Il genocidio in Ruanda è sicuramente l’evento più conosciuto della storia africana recente. Nel 1994, in soli cento giorni, sotto gli occhi indifferenti della comunità internazionale, furono massacrate oltre ottocentomila persone. Gli estremisti di etnia hutu, aizzati dalla feroce propaganda di Radio des Milles Collines che invitava «a sterminare gli scarafaggi tutsi», uccisero sistematicamente membri di etnia tutsi e Hutu moderati, in un massacro che il Tribunale penale internazionale istituito dal Consiglio di sicurezza dell’ONU ha dimostrato essere stato pianificato da tempo e con metodo. E con la complicità di alcuni stati colonizzatori quali Belgio e Francia. Non si è trattato di un’irrazionale esplosione d’odio, non è stato per caso né all’improvviso. Lo sterminio non è avvenuto solo a colpi di machete: nei tre anni precedenti il 1994, sotto gli occhi della Banca mondiale, il piccolo stato del Ruanda era stato il terzo importatore d’armi di tutta l’Africa. Le guerre nel Continente Nero vengono quasi sempre raccontate dai media occidentali come naturali conseguenze di atavici rancori tra gruppi etnici, irrimediabilmente nemici e incapaci di gestire il conflitto con gli strumenti delle moderne democrazie. Ma il conflitto tra Hutu e Tutsi non è così antico: non si fonda su oscure logiche tribali ma sulle politiche dei colonizzatori.
A differenza della maggior parte dei paesi africani, lo stato del Ruanda non è nato dalle frontiere artificiali decise alla Conferenza di Berlino del 1885, esisteva come realtà etnico-politico da almeno quattro secoli prima dell’arrivo degli europei. Paradossalmente, Hutu e Tutsi non si sono trovati a vivere insieme casualmente a causa di nuove imposizioni coloniali. Vivevano già insieme, organizzati in società feudali, la cui struttura sofisticata e solida, sorprese enormemente i primi visitatori europei. A partire dal Sedicesimo secolo, si era costituito un regno dalla struttura centralizzata, basato su una rigida divisione di ruoli tra allevatori-guerrieri tutsi, che costituivano circa il 15% della popolazione, e coltivatori hutu, che rappresentavano l’85%. Il sovrano era tutsi ed esercitava un potere effettivo su una classe di capi, anche loro della stessa etnia. Lingua, religione, tradizioni erano le stesse per ambedue i gruppi. Dopo la Conferenza di Berlino il Ruanda cadde sotto la sfera di influenza tedesca, dopo la Prima guerra mondiale venne assegnato al Belgio. I Belgi erano piuttosto impegnati nello sfruttamento delle enormi risorse del vicino territorio del Congo, affidarono quindi l’amministrazione del Ruanda ai capi tradizionali dell’aristocrazia tutsi. Sulla scorta del pensiero scientifico dell’epoca, che stava cercando di classificare i gruppi umani per dare fondamento all’ideologia della razza, i belgi cominciarono a studiare Tutsi e Hutu da un punto di vista etnico-razziale. Misurarono i tratti somatici, elaborarono ipotesi e teorie assolutamente arbitrarie, che ebbero però un’enorme influenza sulle categorie mentali e politiche.
Si affermò l’idea che Tutsi e Hutu appartenessero a razze diverse: gli Hutu, di altezza media, con nasi grandi e tratti marcati erano classificati come popolo bantu; i Tutsi, alti e snelli, con nasi sottili e tratti delicati, vennero considerati di razza camita, cioè di pelle nera ma più vicini alla razza caucasica, quindi superiori e più civilizzati. Si elaborò la teoria per la quale i Tutsi sarebbero giunti in Ruanda discendendo il corso del Nilo con le loro mandrie e sottomettendo al loro arrivo le popolazioni hutu di agricoltori. D’altra parte, un regno strutturato e complesso come quello che gli Europei trovarono al loro arrivo in Ruanda doveva essere stato realizzato da un popolo superiore, non certo da selvaggi. I Tutsi vennero quindi descritti dai colonizzatori come i capi naturali, mentre gli Hutu come una popolazione naturalmente destinata a restare subordinata. In realtà, i matrimoni misti erano sempre stati una pratica diffusa, non era concretamente possibile isolare un “tutsi puro”; così come, per quanto i Tutsi potessero essere identificati come gruppo economicamente e socialmente dominante, esistevano Hutu ricchi e potenti e Tutsi poveri. Nonostante fosse quindi praticamente impossibile sostenere l’appartenenza esclusiva di un qualunque individuo all’uno o all’altro gruppo, negli anni Trenta i Belgi introducono in Ruanda una carta di identità dove viene chiaramente specificata l’appartenenza etnica. Hutu e Tutsi, rispettivamente coltivatori e allevatori, diventano termini per indicare due categorie di persone, due classi diverse, due razze, dove una domina l’altra. Gli stessi documenti saranno ancora in uso nel 1994, quando per i Tutsi la certificazione della razza corrisponderà a una condanna a morte immediata.
Negli anni Cinquanta le alleanze improvvisamente cambiano. Sulla scia dei vari movimenti africani per l’indipendenza, i Tutsi rivendicano il diritto all’autodeterminazione e l’indipendenza dai Belgi; l’amministrazione coloniale e i missionari cattolici cominciano allora ad interessarsi ai contadini hutu, fino ad allora esclusi e discriminati, ma che diventano fondamentali per garantirsi l’appoggio della maggioranza della popolazione nella prospettiva di elezioni democratiche. Si comincia a parlare di Hutu power, si costruisce l’ideologia del popolo maggioritario: è la cosiddetta “rivoluzione sociale”, con la benedizione dei Belgi e dei missionari cattolici gran parte dei Tutsi viene massacrata o costretta all’esilio. I presidenti hutu che si succederanno negli anni avranno sempre l’appoggio del governo belga, le persecuzioni contro i Tutsi continueranno in maniera più o meno scoperta fino alla guerra civile 1990-1993, sfociata nel genocidio del 1994, sfogo disumano di un odio feroce nutrito poco per volta.
Nostra signora del Nilo comincia nel 1973, vent’anni prima del genocidio, in un liceo femminile, il miglior liceo femminile di tutto il Ruanda. Nostra signora del Nilo si trova tra le nuvole, a 2493 metri d’altezza, alle sorgenti del Nilo. È per le ragazze che il liceo l’hanno costruito così in alto, così distante, per tenerle lontane, per proteggerle dal male. Qui le migliori ragazze del paese possono ricevere «l’educazione democratica e cristiana appropriata all’élite femminile di un paese che aveva fatto la rivoluzione sociale e si era così sbarazzato delle ingiustizie feudali». Le signorine del liceo sono destinate a un bel matrimonio, ci devono arrivare vergini e possibilmente non rimanere incinte prima. Queste ragazze sono la garanzia di fruttuose alleanze tra uomini politici e uomini d’affari. Grazie a loro la famiglia si arricchirà, il clan consoliderà la sua potenza, la dinastia espanderà il suo dominio. Alla sorgente del Nilo c’è una Madonna nera, con il viso nero, le mani nere, i piedi neri, una Madonna africana con il tipico naso delle donne tutsi. Sono gli anni Settanta, i Tutsi sono mal tollerati. Nelle foto i volti dei vecchi capi tutsi sono stati cancellati, l’accesso al liceo è regolato da quote etniche: le studentesse tutsi ammesse sono solo il dieci per cento. L’odio si semina nelle scuole, non è solo appalto di maschi armati, è praticato con ferocia da affascinanti e promettenti ragazzine altolocate dai nomi virtuosi e timorati come Gloriosa, Goretti, Modesta. Gloriosa è una giovane hutu, bulla e prepotente. Ha imparato dal padre l’odio per i Tutsi, gli scarafaggi, che minacciano la purezza del popolo hutu. Vanno annientati. Gloriosa vuole una nuova statua, una nuova faccia per la Nostra Signora del Nilo, vuole una madonna col viso del popolo maggioritario, una Vergine hutu di cui essere orgogliose.
Scholastique Mukasonga è una scrittrice ruandese di etnia tutsi, oggi vive in Normandia. Nel 1973 è stata costretta a scappare prima in Burundi poi in Francia per sfuggire alle persecuzioni degli Hutu. Con una scrittura leggera, semplice, poetica racconta un aspetto meno cruento ma non meno violento dell’odio razziale: come si struttura l’ideologia della purezza, quanto è potente la costruzione della minaccia e la disumanizzazione dell’altro a partire dalle pratiche educative, dalle relazioni tra ragazzi, dai gesti quotidiani. Il mondo delicato di un liceo femminile si squarcia, l’esplosione violenta sembra una follia improvvisa, mentre era stata costruita lentamente e con cura, giorno dopo giorno, silenziosamente. Nostra signora del Nilo è il primo romanzo non autobiografico di Mukasonga, che nel 1973, esiliata in Burundi, ricevette dai genitori la missione di testimoniare la loro esistenza e lo sterminio che già si annunciava. « I miei due primi libri sono tombe di carta innalzate alla loro memoria.» Nel genocidio del 1994 hanno perso la vita trentasette membri della sua famiglia, tra cui la madre.
Nostra signora del Nilo è stato pubblicato in Italia nel 2014 dalla casa editrice 66thand2nd, nel 2019 è diventato un film, diretto dal regista afghano Atiq Rahimi.