novità editoriali e incoraggiare la lettura. La risonanza globale di questa iniziativa ha portato l’Unesco nel 1995 a scegliere il 23 aprile come Giornata Internazionale del Libro e del Diritto d’Autore. Nel 2015 Barcellona è stata nominata “Città della Letteratura”. Sant Jordi è infatti per i catalani anche una festa identitaria: alla fine del XIX secolo il movimento letterario della “Renaixença” (Rinascimento) la scelse come data simbolo per celebrare e difendere la lingua e la cultura della Catalogna.

Jordi è identità e resistenza, lo sa bene un bambino nato il 9 febbraio 1974. Solo una cosa poteva essere più pesante del fatto di chiamarsi Cruijff: chiamarsi Jordi Cruijff. Il “figlio della Catalunya” è la prova di come un nome proprio sia tutt’altro che tale: non l’ha scelto lui, non è soltanto suo. Anzi, c’è pure chi non lo considera affatto un nome. Quando il padre Johan – la consustanziazione vivente di calcio, cultura e politica olandese del XX secolo – arriva all’anagrafe di Barcellona si sente dire: «Se vuole, può cambiarlo in Jorge, è l’unica variante che possiamo accettare». Il regime franchista diede vita a una dura politica linguistica, che sospese lo Statuto d’Autonomia e la cittadinanza catalana, la galiziana ed euskara. “Castiglianizzazione” è la parola d’ordine, il castigliano l’unica lingua ammessa, tutte le altre di fatto vivono in stato di clandestinità. «Questi sono i documenti olandesi, con il nome Jordi, che vi piaccia o no. Fatevi una fotocopia». Con Johan Cruijff si può discutere, ma alla fine «C’è solo un pallone e chi ce l’ha decide».

Uno dei più noti esempi del legame tra sport e nazionalismo catalano. Si commemora l’11 settembre 1714, la sconfitta della Coronela, l’esercito catalano, per mano del re di Spagna Filippo V di Borbone. Mentre gli storici dibattono sull’entità statuale catalana a cui il Sacro Romano Impero riconosceva una sovranità, i tifosi al Camp Nou cantano “Independencia”

Più che di pallone, in questi giorni in Italia si parla di Spagna solo in termini automobilistico, con il sorpasso dei contagi tra i due paesi. La recente pandemia da Covid-19 si è innescata nello scenario caotico di un paese che da tre anni non sembra conoscere alternativa alla parola crisi.

«Volete che la Catalogna sia indipendente e repubblicana?». Questo il testo del referendum che la Generalitat, il governo autonomo catalano, ha approvato per referendum del 1 ottobre 2017. Una consultazione che Madrid e la Corte Costituzionale hanno dichiarato illegale. Tra scontri violenti e proteste, il voto si tenne ugualmente. Si ritiene che abbia votato la metà dei catalani, con un’affluenza contestata del 43%, oltre il 90% dei votanti si espresse per il “sì”, anche se un sondaggio realizzato nel 2018 ha fatto emergere come per quasi il 70% dei catalani il referendum indipendentista sia stata una consultazione illegittima. Dunque l’1-0, acronimo per la data del voto, non sarebbe stato una valida base legale per la Dichiarazione unilaterale d’indipendenza che invece il Parlamento catalano ha approvato il 27 ottobre.

L’immagine simbolo della crisi catalana – Durante il referendum del 1 ottobre 2017, la Polizia spagnola, che ha preso il posto dei Mossos d’Esquadra, irrompe nelle scuole che fungono da seggi per il referendum che Madrid considera illegale © Getty Images

«Nello spazio di un mese – ha scritto Gilberto Bonalumi di Ispi – si è consumato un conflitto senza precedenti fra il governo centrale, che ha impugnato la legalità costituzionale, e il governo di una regione che si sente Nazione e pertanto non riconosce più la legittimità di quella Costituzione». Poche ore dopo il referendum, il Senato spagnolo ha approvato l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione – entrata in vigore il 29 dicembre 1978, una delle date della Transición pactada spagnola, che nel suo Titolo VIII riconosce 17 Comunità autonome, tra cui quella catalana – dando mandato al primo ministro spagnolo Mariano Rajoy di sospendere gli organi autonomisti della Catalogna. Il premier ha dunque assunto i pieni poteri e convocato nuove elezioni regionali per il 21 dicembre 2017. La Generalitat è stata commissariata e 12 leader indipendentisti furono arrestati o fuggirono all’estero, come il Presidente della Generalitat, Charles Puigdemont, che ha scelto di sottrarsi alla magistratura spagnola accusandola di essere al «servizio dello Stato centralista», prima di venire eletto al Parlamento europeo nel maggio 2019. Oltre ai vertici regionali sono stati rimossi anche circa 200 tra funzionari pubblici, capi di gabinetto e consiglieri.

Al culmine dello strappo, Madrid e Barcellona sembrano aver avviato un percorso di de-escalation della crisi. Puidgemont è in auto-esilio, Rajoy è caduto e alla Moncloa è arrivato Pedro Sánchez. Alla paralisi che affligge da quattro affligge anni il governo spagnolo, fanno eco le divisioni all’interno che fronte catalano. A sinistra, Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), ls formazione di Oriol Junqueras che appoggia esternamente il governo Sanchez, ha sostanzialmente rotto il paradigma indipendentista; entrando in collisione con Junts pel Sí, la formazione di centrodestra che, guidata da Artur Mas prima e Puidgemont poi, dal 2006 ha intrapreso il sentiero indipendentista. Se Madrid piange, Barcellona non ride e i due contendenti nella crisi hanno optato per una “tregua armata”.

Il tavolo della Mesa de Dialogo del 26 febbraio alla Moncloa. A destra il presidente della Generalitat Quim Torra, a sinistra il suo vice Pere Aragones, al centro il premier spagnolo Pedro Sanchez con la sua vicepresidente, Carmen Calvo © David Castro


Mesa de Dialogo è stata la parola d’ordine, poco nota ai media italiani, all’ordine del giorno della politica spagnola pre-Coronavirus. Alla Moncloa il 26 febbraio ha avuto luogo il primo “Tavolo bilaterale di dialogo, negoziazione e accordo per la risoluzione del conflitto politico”. I governi spagnolo e catalano avevano avviato il tentativo istituzionale di superare la crisi e portare la Spagna fuori dal pericoloso scontro tra nazionalismi. Nel testo del comunicato congiunto si era giunti al clamoroso assunto che poneva le basi per una soluzione politica del conflitto. Il conseguente corollario alla strada del dialogo tra governo nazionale e quello dell’Autonomia è, da un lato, il disconoscimento della risoluzione giudiziaria sin qui perseguita, dall’altro una profonda sconfessione delle linee politiche che sin qui hanno animato i partiti sulla questione catalana.

Il PSOE si allontana da decenni di centralismo “spagnolista” di storiche figure come Felipe González e Alfonso Guerra; il Partido popular si distacca dal suo regionalismo cattolico-liberale; Ciudadanos scopre una diversa sensibilità verso nazionalismo nell’area politica della sindaca di Barcellona Ada Colau e Podemos continua a tenere una posizione ambigua quando non ignava verso l’indipendentismo catalano. Di contro, chi non si è seduto alla “mesa” continua a rifiutarsi di riconoscere finanche della legittimità democratica dell’esecutivo: è il caso di Vox all’estrema destra dello spettro politico e degli altri indipendentisti catalani di Junts pel Cat (JxC) guidati da Pugdemont.

Nel percorso, di per sé già tortuoso, del tavolo di dialogo è irrotta con prepotenza la pandemia. Sconfiggere il Covid è diventato la priorità assoluta di Madrid e Barcellona, le due città più colpite dal virus. La mesa è stata temporaneamente messa nello sgabuzzino. La road-map prevede il lockdown fino almeno al 9 maggio, a cui dovrà far seguito l’approvazione del bilancio catalano e l’annunciato scioglimento del parlamento catalano da parte del presidente Torra. Solo allora entreremo nella “fase due” della gestione della crisi: scopriremo se Spagna e Catalogna si siederanno nuovamente al tavolo del dialogo o lo faranno saltare.