A pensarci bene, la gestione dell’attesa è una delle qualità più straordinarie messe in mostra da Jamie Vardy nell’ultimo decennio nel quale, tappa dopo tappa, il suo futuro ha preso forma in maniera totalmente non programmabile. È questa capacità di attendere che lo ha portato di volta in volta ad imboccare la strada giusta per ogni bivio in cui la via alternativa, magari più rapida, lo avrebbe condotto chissà dove.
Lo si capisce di più in un momento in cui, per molti, la sospensione improvvisa delle vite è accompagnata da tantissimi punti interrogativi che aumentano la frustrazione di non poter agire. In altre parole, l’attesa forzata fa comprendere quanto sia difficile scegliere di attendere quando si hanno altre opzioni.
A tal proposito, chissà cos’ha pensato Vardy scoprendo che, causa Coronavirus, la Premier League sarebbe stata sospesa a pochi giorni dai suoi gol numero 98 e 99 nel campionato inglese. Un “fucking hell” gli sarà scappato, magari ridendoci su, certamente consapevole che l’attesa per giungere a quel traguardo sarebbe stata, tra quelle vissute in carriera, la prima ricolma di certezze piuttosto che di dubbi. Perché che si tratti di giugno o settembre, di nuova o vecchia stagione, è ormai difficile pensare che qualcosa possa impedire a Vardy di diventare il più anziano giocatore di sempre a segnare 100 volte in Premier League. Il primo di questi gol arrivò con la maglia del Leicester contro il Manchester United, nel settembre 2014: Jamie aveva 27 anni, un’età in cui molti dei colleghi a cui andrà a fare compagnia contavano già reti a grappoli.
La verità, per quanto possa sembrare strano, è che per Vardy quello di entrare tra i migliori marcatori del campionato del suo Paese non era un obiettivo, nel senso più autentico del termine. Di sicuro non lo era più da quando, a 15 anni, lo Sheffield Wednesday decise di liberarlo perchè lo riteneva troppo minuto per diventare calciatore. Nemo propheta in patria, ma la bocciatura della squadra per cui tifava, nella città in cui era nato, bruciò talmente tanto da fargli pensare «che avrei smesso di giocare», come racconterà alla BBC. Non accadrà, nonostante le priorità diventino altre e Vardy decida di attendere circa un anno prima di tornare a giocare su campi decisamente meno curati rispetto a quelli dello Wednesday. Sceglie lo Stocksbridge, sempre in South Yorkshire e a pochi chilometri da Sheffield, dove prosegue gli studi. Oggi lo stadio locale da poche migliaia di persone, Bracken Moor, ha una tribuna chiamata “Jamie Vardy”, dedicata a quello che all’epoca era solo un ragazzo tra i tanti, a cui toccò aspettare altri quattro anni per avere un’opportunità in prima squadra.
Con quella promozione nel 2007 arriva il primo stipendio da calciatore, 30 sterline a settimana, ma anche una rissa da pub che gli costa una condanna e sei mesi di libertà vigilata, certificata da una cavigliera elettronica «impossibile da rompere, nemmeno a calci», dirà anni dopo a FourFourTwo. Vardy può stare fuori fino alle sei di pomeriggio, ma alcune partite in trasferta dello Stocksbridge non gli permetterebbero di tornare a casa in tempo: lui allora gioca un’ora, o giù di lì, prima di farsi sostituire e lasciare il campo per rispettare il coprifuoco.
Durante la settimana, intanto, Jamie porta avanti quello che si augura di far rimanere un piano B, con turni di 12 ore in una fabbrica che produce tutori medici in fibra di carbonio. Il lavoro sfiancante non intacca quella riserva inesauribile di energia da dedicare esclusivamente al campo, per arrivare prima su un pallone o per fare a spallate (si fa per dire) con i poco gentili difensori della Non-League, come viene chiamato il sistema delle serie semi professionistiche inglesi, dalla quinta divisione in giù.
Con lo Stocksbridge i gol fioccano che è un piacere, faranno da biglietto da visita e serviranno a portare il nome di Vardy oltre i confini del South Yorkshire. Nell’estate del 2010 è l’Halifax Town, su consiglio del tecnico Neil Aspin, a spendere circa 15.000 sterline per il giocatore, a cui toccano invece 100 sterline a settimana. Jamie aspetta e continua a fare ciò che fa meglio: segna, conduce i suoi al titolo della Premier Division nella Northern Premier League e viene votato giocatore dell’anno dai calciatori stessi, guadagnandosi un nuovo cambio maglia.
Per il trasferimento al Fleetwood Town Vardy deve attendere il penultimo giorno di mercato dell’estate del 2011, quando la stagione è già iniziata e lui ha già segnato tre reti in quattro match con l’Halifax. Per chiudere l’affare Jamie si presenta nell’ufficio del vice-presidente in T-shirt e jeans, come se in ballo non ci fossero il salto in National League e il primo contratto full-time da calciatore, peraltro con il lavoro in fabbrica lasciato pochi giorni prima perché «non ce la facevo più, ho deciso di vivere di provare a vivere di solo calcio per un anno e vedere dove mi avrebbe portato». È un dettaglio, ma serve a capire perché l’imprevedibilità sia componente essenziale di un percorso che non si può inquadrare nel solito schema della scalata dal nulla al successo, come conferma il giocatore stesso dicendo che la sua crescita «non era programmata», ma «è semplicemente accaduta». L’impegno e la fame mostrati sul campo sono l’unico modo in cui Vardy sa svolgere il proprio lavoro, tanto che ancora oggi in molti sostengono che giochi «un calcio da Sunday League agli standard della Premier League», usando le parole di Stephen Tudor su Forbes.
Molto più prevedibile è il fatto che sia Vardy, esattamente come auspicato dal presidente Andy Pilley, a risolvere i problemi di prolificità del Fleetwood, che a dispetto di una rosa già costosa e obiettivi ambiziosi faticava a trovare la via della rete. Tra i mille scherzi organizzati a dirigenti e compagni di squadra, Jamie segna 34 gol in 42 presenze, guidando il Fleetwood alla prima promozione di sempre tra i professionisti, in Football League.
Il futuro di Vardy a quel punto era già oltre, come si era capito dalla sfida in FA Cup con il Blackpool, club all’epoca in seconda divisione. Il Fleetwood perde 5-1 ma a fine gara l’allenatore rivale Ian Holloway non resiste e si avvicina all’attaccante autore del gol della bandiera, come spiegato dal giocatore stesso alla BBC: «È venuto da me dopo la partita, iniziando a delirare. Era tra quelli che si dissero disposti a pagare un milione di sterline. Dopo quell’episodio, il presidente mi disse che se nessuno avesse pagato quella cifra non sarei andato da nessuna parte».
La cifra proposta da Holloway in realtà non è un delirio, perché a fine stagione sono diversi i club pronti a staccare lo stesso assegno, il più alto mai visto per un giocatore della Non-League. Per Vardy si tratta forse della scelta più facile mai fatta: soltanto pochi mesi prima, il Leicester City, le sue strutture e la Championship erano un miraggio.
Ma per chi viene da anni con i piedi che hanno fatto radici a terra, un sogno può avere i suoi effetti collaterali. A testimonianza di come Jamie fosse ancorato alla realtà, dopo il doppio salto di categoria e i gol che per la prima volta non arrivano il giocatore pensa di «non essere abbastanza bravo per la Championship», come spiegherà a Sky Sports. Da lì la richiesta fatta al manager Nigel Pearson di essere rispedito in prestito al Fleetwood e l’ammissione rivelata da Aiyawatt Srivaddhanaprabha, figlio dell’ex presidente del Leicester Vichai, di cui ha preso il posto dopo il tragico incidente in elicottero del 2018: «Mi disse che non sapeva cosa fare della sua vita, che non aveva mai guadagnato così tanti soldi».
Per una volta, sono gli altri a dire a Vardy di aspettare, che i gol sarebbero arrivati com’è sempre successo. Lui, ancora una volta, coltiva questa attesa nel modo migliore possibile: lavorando ancor più duramente sul campo ma, soprattutto, prendendosi del tempo per realizzare di poter finalmente riaprire quel cassetto in cui, da anni, giaceva la delusione più grande. Nella seconda stagione arriveranno le reti, così come la promozione in Premier League: anche per l’impatto sulla massima serie ci vorranno alcuni mesi, perché dopo quel primo gol al Manchester United Jamie tornerà a segnare nel 2015, a fine stagione, giusto in tempo per aiutare il Leicester a raggiungere quella salvezza miracolosa, il “great escape”.
Quella che sembrava la fine di una scalata diventa per Vardy l’inizio di una nuova vita. L’impressione è che tra il lavoro in fabbrica, la Non-League e il titolo di campione d’Inghilterra con il Leicester, oltre alla convocazione in nazionale, non sia passato semplicemente del tempo. Quello non sarebbe bastato. In mezzo c’è la propensione di un uomo a uscire inevitabilmente fortificato da ogni momento di transizione, forse proprio per quella capacità di sfruttare l’attesa, accettandone l’incertezza e facendone un terreno fertile per l’evoluzione piuttosto che un luogo abitato da paure e incertezze.
Per questo sarebbe interessante chiedere a Jamie Vardy cosa vede, a 33 anni, oltre questo periodo di congelamento forzato a cui tutto il mondo è costretto. Ci sono i 100 gol in Premier League, certo, ma anche molto altro impossibile da prevedere ora. Dopotutto è la storia della sua carriera a dirlo: l’attesa come occasione per prepararsi a scenari e opportunità che ora non si vedono, ma che domani saranno più chiari.